Storie di
spostamenti di massa dovuti a migrazioni e conflitti etnici nel mondo,
fotografie di trasmutazioni di luoghi sulla terra dovute ai cambiamenti
climatici irreversibili di oggi; tali eventi dell’attualità contemporanea si
trovano al centro del lavoro di Richard Mosse raccontati attraverso la
fotografia di grande formato e la video-installazione esposte in questi giorni al
Mast di Bologna. In mostra la
retrospettiva del fotografo irlandese presenta un’ampia selezione di opere che
sovvertendo le convenzioni della fotografia documentaria o del reportage si
contaminano con l’ arte contemporanea per creare immagini di straordinaria
bellezza capaci di suscitare una riflessione etica sui temi scottanti ei nodi
irrisolti della nostra contemporaneità.
Come egli
afferma a proposito delle proprie scelte fotografiche: “ la bellezza è il più
affilato strumento. Penso che l’estetica possa essere utilizzata per
risvegliare i sensi piuttosto che per metterli a tacere, così abbiamo un
imperativo morale come narratori e fotografi di trasmettere queste storie
complesse per rendere le persone consapevoli. Cambiamenti impercettibili
accadono nelle coscienze degli individui attraverso l’arte, la scrittura, la
letteratura , un altro tipo di trasformazione”. Raccontare un evento contemporaneo,
o ancora di più una tragedia del presente implica per Mosse la necessità sollevare
un problema etico, dunque di risvegliare un atto di pensiero in chi guarda
soprattutto passando attraverso la bellezza dell’immagine, la creazione di
qualcosa che in ogni caso deve toccare, sommuovere o scuotere lo spettatore dalla
miriade di input visivi che gli passano accanto con noncuranza al quotidiano.
In questo senso l’uso della tecnologia, vale a dire il mezzo scelto per
produrre un certo lavoro fotografico o documentario resta il suo punto di
partenza alla ricerca visiva- vale a dire in che modo raccontare un certo
soggetto scottante quanto al centro dell’attualità lasciando parlare il mezzo
espressivo stesso.
Infra ( 2012)

Come ci racconta Mosse: “Cinque milioni di persone sono morti in Congo dal 1998, un disastro umanitario immane di cui non abbiamo sentito molto parlare. C’è stato un enorme spostamento di persone, milioni costretti a fuggire dalle loro case verso luoghi più sicuri e a vivere in tende di campi profughi. Nel corso del lavoro per 5 anni mi sono immerso in queste narrative ed ho incontrato numerosi gruppi armati per capire il conflitto”[1]. L’esercito utilizzava l’infrarosso Kodak aero-chrome sul paesaggio per smascherare la presenza del nemico sul territorio di guerra. Queste fotografie mostrano “l’immagine invisibile”: mappano le vallate e le montagne dell’est del Congo con una lente particolare a raggi infrarossi che trasforma la foresta pluviale in un paesaggio surreale di altopiani mercurio-argenteo e macchie velate di indaco e rosa. Un mondo surreale, un modo espressivo di mostrare la realtà restituendola simile a un sogno nel contrasto stridente tra la bellezza folgorante della natura e lo stato violento, irreversibile di guerriglia armata sul territorio. Una lente allucinante e violacea altera e ricopre ogni lembo di vegetazione sulla quale si stagliano i volti truci della milizia armata, dei singoli soldati congolesi, oppure i campi profughi e la massa di individui in fuga verso la vita. “Sono stato affascinato”, afferma Mosse “a lavorare su questa pellicola che registra l’invisibile_ un disastro umanitario rimasto tacito, non-detto- e di renderlo visibile[2]”, in forma metaforica attraverso un lavoro artistico non di semplice documentazione foto-giornalistica. Luoghi isolati a nord o sud di Kivu, gruppi ribelli nascosti in territori remoti_ il luogo opaco di un conflitto incomprensibile e atroce_ un fotografo nel tentativo di restituire “quello che non si può fotografare”. “L’immagine impossibile”[3] dovrà arrivare al cuore dello spettatore e disorientarlo, scuoterlo, farlo pensare fino a risvegliare in lui una rinnovata consapevolezza etica.
Gruppi di
popolazione si spostano per sfuggire la violenza delle milizie ribelli
congolesi. In “Thousand are sailing ,(2012)un campo profughi appare dall’alto tra
le montagne di un paesaggio impervio e desolato come una miriade di bianche
macchie di colore sullo sfondo violaceo dei rilievi rocciosi ricoperti da una
patina velata e ultra-violetta. Fuga di massa di donne e bambini in altre
immagini e, ancora, un gruppo di bambini salvati dalla violenza della guerra ma
perduti al limpido sogno della loro infanzia in “Lost fun zone” sullo sfondo
delle bianche tende dei rifugiati.
I guerriglieri in una postura fiera e ribelle sembrano sfidare in modo
aggressivo la macchina fotografica e, insieme appaiono naturalmente scenici in
pose maciste di una indiscutibile presenza visiva. Eppure ci colpisce il contrasto nel vederli immersi in alcune
immagini tra fronde indaco dai toni poetici e surreali oppure sullo sfondo di
paesaggi roccioso e lunare mentre un soldato armato congolese in posa virile
tiene tra le braccia un neonato addormentato quietamente sul suo petto.
Come afferma
Mosse: “ la bellezza farà sentire”, toccare e commuovere le persone, le farà "restare
in ascolto” usando il potenziale dell’arte
oltre i limiti del fotogiornalismo tanto da sfiorare l’idea del sublime
moderno: rendere visibile attraverso la bellezza ciò che è incommensurabile
quanto l’infinità della natura, ciò che è oltre i limiti del linguaggio e dare
al esso un peso etico, la necessità implicita
di rendere una testimonianza, umanitaria e politica insieme.
2- Heat maps/
Incoming (2014-18)
La serie
fotografica insieme alla più recente installazione visiva di “Incoming”
riscrive la storia dei recenti flussi migratori in Europa nella dialettica
irrisolta tra apertura e chiusura dei confini mentre il mondo occidentale si dibatte
in un circolo vizioso tra accoglienza e rimpatrio, compassione e rifiuto oscillando
tra il prevalere dell’umanità o il freddo calcolo politico.
Come Mosse afferma
nella sua presentazione di “Incoming”:
“ La crisi in corso dei migranti
attraverso l’Europa non è una singola storia ma una serie di storie tante
quante sono i rifugiati e le persone che li hanno aiutati nel loro cammino
verso la salvezza. (..)Mi sono imbattuto in una nuova tecnologia fotografica,
il potente strumento dell’immagine termica che registra il calore e può
intercettare un corpo alla distanza di 30 km. Ho usato questa macchina
all’opposto del suo originale proposito_
operazioni militari e di rafforzamento dei confini_ per raccontare in
modo autentico le storie dei rifugiati che continuano ad approdare sulle nostre
terre.”[4]
Heat Maps costituisce una serie di immagini realizzate lungo i percorsi
migratori dal Medio oriente e dall’Africa verso l’Europa adattando una termocamera
militare a un intento artistico-documentario. Rappresentano con un effetto straniante
minuscoli dall’alto i campi profughi di Atene in Grecia, in Turchia e in Libano
e una distesa di container all’aeroporto di Berlino per accogliere gli immigrati
illegali.
Il campo di Moria per esempio è visto a distanza come un’enorme
distesa di casupole che si stagliano l’una accanto all’altra e proseguono anonime all’orizzonte su un terreno arido e brullo
nell’iper-saturazione dell’immagine post-produttiva. Dalla nebulosa oscura del
fondo risaltano fili elettrici, alberi,
container e baracche immerse in una spietata e gelida geometria di forme che
evocano segregazione, marginalità, prigionia e non possono non richiamarci vagamente
alla mente i meccanismi di persecuzione visti nei lager nazisti. Altrove sono
container iper-moderni in una sequenza di linee astratte e futuriste che
disegnano linee di segregazione nel rigore esasperante di una tecnologia atta
all’isolamento e al controllo disumano sugli individui.


Nella più recente istallazione del 2017 “Incoming”le immagini in movimento si susseguono simultaneamente su tre schermi immersi in un’ambientazione sonora e visiva straniante che sommerge e disorienta lo spettatore. Immagini lente e solarizzate dai contorni fluttuanti e sfumati in bianco e nero prodotte delle termocamere di sorveglianza dei porti occidentali si susseguono in montaggio libero sui tre schermi mostrando i profughi alla discesa dalle navi di salvataggio e la mobilitazione dei mezzi di soccorso costiero. Nei punti di vista multipli del video si alternano in maniera ambivalente protocolli di sorveglianza e controllo, d’altro lato la paura, la salvezza o la disperazione per chi arriva profugo dai mari. Le voci fuori campo dei paramedici soccorrono i corpi sommersi, il caos, una folla di volti disperati accovacciati l’uno sull’altro; i passi lenti di qualcuno , l’attesa. Uno di loro si inginocchia gettandosi acqua sul volto disseccato dal mare. Sullo sfondo il rumore dei droni, voci fuori campo, ora una sonorità ipnotica ad avvolgere la scena, poi il silenzio. Un’esplosione quasi iridescente illumina i corpi solarizzati, visti come figure lente in movimento; sullo sfondo oscuro della costa d’un tratto un’improvvisa luminescenza.
“Perdere una casa significa perdere molte cose ma in primo luogo il calore”[5] afferma il fotografo citando un noto proverbio irlandese dove la parola casa è sinonimo di focolare: la base del camino, il posto più caldo della dimora. Questi individui, come egli afferma, hanno lasciato ogni cosa dietro di loro, in particolare il calore di un focolare per esporsi al freddo, alle intemperie e alle tempeste di mari sconosciuti nella speranza di approdare verso terre remote quanto ultime spiagge di speranza. Il calore nel lavoro di Mosse rinvia allo strumento tecnologico utilizzato per filmare l’arrivo dei profughi nei porti europei ma anche all’accoglienza e all’umanità di un calore umano che diventa freddezza, di una compassione che diventa indifferenza mentre lo sguardo attuale nella crisi politica europea oscilla tra paura e rifiuto dell’altro, in ogni caso nella minaccia esposta dello straniero . Come il termine termografia allude, l’intento metaforico dell’immagine è quello di restituire il calore di queste storie di dislocazione, di perdita e fuga obbligata lasciando parlare in molteplici punti di vista il dramma migratorio: l’inquietudine dell’autoctono sovrano, lo sbarco di massa nei porti filmato dalle videocamere di sorveglianza, infine uno sguardo più intimo che, impersonale, giunge a illuminare volti, corpi, singole umanità in autentici gesti di salvezza.

[2] Idib., Mosse
[3] Ibid., Mosse
[4] Richard Mosse, “Picturing crisis in Incoming”, video on www.youtube.com
[5] Ibid., Mosse