In quali forme e modalità l’antico, il classico o il lascito
dei grandi modelli della tradizione è stato ripreso, citato, recuperato,
richiamato in vita in senso proprio o nel suo “ inverso” attraversamento in
tutta l’arte del novecento dalle avanguardie storiche alle neo-avanguardie a
ridosso del contemporaneo? Rilettura inedita, citazione ironica, iconica
riscrittura contemporanea, simulacro o rifacimento dissacratorio
dell’originale, tutte le varianti mettono in discussione la definizione stessa
di “modello” e il valore di “tradizione”
nel suo modo d’essere compresa e re-interpretata oggi. Soprattutto se pensiamo alla citazione di
Bontempelli scelta per introdurre la prima parte dell’esposizione dove si
afferma che “la tradizione non è il passato morto” non è un nostalgico ritorno
a una materia inerte o priva di vita ma
“quello che vive e si tramuta” per muovere verso una nuova forma, quello che di
vitale resiste, persiste e, pur mantenendo un legame con la sua provenienza,
non smette di riconfigurarsi sotto nuova immagine, in un linguaggio che giunga
ancora a parlare ai suoi contemporanei. Le opere rappresentate al Mar di
Ravenna ricoprono l’intero arco del novecento facendoci comprendere come il
tema della “seduzione dell’antico”, del classico o del modello inflazionato
dalla tradizione assume le sembianze di un ritorno alla figurazione per un
certo filone di pittura italiana del primo ‘900 nel pieno esubero delle
avanguardie, e, ancora, di riscrittura inedita, deliberata rielaborazione di
temi o citazioni classiche in De Chirico, Severini, Carrà ecc, Infine, esso
compare come influenza paradossale del passato sull'estremo contemporaneo malgrado la separazione o il distacco sanciti dal post-moderno e nel rovesciamento dei suoi
presupposti ri-emergenti più come alterità, simulacro o modello svuotato di ciò che non si è più o in cui non ci si identifica più veramente nella relazione alla tradizione.
“La seduzione dell’antico” è, dunque, nell’inedita rilettura
proposta dall´esposizione ravennate un dialogo aperto con la pittura novecentesca nelle sue fasi alterne
di ritorno alla figurazione o nel totale abbandono della medesima da parte
dell’arte moderna. Infine, essa ritorna come la traccia infinitamente riscritta
e cancellata, rifatta e contraffatta della tradizione classica nell’estremo
contemporaneo parlandoci di una ininterrotta “trasmutazione di linguaggi”
piuttosto che del nostalgico ritorno a una materia d´ archivio; sempre e
comunque si vuole come sintesi inedita capace di tenere insieme presente e
passato, storia e mutevole attualità.
Il passato nella tradizione pittorica (come nella nostra
esperienza) attraversa il presente in
una complessa sfaccettatura di forme viste insieme nella frattura e nella
continuità e di lì si estende fino al futuro. L’arte riattualizza l’antico o i
suoi valori in tutta la prima parte del ‘900 recuperando il filone figurativo
attraverso ritratti, paesaggi o nature morte oppure risponde con quello spirito
neo-barocco che in artisti come Fontana,
Leoncillo ecc. rigetta il “ritorno all’ordine” di tanta pittura italiana di
quegli anni per esprimersi in forme esuberanti e barocche nell’esasperazione
dei modelli classici e nell’esaltazione dei colori. Diviene messa in scena dei suoi simulacri a
partire dal secondo dopoguerra, evocazione in assenza di un vero originale,
ritorno ironico o dissacratorio, in alcuni casi parodico a quei modelli nei
termini più specifici della pop-art o dell’arte concettuale come per il celeberrimo "Envers de la peinture" di Duchamps all’interno di un campo d’azione artistico aperto
e multiforme.
Il critico Marco Tonelli scrive: “Il tempo lo si può e lo si deve sentire all’opera nell’opera
contemporanea che si mette in relazione
all’antico”, deve essere una traccia che si scolpisce nella finzione
o nella messa in scena oppure l’ innesto dell´antico su un nuovo segno, perché
non siamo più in un rapporto di continuità con il passato ma, invece, esso ci
appartiene come alterità, come referente in assenza o come il negativo d’un
immagine fotografica che non è più, non come memoria diretta ma come lascito
indiretto, impronta in assenza. Passato
e presente abitano tuttavia la superficie delle opere contemporanee in una
serie di “coesistenze” che divengono anche
sovrapposizioni e insieme “sovra-opposizioni” perché non è l’antico che
è passato e il contemporaneo che avanza lasciandoselo semplicemente alle spalle
ma l’uno che deflagra nell’altro, che lo invade, lo sdrammatizza, lo deride,
mette alla prova il senso univoco d’un estetica dell’attuale in un ritorno all'antecedente, al modello illustre, all'archetipo svuotato con la coscienza del post, dell'estemporaneo o dell'attuale. Il contemporaneo si posiziona in una implicita
alterità là dove esso attinge e affonda nel passato come a un reservoir- deposito
di materia virtuale; vero e falso, originale e copia, reale e simulato appaiono
sempre più in innesto inevitabile anche solo a livello di suggestione indiretta
o non-voluta nell´opera contemporanea.
Come afferma Georges Didi- Huberman nella sua
definizione di “anacronismo”: “il passato
non smette mai di riconfigurarsi in un’immagine nuova; non è il presente che
cita il passato ma quell’immagine che ritorna e si riconfigura in forme e modi
diversi parlando la nostra lingua”. Le sculture antiche giunte a noi in
tante installazioni o opere d’artisti contemporanei al Mar di Ravenna appaiono mutilate, acefale, frammentate,
viste per parti, in montaggio voluto o in ricomposizione imperfetta,
anacronistica , pur non esitando a ritenersi lasciti o simulacri di modelli
d’una bellezza antica, assoluta. Devono portare in loro necessariamente la
traccia e la scissione prodotta dal tempo, in qualche modo la traccia e l´impronta
della loro inguaribile ferita temporale. Dunque l’antico sarà visto in queste
opere piü vicine a noi temporalmente come un contenitore svuotato di una reale
essenza storica da cui l’artista estrae con ironia, leggerezza, in modo
intempestivo e in costante movimento di
linguaggi, modelli manipolabili in una
operazione di originale recupero del passato sulla superficie della
contemporaneità.
Salvator Dalì, “Metamorphose topologique de la Venus de Milo
traversée par des tiroirs” (1964)
Il corpo in bronzo verde-rame, rilucente della sontuosa
scultura di questa Venere della classicità
è visto in proporzioni massicce, granitico e magnificente su un
piedistallo di pietra ma scomposto in comparti stagni, traversato da cassetti
simulati, reservoir o comparti interni del corpo, depositi di oggetti, effetti
ed emozioni, che s’aprono visibilmente dalla sua forma granitica in bronzo.
Massiccia ma esposta e scomposta insieme la figura appare aprirsi, dispiegarsi
per comparti stagni, per segreti nascondigli, in ardui ordigni pronti a
esplodere a ripetizione. Fronte e mento, seni e gambe sono attraversate da
lame, tagliate trasversalmente da piani apparenti come si fosse di fronte al
gioco di qualche illusionista che sezionando
parti del corpo ne riversa in forme visibili all’esterno i segreti comparti.
Immensa e solitaria la piazza d’una anonima città d’Italia vista nelle ore più calde del mezzogiorno appare astratta nell’ambientazione e nitida nelle tonalità degli ocra degradanti sullo sfondo in gialli accesi, e verdi smeraldi tendenti a imbrunirsi in cupi blu crepuscolari al limite dell’orizzonte. Ombre si prolungano immense oltre le figure reali, attraversano l’immensità vuota sullo sfondo metafisico e soleggiato della piazza, in lontananza il profilo della città. La citazione d’una scultura classica, statuaria in bianco al centro del dipinto domina lo spazio, arcate di edifici antichi si profilano ai lati mentre le ombre geometriche si prolungano nel contro-luce netto, incisivo, assoluto quasi generato dalla piena luce del mezzogiorno. Le due piccole figure a lato restano impersonali, anonime, viste a distanza mentre le proiezioni delle medesime dominano al centro della scena; abitano quell’ambientazione onirica, astratta portata dalla pittura fuori dal tempo e dalla storia, frammista a citazioni del passato e immersa in una immobile visione d’assenza.
Lo sguardo scivola senza potersi soffermare su questa figura
in gesso d’una dormiente in alto-rilievo: bianca della bianchezza della pietra da
cui deriva, marmorea e levigata come le statue classiche ma in un ritorno voluto
e invocato alla figura, all´umano, alla visione d´una creatura abitata da un
soffio vitale per usare il termine dello scultore Martini. Tuttavia, la purezza
ed essenzialità delle sue forme travalica il realismo della scultura accademica
del primo novecento per darsi in una nuova sintesi plastica prodotta dalla modernità.
Dormente, appare vegliata da un insolito rapace notturno a lato,
vista in un sonno di morte, indeterminato, in attesa di risvegliarsi ma
in un tempo a noi ignoto, oltre la superficie del piano, del giaciglio dove
e´collocata nel presente, volta su un lato, gli occhi chiusi. Esile e
stranamente abitato quel corpo, profondamente umano, in una sospensione simile
a morte, nel simulato approdo su una terra di pietra delimitata da pochi segni,
tronchi d´albero, un involucro scolpito
nel gesso per adagiarsi e il vuoto non ben identificabile dello spazio
circostante.
Paesaggi, nature morte, ritratti.
Il poeta T. S. Eliot afferma nella citazione riportata
all´inizio della sezione: “La tradizione non la si può ereditare, la si deve
conquistare a fatica, con grande sforzo”. Le nature morte dell´inizio del
novecento qui poste a confronto sono l´emblematico esempio di tale operazione
effettuata sull´immobile vita d´oggetti inanimati, citazioni appartenenti alla tradizione di una
pittura di genere nel tentativo di reinvestirli
d´una “miticità” , per usare l´espressione di Breton, di renderli
oggetti investiti di un´aurea seducente e misteriosa per chi guarda, capaci di risvegliare o
portare in sé il senso e l’essenza di un´epoca. Allo stesso modo in Severini e
Derain la “natura morta con pesci” appare abitata da forme di creature palpitanti,
vive, quasi in trompe-l´oil sul
quadro, che soprattutto in Derain sono viste in primo piano appoggiate su una
tovaglia o, in Severini, quasi trasbordando dai piatti d´una bascula da
mercato. Ancora vivi e con i loro occhi vividi
i pesci appaiono divorare la superficie della rappresentazione per
arrivare fino a noi, rompere la bidimensionalità
della tela e imporsi in animata presenza.
Nella composizione astratta di Morandi, al contrario, gli
oggetti, vasi e bottiglie in immobile presenza, sono visti a distanza nei
colori opachi e sfuocati, in tale atmosfera metafisica particolarissima e a lui
sola di sospensione del tempo e della
materia, di dialogo segreto con la loro più intima verità che l´artista sembra
stabilire. In tale assolutezza di visione essi appaiono, quali intrinseche
presenze parlanti in sé, essenziali e insostituibili al centro della scena, in
dialogo segreto con il pittore, espandendosi nell´aurea luminosa della loro più
autentica presenza.

Scomposto ma presente, multiforme, irriducibile a unità ma
incisivo attraverso uno sguardo percuotente
pur nella irrimediabile scissione.
Il ritratto nella molto più recente versione de “l´uomo seduto” di Zoran
Music (1992) diviene ombra di sé stesso,
figura de-figurata e sfatta, sfumata e immensa, avvolta in un’ aurea oscurante che
come alone nero avvolge il corpo rendendolo massa inerte di materia,
volutamente aspirato dal fondo materico,
dal moto dileguante del sé identitario.
“La nostra anima e´un paesaggio scelto” scrive Verlaine come
leggiamo all´inizio dell´introduzione di “paesaggi”. Il paesaggio visto qui n
una risonanza dell’antico al di fuori delle sperimentazioni avanguardistiche tende
tuttavia a risuonare d’una sensibilità moderna, d’un riflesso interiore
dell´ordine di una verità più intima, o del riflesso storico-sociale di
un’epoca. Paesaggio dell´anima quando essa appare oppure d´una essenzialità che
rinnega la natura estetizzante della rappresentazione.
Leoncillo, “Tevere”
La città sale, il paesaggio e´ un fiume, una corrente, una scia
d’acqua che cresce e si estende in verticale, in espansione gioiosa verso
l’alto , una costruzione fittizia fatta forse solo di parole.
Un insieme di case in movimento attraverso quel tracciato
fluido e bluastro.

Leoncillo, sull’immagine
“La pelle lucida e
umida di un albero giovane dove ci sono tanti buchi scuri, il nero che sta
dietro le case e che viene invece avanti dopo averle girate dappertutto
intorno, una figura cui la luce dissolve tutto il volto ed ha ombre sottili che
gli scorrono addosso come rigagnoli. L’immagine viene da dentro e assume il
volto di tutti quei sentimenti o emozioni sottili che ci agitano, e prende il
senso della gioia esaltata che vorremmo afferrare, della tenerezza ferita che
nascondiamo, infine dello scuro e fermo riposo dove vorremo trovare pace.”
Trovare una forma visiva per queste immagini, un segno, un colore e una materia che risponda alle fluttuazioni sottili di questi paesaggi interiori, questo l’esito e il tentativo delle inedite sperimentazioni neo-barocche di artisti come Fontana, Leoncillo, Scipione ecc. che reagiscono al ritorno all’ordine del filone classicista nella pittura italiana degli anni ‘30 andando a risvegliare una sensibilità moderno-barocca impressa di pathos. Il suo diverso paradigma giustamente supera i limiti del modello classico per sfociare in palesi finzioni visive: linee mosse e vibranti, figure tortuose, volti carichi di drammaticità.
Trovare una forma visiva per queste immagini, un segno, un colore e una materia che risponda alle fluttuazioni sottili di questi paesaggi interiori, questo l’esito e il tentativo delle inedite sperimentazioni neo-barocche di artisti come Fontana, Leoncillo, Scipione ecc. che reagiscono al ritorno all’ordine del filone classicista nella pittura italiana degli anni ‘30 andando a risvegliare una sensibilità moderno-barocca impressa di pathos. Il suo diverso paradigma giustamente supera i limiti del modello classico per sfociare in palesi finzioni visive: linee mosse e vibranti, figure tortuose, volti carichi di drammaticità.
Mirko, “Il prigione” (1945)
Appoggiato a un supporto quasi fosse sul punto di
precipitare, liquefare o lasciarsi disfare al suolo, il corpo dalla figura
esile e tortuosa appare scolpito nel vivo di un gesso dipinto e vibrante, mosso
e insieme intagliato, inciso a vivo sulla pietra. Il gesto violento della
scultura resta impresso a vivo sulla materia; appare soprattutto nel processo
del togliere, dello scavare, del rendere la pietra abitata, tormentata o
svuotata dall’interno, in alcuni punti presa a colpi di scalpello e volutamente
compromessa, segnata da quello. Sostenuto da un supporto trasparente in vetro il
corpo tortuoso e scavato nega volutamente la bellezza levigante e perfetta
della forma classica, così come l’armonia delle sue proporzioni e la statuaria
della sua visione anatomica d’insieme. Modernamente barocco nell’eccesso
dell’intarsio fin quasi alla deformazione e nella sproporzione voluta delle
forme, il corpo nudo è intaccato, preso in una “prigionia” dell’essere, nel fuori-figura
e fuori-contorno. E’ carne nuda in assenza dell’io, immagine perturbante di sé
impresso nel gesto violento e non-finito della scultura.
“L’Arpia” di Leoncillo (1939) è leggibile come un’ulteriore sperimentazione
neo-barocca della scultura negli anni ‘30 attraverso la suggestione raccolta da
un mito classico che, ugualmente, trova nuova rivisitazione figurativa
nell’arte moderna. Masticato e rigettato fuori come archetipo appartenente all’immaginazione
collettiva, è la storia di un mito che, ancestrale e universale, riesce a
rigenerarsi e dare vita a nuova personificazione attraverso la scultura. Il busto appare come una figura in terracotta
invetriata dai seni irti, le unghie rosse policrome e i capelli d’un nero
corvino lunghi e brillanti da fiera del mondo. Il volto appare quasi reclinato
all’indietro nell’eccesso di pathos e rabbia. Traslucida, la materia
scintillante scorre appuntandosi negli estremi rosso-magenta dei seni e delle
unghie; in disfacimento, in liquefazione, in esubero di sé per l’effetto che la
terracotta colorata e invetriata produce. Marmorea e scintillante alla vista, tale
creatura mostruosa dal corpo a metà di donna e a metà di fiera rapace appare
ergersi indomita e feroce, ispida e lucente nella disfatta.
Mito e memoria: “Crocifissione” ,
Salvator Dalì (1954)
Il corpo del Cristo nella crocifissione di Dalì appare
meravigliosamente limpido e puro, polito nella figurazione dall’eco classico,
non affetto dal dolore della carne o dallo scorrimento del sangue sul suo
costato. Si dà nella nudità palesemente non
taccata della materia-corpo in attesa o già proiettato verso un altrove divino mentre
il fondale immerso nell’oscurità surreale del mondo appare popolato di brume, tempeste,
nuvole cariche di pioggia, figure appena accennate e lievi cavalli alati. Se il
corpo si staglia meravigliosamente nitido in primo piano il volto appare
distolto dal nostro sguardo, proiettato verso
l’altrove, assente e già rivolto verso l’ascesa celeste, il ricongiungimento al
piano superiore del divino. Surreale la
pittura di Dalì è immersa nell’oscurità discesa sulla terra durante e dopo la
crocifissione, il momento della totale assenza di luce,la notte dell’anima come
la morte annunciata del figlio di Dio ma anche la prefigurazione del
ricongiungimento a lui, dell’annunciata risurrezione come l’alba di un sogno
che trapela attraverso l’oscurità in lievi figure e bianchi cavalli alati in
lontananza.