
La
scelta curatoriale del Mambo sceglie di esplorare attraverso una serie di
scritti e immagini filmiche e fotografiche alcuni nuclei centrali, luoghi e
figure mitiche attorno a cui ruota e si costruisce, si consolida e si trasforma
l’universo poetico di Pasolini dalle prime poesie in dialetto friulano, alla
narrativa ambientata nelle borgate romane del sotto-proletariato urbano, al
cinema di poesia e agli scritti “corsari”, alla critica della società
consumista e del potere neo-capitalista, fino alle ultime opere uscite postume,
il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e il romanzo incompiuto “Petrolio”.
“Officina” in questo senso è anche il lascito di un’opera aperta e poliedrica
che si vuole testamento per le future generazione di artisti, poeti o registi
cinematografici e teatrali, fucina di idee e immagini, scritti e riflessioni
critiche alle quali attingere, ispirarsi o dialetticamente mettersi in dialogo
quasi proseguendo su un sentiero tracciato e lasciato aperto per un’opera come
quella pasoliniana che, come sottolinea la mostra, si vuole risolutamente
non-finita, o meglio dal finale aperto, in divenire, in un divenire-altro, estraneo e oltre sé stesso: altra parola, altra lingua e corpo a partire da quella .


Il
Friuli ( “Poesie a Casarsa”1942) Sequenze filmiche e immagini fotografiche a
confronto
Nel
corso di mezzo secolo, l’estensione temporale che ricopre l’insieme
dell’esposizione, l’Italia assiste a una trasformazione profonda e radicale
come se almeno due paesi e due rivoluzioni siano passate attraverso essa.
Durante e nell’ immediato dopoguerra la realtà italiana della provincia friulana
è ancora quella rurale di matrice contadina sprofondata nel provincialismo,
legata all’impronta fascista, al retaggio clericale e ai valori
nazional-popolari prodotti dalla resistenza.
Negli
estratti delle immagini filmiche che documentano quest’epoca appaiono casali
isolati nella campagna friulana, distese verdi e piane viste a distanza, rapide
attraversate di figure femminili filmate in un paesaggio ventoso , poi nugoli
di case rurali, uomini in uniforme militare fascista, coaguli di donne e madri,
qualche rappresentante in tonaca della chiesa. Le immagini evocano un mondo
antico, arcaico sprofondato in una dimensione meta-storica dove la vita nelle
campagne è vista nel suo immobile svolgersi, in una sorta di incanto poetico o
nel ricordo mitizzato dell’infanzia. Tali i temi delle prime “poesie a Casarsa”
del 1942 scritte in dialetto friulano:
“ Suona il glorie. A mia madre batte il cuore
come a una bambina, e fuori il sole scalda come cinquant’anni fa, quando c’era
solo Casarsa in tutto il mondo. (“Le campane del glorie”)
“Casarsa in quel calore d’estate che non
muore mai, bianco e secco come la calce la vedo qui vicina e io bambino, coi
calzoni e le maglie sulla carne che mi trema[…] bruciante e grande come il
mondo che ardeva a Casarsa.”(Un grappolo d’uva)
Nelle
fotografie in bianco e nero della stessa epoca un villaggio si staglia visibile
in lontananza dal solo campanile attraverso la campagna denudata al fondo di
terreni incisi da profondi solchi e sentieri in terra battuta imbruniti dal gelo. Ora è il fondale
di un fiume con a lato un casale in pietra grezza avvolto da una vegetazione
aspra e selvaggia; rami d’alberi lussureggianti si stagliano nel contro-luce
d’ombra. Una strada ferrata ricoperta a tratti di neve conduce al borgo; là è a
una stazione solitaria in mezzo a distese gelate mentre sentieri di terra
battuta s’aprono attraverso vigneti
sconfinati e campi spogli.
Se questo
Friuli vive “al di là del tempo”, Casarsa è l’immersione in un mondo
primitivo, epico e leggendario che diviene rifugio e totalità per il poeta,
culla e sede della sua memoria anche attraverso la relazione viscerale che
stabilisce al linguaggio, la koinè dialettale scelta per le poesie, lingua materna che gli permette di accedere a
questa anteriorità della parola e dell’essere attraverso la poesia. La
civiltà è quella pre-capitalistica,
contadina, l’umanità vi appare incontaminata in una innocenza primordiale, il
paesaggio è quello di Casarsa, la giovinezza impregnata di immobilità e senso
di morte quasi in un narcisistico ripiegamento su sé stessi.
Nelle
pitture ad olio del periodo giovanile
visibili alla mostra si alternano paesaggi del Tagliamento abbozzati in
rapidi tratti realistici e volti dal forte eco rimbaudiano dove la figura dell'
auto-ritratto appare appena accennata o disegnata in profondi chiaro-scuri:
giovane poeta-Narciso in ripiegamento malinconico su sé, voyant visto in
maniera ambivalente tra il lirico incanto poetico e l’atmosfera impregnata di
immobilismo e nostalgica contemplazione in immobile presenza.
La figura
della madre

Le
presenze femminili, la schiera di madri che popolano i film di Pasolini sono
figure dell’eccesso, della dismisura di un legame indissolubile tra madre e
figlio, di quell’assoluto l’amore che conduce a disperazione ed angosciosa solitudine per il poeta: figure
addolorate o straziate come il volto della madre del Cristo (interpretato da
Susanna Colussi, vera madre di Pasolini) vista ai piedi della croce assistendo
alla morte del Figlio agonizzante e, insieme, al compiersi ineluttabile del
destino messianico del Figlio di Dio. Oppure ancora, Medea/Callas eroina
tragica, maestosa e sublime insieme ripiegata sul proprio indomito abbandono , infine Anna Magnani al culmine della propria
forza espressiva in Mamma Roma o ancora Silvana Mangano, Giocasta in
Edipo Re.
A
partire dagli anni ‘50 Pasolini approda a Roma dopo la fuga da Casarsa entrando
in contatto con i ceti del sottoproletariato urbano dove scopre la forza vitale
di un mondo primitivo, disperato e vivo dal parlato gergale e violento delle
borgate romane fino a farsi a tratti crudele: una classe popolare dall’identità e la storia non ancora
sottomesse o contaminate dal capitalismo e dal modello borghese.Tra le
immagini indimenticabili che scorrono silenziose sulle pareti dell’immensa
galleria centrale del museo sono il volto della Magnani, prostituta in “Mamma
Roma” donna popolare vista sullo sfondo delle borgate romane nel tentativo di
riscattarsi, cambiare vita e accedere al mondo piccolo-borghese per occuparsi del
figlio Ettore. Sullo sfondo della periferia urbana, ai margini della nuova
realtà capitalistica in espansione la donna avanza lungo una strada costeggiata
dai palazzoni bianchi e anonimi ai margini della nuova città camminando a un
ritmo lento e cadenzato in lunghi piano-sequenza. Il primo piano ora è sul suo volto, figura epica e tragica insieme, moderna eroina greca dai tratti
marcati nel profondo chiaro-scuro del volto che incarna insieme l’essere
“minore” o minoritario di un popolo o di un gruppo, il divenire soggetto “identitario” per una
sottoclasse proletaria e il pathos individuale del personaggio
nell’espressionismo visivo portato agli estremi. Il suo volto nulla cela ma
come un magnetico polo d’attrazione di forze uguali e contrarie che si giocano
dall’intimo fino a lasciare traccia sulla sua superficie lascia trasparire,
dilagare in rari momenti_ nello sguardo acceso dalla rabbia, nella lieve
contrazione delle labbra, nel gesto del prendersi il volto tra le mani con
disperazione_ l’ineluttabilità di un destino,
l’abbandono o l’ombra di una follia che pare sfiorarla a tratti, affacciarsi e dileguare a istanti. Quasi il personaggio femminile fosse lì a
incarnare un’umanità dolente posta di fronte a un impossibile riscatto, il
sogno di un’improbabile redenzione rispetto a un destino individuale e d’un
intera classe proletaria.


Nella
scena finale esse sono filmate come scia di corpi e drappi neri in lontananza
attraverso il paesaggio arido spoglio dello sfondo avvicinandosi alla montagna
dove si è radunata la folla, soldati e centurioni romani al momento della
crocifissione. Il giovane Cristo è immobilizzato sulla croce, un grido
straziante di chiodi piantati sulle mani, poi la croce è sollevata
all’orizzonte in egual distanza da altre due in una distribuzione prospettica
dello spazio ispirata alla tradizione pittorica rinascimentale. Dal coro
dolente di figure tragiche greche inginocchiate in veli neri ai piedi della croce si staglia lo sguardo estatico
della madre, il primo piano sul suo volto rapito in una sorta di estasi dolorosa, nell'ultimo
ricongiungimento al figlio sul punto di morte, nel pianto assente e nel pathos
trattenuto in quell' estremo di figurazione di un tragico moderno.


Nel Vangelo pasoliniano emerge il carattere rivoluzionario del messaggio cristico liberato da molte sovrastrutture dell’interpretazione ecclesiale più corrente e riportato, in qualche modo, alla forza cristallina del testo evangelico, alla figura messianica di un Cristo enunciatore della Parola; lui, portavoce della legge universale dell'amore e del perdono ma, allo stesso tempo iconoclasta e rivoluzionario nell'atto, appare come un'altra figura mitica o nucleo centrale intorno al quale ruota la poesia giovanile.
Nel “Vangelo” pasoliniano è giustamente un Cristo
-uomo , giovane e combattivo venuto a portare la spada, il fuoco e non la quiete
tra gli uomini a scagliarsi violentemente contro l’ingiustizia, l’ipocrisia e
il male della terra là dove il divino si incarna al più profondo dell’umano
attraverso la venuta del figlio fino a raggiungere il segno del trascendente,
la folgorazione divina in lui attraverso l’annuncio della Parola. La potenza
del Vangelo è la forza della predicazione messianica nel film: il messaggio
divino iscritto al cuore dell’umano, nel più intimo del suo corpo, risuona
della sua eco in parole e silenzi propagandosi in piani sequenza di un universo primo, precedente il logos inteso come
l’ordine della ragione, dunque in essenza poetico. Il sacro vi si iscrive qui
nella sua portata profondamente irrazionale, inconoscibile, in quell’elemento
di visionarietà, nell’intuizione del divino che si ricongiunge e interroga il
mistero primo del mondo.
“
Voi udrete con le orecchie ma non intenderete, voi vedrete con gli occhi ma non
comprenderete poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno
indurito le orecchie, e hanno chiuso gli occhi per non vedere e per non sentire
con le orecchie.”
“Voi
siete il sale della terra ma se il sale diventa scipito chi gli renderà il
sapore, non serve ad altro che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
Voi siete la luce del mondo, non può stare nascosta una città posta sopra un
monte. Non si accende un lume per riporto sotto un moggio ma su un candelabro e
fa luce a tutti quelli che sono nella casa .”
“Perciò
vi dico non vi affannate per la vostra vita, per quello che mangerete o
berrete, né per il vostro corpo per cosa vestirete. Non vale forse più la vita
del nutrimento e il corpo più del vestito? Cercate prima di tutto il regno di
Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non vi
affannate dunque per il domani perché il domani avrà le sue inquietudini, basta
a ciascun giorno la sua pena. Quanto stretta la porta, quanto angusta è la
strada che conduce alla vita e pochi quelli che la trovano”.
Critica della modernità
“Sabaudia” è una sorta di città fantasma fatta
costruire su misura dal regime in epoca fascista nei pressi di Orte non lontano
da Roma negli anni ‘20. In un documentario del 1974 intitolato la forma della città” Pasolini filma il
profilo, l’architettura, il corpo di quella città a distanza, dall’alto delle
sue dune e sentieri sabbiosi e guardandola dal lato opposto della costa, dal
mare e dalla macchia mediterranea nei siti disertati,attraverso le strade e gli
antichi edifici imperiali di impronta fascista immersi nella grigia luce della
sua storia sullo sfondo del Mediterraneo. Quell’architettura ideologizzata,
quella città di stampo fascista, afferma il regista, non ha nulla di
assurdo o irreale ma guardandola a distanza di tempo assume, invece, un carattere metafisico, facendo
pensare alla pittura di De Chirico, e insieme realistico per le singole
umanità che la abitano. “Creata dal regime non conserva nulla d'esso” afferma
Pasolini se non alcune sue forme esterne e, nonostante presenti ancora oggi gli
evidenti caratteri razionalistici, estetizzanti e accademici dell’epoca non
trova lì la sua identità e le sue radici ma in quell’Italia precedente e provinciale, rustica, agricola e
paleo-industriale sulla quale il fascismo si era instaurato. In un momento
preciso del cortometraggio Pasolini arresta il suo avanzare attraverso i
sentieri sabbiosi di Sabaudia e volgendosi verso gli spettatori scaglia la sua
denuncia aperta contro la nuova società edonistica e dei consumi instauratasi
in Italia negli ultimi decenni sotto il segno generalizzato di un
neo-capitalismo che livella tutte le differenze politiche, di classe, sociali
e identitarie. Ci troviamo sempre più, afferma il regista, di fronte a un mondo
alienato dalla civiltà del consumo, dal capitalismo o da una piccola-borghesia
generalizzata alla quale tutte le altre classi aspirano a uniformarsi. L’Italia
sta vivendo “un processo di adattamento alla sua degradazione”, alla sua inerte
passività o mera accettazione dello stato di cose, del luogo comune,
dell’opinione generalizzata nel lavaggio del cervello mediatico quotidiano o, ancora, in
una diffusa e accettata omologazione all'abitudine di un non-pensiero corrente
fino al totale azzeramento di ogni autentica cultura.
“Ora
succede il contrario: quell’appiattimento e acculturazione che il regime non è
riuscito a ottenere il potere della società dei consumi riesce a ottenerlo
perfettamente distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai
vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in differentemente. Questo
il vero fascismo che sta distruggendo l’Italia”.
Ancora in un altro articolo comparso sul Corriere della sera nello stesso anno Pasolini scrive: “ I ceti medi sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi sono i valori dell’ideologia edonistica e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di stampo americano. E’ stato lo stesso Potere attraverso lo sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania di consumo, la moda, la televisione a creare tali valori gettando a mare cinicamente i valori tradizionali. L’Italia contadina, paleo-industriale è crollata, si è disfatta, non esiste più e al suo posto c’è un vuoto che aspetta solo d’essere colmato da una completa borghesizzazione”.
Gli scritti giornalistici quotidiani e settimanali dal ’73 al ’75 raccolti in“ Scritti Corsari” e “Lettere Luterane” testimoniano tale radicale critica della modernità per un Pasolini osservatore attento della società contemporanea, testimone acuto e sofferente demistificatore dei processi sociali post-capitalistici, dalla corruzione della classe politica alla sua collusione con la criminalità, agli attentati terroristici negli anni ‘70, al declino della chiesa. Estremamente rilevante risuona ancora oggi la sua critica contro l’acculturazione prodotta dalla nuova società soprattutto rispetto alle giovani generazioni cedute alla seduzione d'una facile riuscita, all’appiattimento conformista e a una libertà apparente o falsa concessa al corpo e alle pratiche di vita per meglio poterlo controllare, manipolare e espropriare della sua vera libertà.
Ancora in un altro articolo comparso sul Corriere della sera nello stesso anno Pasolini scrive: “ I ceti medi sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi sono i valori dell’ideologia edonistica e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di stampo americano. E’ stato lo stesso Potere attraverso lo sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania di consumo, la moda, la televisione a creare tali valori gettando a mare cinicamente i valori tradizionali. L’Italia contadina, paleo-industriale è crollata, si è disfatta, non esiste più e al suo posto c’è un vuoto che aspetta solo d’essere colmato da una completa borghesizzazione”.
Gli scritti giornalistici quotidiani e settimanali dal ’73 al ’75 raccolti in“ Scritti Corsari” e “Lettere Luterane” testimoniano tale radicale critica della modernità per un Pasolini osservatore attento della società contemporanea, testimone acuto e sofferente demistificatore dei processi sociali post-capitalistici, dalla corruzione della classe politica alla sua collusione con la criminalità, agli attentati terroristici negli anni ‘70, al declino della chiesa. Estremamente rilevante risuona ancora oggi la sua critica contro l’acculturazione prodotta dalla nuova società soprattutto rispetto alle giovani generazioni cedute alla seduzione d'una facile riuscita, all’appiattimento conformista e a una libertà apparente o falsa concessa al corpo e alle pratiche di vita per meglio poterlo controllare, manipolare e espropriare della sua vera libertà.
Nell’ultima
sala una lunga carrellata di autori, artisti e intellettuali rende omaggio a
quarant’anni dalla sua morte all’eredità lasciata da Pasolini nella sua figura di
intellettuale, artista e poeta, e rispetto a un pensiero e a un’opera multipla e
sfaccettata dalla quale molti sono stati influenzati, ispirati o
comunque chiamati a confrontarsi.
Importante restano, oltre l’oscuro capitolo di una morte inspiegata, i
segni, le tracce, i lasciti di quest’opera aperta e ancora in dialogo con le
nuove generazioni. In particolare appaiono nella mostra alcune opere d’arte
contemporanea ispirate alla figura di
Pasolini: un quadro di Mario Schifano
esploso in mille colori, tracce e segni impazziti nello spazio e sulla tela
dove del volto trapela lo sguardo intenso, unico, serigrafato a ripetizione
dal suo campo magnetico di emanazione, infine disperso attraverso le linee e le
tracce colorate del piano visivo. Ancora, il volto del regista italiano entra
in un dialogo immaginario con il disegno tracciato dall' iraniano Kiarostami
mettendo in evidenza la tensione intellettuale su quel suo volto
particolarissimo: l' “essere nel pensiero”, il coraggio della ricerca o dell’affermazione di una verità scomoda per un intellettuale ideologicamente
non-allineato al sistema politico dominante, non compromesso o colliso con il
potere. Ultima indimenticabile immagine resta quella della figura e della
personalità magnetica di Pasolini incarnandosi idealmente nel corpo femminile
libero e sovversivo della cantante e
poeta rocker Patti Smith quasi si passasse fluidamente dal maschile al
femminile in una rimessa in vita, come afferma la frase a lato del
ritratto, “en vie”, dello stesso spirito non sottomesso di
pensiero e azione nel corpo di una nuova generazione.