
“Troppo presto e troppo tardi” già e non ancora, un tempo
anacronistico rispetto a quello storico, costantemente fuori dalla temporalità
dell’attuale come il vento d’una rivoluzione mancata o a venire, cominciata
troppo presto o che si è tradotta in atto troppo tardi, costantemente traslata su un piano virtuale,
indeterminato, oltre semplicemente come quel tempo dell’a-venire rispetto a
ogni presente storico. Così il titolo del film di Jean-Marie Straub e Danielle
Huillet, “Trop tot, trop tard” fa da eco
all’esposizione alla pinacoteca di Bologna inquadrando nei termini di tale
temporalità differita o metaforica la relazione, per esempio, tra Medio oriente
e modernità in Iran, tra arcaismo e una non riuscita democratizzazione imposta in
molti dei paesi medio-orientali sul modello occidentale, ciò che si è
ripercosso a più ampio raggio nel conflitto di civiltà, nella dicotomia aperta
e ancora oggi irrisolta tra islam e occidente dopo la fine del bipolarismo mondiale.
Nel film due temporalità storiche differenti sono messe in
parallelo, quella delle lotte contadine nella Francia rivoluzionaria del 1789,
poi quella delle rivolte anticoloniali egizie nel 1952 sullo sfondo di immagini
svuotate, la campagna deserta francese, poi quella egizia scossa invisibilmente
dal vento di eventi accorsi_evocati più che palesemente presentati _ il vento di
quei processi rivoluzionari che scuotono alle radici lo stato di cose esistenti_
mentre una voce fuori campo legge la parole di Engels a Karl Kautsky sui lasciti
della rivoluzione francese. In tale temporalità
dislocata, in tale orizzonte spazio-temporale aperto sull'area
medio-orientale si situa lo sguardo scelto dalla mostra, sguardo gettato
dall’Occidente europeo al mondo arabo, caucasico o dell’Asia centrale, dalla
Turchia all’Iran dall’Egitto alla Libia, Siria e Palestina partendo da un
preciso punto di vista topografico, l’Italia, nello specifico Bologna al di là d’ogni stereotipo o visione
orientalista. La scelta curatoriale di Marco Scotini resta infine quella di
mostrare il lavoro d'artisti contemporanei medio - orientali nel loro
interfacciarsi allo sguardo d’artisti e
critici occidentali rivolti alla stessa area geografica: tra i più noti riferimenti
il “taccuino persiano” di Michel Foucault scritto per il Corriere della Sera
durante la rivoluzione iraniana nel ‘79, le fotografie scattate da Gabriele
Basilico a Beirut all’indomani della guerra civile negli anni ‘90, “i sopralluoghi
in Palestina” di Pasolini nel ’64, infine il film dei coniugi Straub sulla
mancata rivoluzione egizia.
Area Iraniana


Nella stessa area espositiva montaggi su pagine di
quotidiani iraniani raccontano a trent’anni dalla rivoluzione islamica la
caduta dello Scà, l’ascesa di Khomeini e l’instaurarsi del nuovo regime;
fotografie e dipinti spettrali di Bosch, Breugel et David si soprappongono in
oleografia allo sfondo delle cronache dell’epoca insieme a mani apparse dal
gioco della Morra, carta, sasso e forbici, l’artista Jinoos Taghizadeh
dicendosi “destinato a scegliere la carta a rischio d’essere tagliato dalle
forbici ma determinato ad avvolgere il sasso se solo le forbici lo permettono”.
Determinato ad avvolgere la pietra, la durezza della politica e dello stato
iraniano nell’aspetto vibrante e sottile della parola, della pagina scrittura,
nella libertà d’espressione o d’immagine che diviene nelle sue mani strumento o
arma per rovesciare quella stessa realtà. La serie dei montaggi esplora, come
nella morra, gioco il cui esito è lasciato al caso nella totalità assenza di razionalità, il destino
della rivoluzione islamica nello scarto che avvenne tra le promesse nutrite della
giovane generazione e il rovesciamento
del loro esito al prevalere in Iran di repressione e censura con il sopravvento
di un nuovo regime. La morte di Marat assassinato da un fanatico rivoluzionario
dipinta da David appare in montaggio oleografico sullo sfondo di articoli
raccontando la sistematica eliminazione di scrittori e dissidenti nei mesi che
seguono l’instaurarsi della nuova repubblica islamica. In un altro articolo è
l’accostamento tra teste mozzate di famosi martiri della pittura classica e
parole che raccontano la tortura e l’uccisione di prigionieri politici da parte
della polizia segreta iraniana. Ancora
“il giudizio finale” di Bosch si affaccia in oleografia su fotografie di
persone e uomini di stato dello Scià imprigionate e torturate a un mese dalla
rivoluzione. Il “prestigiatore” di Bosch appare in un altro montaggio sullo
sfondo d’una cronaca recensendo il referendum per la nuova Repubblica Islamica
definito in sé stesso un imbroglio. Nel montaggio visivo le figure dei dipinti
di Bosch appaiono grottescamente disumane, deformate nell’espressione dei
volti, preda di forze oscuranti che ne devastano i lineamenti in tratti
bestiali: testimoni o spettatori incantati da un gioco di prestigio sono
derubati da un borsaiolo mentre una figura mefistofelica dallo sguardo
sinistramente presente in primo piano, simile a maschera si affaccia nel gioco
di prestigio in accostamento a volti di iraniani contemporanei. I volti si
confondono tra presente e passato, le immagini sfumano volutamente l’un l’altra
nell’oleografia sul fondo di parole cancellate: testimoni, vittime e carnefici,
colpevoli e innocenti sono ricondotti all’ambiguità voluta del montaggio, nella
sovrapposizione anche tra il passato del quadro e il presente del reportage
fotografico.
Oggetti preziosi e fragili in malleabile pasta intrecciati e intessuti a mano compaiono dentro una vetrina trasparente. Forme in filamenti di pasta come filamenti di cristallo creano oggetti in minuscola tessitura: un sole e i suoi raggi, la ragnatela d’un insetto di ghiaccio, nidi intrecciati di fili, nugoli o sciami di libellule , filamenti di linee che si intrecciano e formano angoli e punti a intersezione oppure si liberano in forme fluide e organiche di pasta, morbide e informi plasmandosi nel movimento della composizione. Ora sono oggetti d'uso quotidiano come semplici sedie portate fuori dal loro contesto funzionale, messe in rilievo sul vuoto dello spazio circostante, isolate e trasposte come forme minacciose e estranee. Ora sono griglie di capelli finemente annodati insieme, fili da intrecciare e nodi da districare fino a costituire la tessitura d'una rete lieve , d'un quadro simile a una gabbia di linee ferree e trasparenti che s'allentano, si stramano, perdono il proprio filo fino a scomparire trasparenti su bianco, ora nero su nero.

Incongrue cartacce, scorie
e nuovi drappi colorati sono tenuti insieme a documenti senza
appartenenza, anonimi e privi di data, stipati in cartelle di recupero e legati
con fili di spago. Altre volte le medesime appaiono aperte, dispiegate come
scatole di cartone mostrando le loro
interne linee di cesura, le loro strutture compositive rovesciate all'esterno e
messe a nudo con un preciso intento estetico .
Come autentici luoghi della memoria, d'una memoria da
ritrovare a posteriori insieme storica e personale i suoi “files” colorati
divengono depositi, archivi, stratificazioni di cose la cui esistenza possiamo
solo tentare di comprendere, di riconoscere o rendere significante a
posteriori. Immagini della memoria, d’una memoria in sé stessa cancellata o
manipolata dai meccanismi potere, censurata o non ancora negoziata da altri
funzionamenti psichici inconsci se riferita a una grande o piccola Storia, tali riemergono a posteriori
in questa composizione eteroclito di frammenti,
ammasso e colorato di materiali ready made.
Gli “oggetti trovati” nelle opere di Sharif sono anche
le scorie del mondo contemporaneo, del
mondo industriale o di consumo investite d'una nuova identità a partire dal
loro precedente stato di residui: tazze recuperate di plastica colorata,
cannelli di fili vuoti ammonticchiati a pila, fogli e cartacce ricucite
insieme, tutti quei materiali “poveri” che rovesciano volutamente regole
formali e canoni estetici d’una precisa
arte celebrativa o ufficiale per posizionarsi come gioco di creazione e rivolta esistenziale.
Gabriele Basilico, Beirut

L’area centrale di Beirut negli anni ‘90 dopo la fine d’una
guerra civile durata quindici anni, una guerra assurda logorante e spietata che
distruggendo migliaia di vite ha devastato il centro della città, reso gli
edifici fino ai luoghi di culto più sacri cumuli di macerie, scheletri
denudati, mura perforate da buchi di proiettile, facciate arse, esterni e
impalcature crollate mettendo a nudo l’ossatura primaria delle medesime. La fotografia per Basilico oltre il suo ruolo di reportage giornalistico
intende “comporre uno stato di cose,
un’esperienza diretta del luogo affidata a una libera e personale
interpretazione ” rispondendo, anche alla necessità di costruire una memoria
storica degli eventi. L’atto del fotografare
instaura un rapporto “personale e affettivo” con il luogo, diviene un
modo per combattere o rispondere alla sensazione diffusa di rovina, per
contro-effettuare quella presenza indelebile di distruzione cercando in essa
una giustificazione estetica, un alone di bellezza malgrado tutto, una
plausibilità del fotografabile. Immagina la città come spazio originario,
vuoto, il vuoto nella fotografia, il vuoto di strade che si aprono come
cunicoli scavati, come interni di condotti ventricolari portando ossigeno ai polmoni e sangue al
cuore ferito d’una metropoli medio-orientale attraverso passaggi o corridoi aperti tra i cumuli
e gli ammassi di macerie. Immagina la città in questa radiografia d’una
distruzione che si vuole nitida, senza commento, distante quasi della distanza
d’un indagine clinica, senza compianto.
Una radiografia di distruzione che è anche la bellezza dei frammenti,
dei crateri, delle pareti nude, dei detriti, il lavorio del tempo e della
guerra su una superficie originaria e integra. Lo stato intaccato della materia
su uno scheletro originario e intatto.
Nelle rovine scopre la suggestione di forme grandiose e barocche espandendosi
gaudinianamente in derive e ritorsioni delle medesime, le fotografie indugiando
su edifici distrutti di cui restano solo forme portanti e cumuli di cemento arzigogolanti
in forme pittoresche e barocche su loro stessi. Uno strano alone di bellezza
appare malgrado sé stessa attraverso il dolore della distruzione sulla pelle
devastata della città come la testimonianza della sua metamorfosi in tempo di
guerra.
Kutlug Ataman “Strange Space” da “Mesopotamian dramaturgies”
( video e fotogrammi in immagini del medesimo, Turchia 2009)

Attraversa a piedi nudi, bendato, il deserto solforoso di Turchia, la terra arsa, dissecata come pietra spaccata in crepe irregolari; come nell’antica leggenda mesopotamica l’eroe vaga senza fine nel deserto accecato dalla passione alla ricerca dell’amata, in alcune versioni ritrovandola solo per morire insieme a lei tra le fiamme del suolo incendiario. L’incontro è anche quello metaforico tra tradizione e modernità nel lavoro del giovane artista, la difficoltà o l’impossibilità di negoziazione i due termini della questione, in ogni caso la dicotomia aperta e irrisolta dal loro incontro. Deserto di Turchia dalla terra arsa, brulla, dissecata alle radici, scavata e nuda, aperta in fessure profonde, mentre l'immagine è esposta alla luminosità irradiante del mezzogiorno, in questo lago volutamente pervasivo di luce che si estende, come distesa lavica, dalla terra sommersa alle rocce arse, alle nuvole d'un orizzonte blu calmo e piatto in lontananza, ai paesaggi rocciosi, ispidi e brulli di Turchia. La purezza del cielo al di sopra, indaco immobile all'orizzonte. Attraverso quella luce e contro il profilo acuminato delle montagne la figura appare allontanarsi, rimpicciolire, scomparire a poco a poco fino a essere riassorbita dalla diluizione luminosa fino a diventare un punto nero minuscolo, irrisorio all'orizzonte. Resta la bellezza del vivente, arché, inizio e fine, origine e cominciamento, resta il senso d'un destino, d'una provenienza sconosciuta là dove quel punto nero scompare, dilegua al limite del nostro sguardo; è l'immobile presenza della divinità in quella luce espansa, invasiva, in quel paesaggio etereo, immobile e accecante.
Ayren Anastas, “Pasolini, Pa, Palestine” e Emily Jacir
Nel 63 Pasolini viaggia in Palestina per esplorare la
possibilità di filmare il suo racconto biblico del “Vangelo” nei territori
storici originali. Cercando ambientazioni per il suo film nei “Sopraluoghi in Palestina”
la voce fuori campo del regista commenta sul filo del paesaggio, lo percorre in attraversamento video rievocando
brani del Vangelo e insieme testimoniando la
delusione di trovare villaggi e ambientazioni troppo moderne e industriali per
le sue immagini, volti e individui troppo miserabili per farne i seguaci della
parola del Cristo.
Il video di Ayreen Anastas, rifacimento dei “sopralluoghi”
adatta la sceneggiatura originale dell’itinerario pasoliniano alla mappa di un
percorso che si sovrappone al paesaggio palestinese attuale. Nell’atto di
“ripetere” l’esperienza originale Anastas afferma voler comprendere,citando
Heidegger, il dischiudersi di possibilità finora sconosciute o impensate, d’una
visione non scorta da Pasolini rispetta a un territorio, un paesaggio che si
pone a lui come nodo identitario, simbolico e conflittuale. Pasolini era alla
ricerca nei suoi sopralluoghi in Terra Santa di quell’aspetto arcaico e poetico
di realtà rispondente alle sue immagini del “Vangelo”, di quei volti di povertà
e umiltà che riflettessero in qualche modo il volto del Cristo; non l'aspetto moderno d’una Israele industriale e modernizzata ma la bellezza di
paesaggi arcaici, quella striscia di terra vicino al Giordano dove Gesù passò i
suoi ultimi giorni. Decise infine di
girare il film nelle terre aride e brulle dell’Italia del sud. Nel video di
Anastas ugualmente sono villaggi nel distretto di Hebron vicino a Gerusalemme, masse
di pietre a secco, sassi di un’arida regione graffiata dal sole; poi alcuni
particolari geografici della Terra Santa, il fiume Giordano che “attraversa la
Palestina come attraversa la storia biblica” dal battesimo del Cristo nelle
acque fino alle sue rive viste oggi coperte di arbusti e attorniate d’animali a pascolare, là dove il
Messia andava a meditare seguito dalle folle, compiva miracoli e annunciava
come vento rivoluzionario la venuta della Parola.

Le fotografie dell’artista palestinese Emily Jacir scattate
ugualmente nella zone in prossimità di Gerusalemme documentano un volto
completamente differente in quegli stessi territori: una guerra irrisolta, l’occupazione
dei territori palestinesi frammentati e colonizzati da Israele, lo stato
d’assedio costante e le forze sovversive che in esse agiscono attraverso la
radiografia di luoghi abitati e dilaniati
dal conflitto. Sono scuole distrutte dai bombardamenti , edifici in cemento
grezzo con vetri rotti e frastagliati, fili spinati, militari con armi da fuoco
insieme a civili in strada nello stato quotidiano di cose. L’incancrenirsi del
conflitto in cellule cancerogene di guerra è visto attraverso buchi e fori sui
muri, pareti distrutte o scrostate d’edifici attaccati da bombe, segni di spari
di fronte a manifesti di ballo flamenco, panni stesi d’uniformi sinistramente ergendosi in linee
orizzontali simili a schieramenti militari o piani di guerra.
“White house” (2005), “Brick sellers in Kabul” (2006)
Video di Lida Abdul
Lida Abdul: “ L'Afghanistan è il paese dove sono nata,
significa tutto per me, viene prima d'ogni altra cosa. I lunghi anni di guerra,
dall'invasione sovietica ad oggi hanno lasciato nella mia mente solo rovine. Da
queste riflessioni scaturisce il forte legame con l'architettura; “White house”
è una riflessione sull'idea di casa-non avendo mai avuto una dimora fissa- in
questo lavoro parlo di rovine, di architettura e del modo in cui entrambi
rappresentano per me, come per molti afgani, l'idea di rifugio domestico.”
“ Vent'anni di guerra hanno mutato profondamente il profilo
del paese, ho deciso di tenere gli occhi aperti, e di non lasciare che i miei
ricordi occupassero prepotentemente le opere per cogliere le continue
suggestioni che il presente, il paese mi offriva. Ci sono stimoli ogni giorno;
penso spesso al disastro, alla violenza ma anche alla voglia di ricostruire. La
guerra per me è un percorso doloroso, l'Afghanistan l'unico paese per cui sento
un profondo coinvolgimento politico, il suo destino, il suo futuro. In quanto
esule il concetto di abitazione è stato sempre presente nel mio immaginario,
forse perché non posseggo un luogo fisico, un edificio che chiamiamo casa.”
