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Alcune immagini giungono a noi implicitamente per la loro
potente “risonanza” visiva, cioè appaiono investite di “quella capacità unica
di trasformare i paesaggi locali in trame simboliche fatte di rughe e
cicatrici” (Pellizzari), di trasformare un paesaggio noto, una visione da
cartolina oppure l’usuale di una realtà poco attraente, marginale e qualunque
che incontriamo al quotidiano in una trama di segni e indici visivi sottratti
al luogo comune proprio perché visti attraverso tale lente intuitiva,
esperienziale, singolarmente percettiva che è l'approccio d'una certa
fotografia contemporanea.
I paesaggi di Giovanni Fabbri appaiono, in questo senso,
come un atto di sublimazione visiva attraverso la potenza della luce o del
colore, permeabili alla materia fotografica e in un’apertura alla percezione in
primo luogo; giustamente mettono in risonanza la realtà in immagini desunte
dalla propria terra- il paesaggio lagunare ravennate, il mare o le distese
multiformi coltivate della sua piana- oppure in vedute tratte dai viaggi in un
altrove esplorato con fascinazione e incanto perlopiù nel sud del mondo. Lo
sguardo di Fabbri solare, estetico o meglio estatico, appare affascinato dai
colori caldi dell'isola cubana come dall’ impressione folgorante di aquiloni
colti in vortice di rosso e di fucsia elettrico nella notte d’un festival
cervese, dalla sensualità di vedute di individui e scorci di villaggi o case
nella solarità pervasiva di Trinidad, dalla purezza dei suoi colori chiari e
nitidi come dalle tonalità luminose dell’isola, raramente mostrandole il
risvolto tragico, appunto le sue stratificazioni di miseria, incisioni e
cicatrici.
Qualche volta tali immagini esulano dal realismo di
superficie, dal nitore ricercato della focalizzazione per aprire a una tensione
verso l’astratto, per esplorare nella ricerca formale la saturazione voluta dei
colori che, nella messa a fuoco incisiva, divengono artificiali, caricati di
forti contrasti chiaro-scurali, improntati sull’opposizione empatica tra la
sfere delle tonalità calde e fredde, dal rosso arancio elettrico al blu
violaceo indaco.
La fotografia per Fabbri sembra voler dare forma a
“un’esperienza di realtà” vista nella sua bellezza di superficie cioè
attraverso una visione luminosa, serena, sprovvista nel caso specifico d’ogni
filtro o lente oscurante, d’ogni ombra incidente. Si vuole atto esperienziale,
percettivo di apertura senza riserve nei confronti degli esseri e delle cose come d’un
misurarsi con quello che si ha di fronte agli occhi e dunque fare dell’immagine ogni volta
un’esperienza inedita, necessaria e imprevedibile nell’atto del vedere ma anche
nell’aprire un dialogo esistenziale con l’ambiente; lo spazio nel quale si è
immersi, non è dato o preesistente al soggetto ma invece ricreato, messo in luce o in scena nelle sue geometrie di forme o linee incidenti da
quel medesimo sguardo fotografico. In altre parole, l’immagine in Fabbri è spontanea
e intuitiva, legata all’esperienza momentanea e percettiva della realtà, di
quel paesaggio noto o meno e, qualche volta, le visioni tendono all’incanto, al
sogno, come fossero fatte di luminescenze irradianti o di colori sublimati delle cose,
dunque mettono in luce o plasmano spazi alla ricerca d’una bellezza
innata oppure semplicemente riflettono la forma d’una interna percezione, la
proiezione d’uno sguardo desiderante.
“Vele al vento”
Aquiloni in linea d’archi a ripetizione su sentiero o varco
aperto verso il mare: viola trasparente e velato, via d’accesso privilegiata
verso l’aperto, punto di fuga discendente verso la vastità delle acque, dalla sabbia intrisa dalle maree, contro un cielo plumbeo, pesante di nubi, mentre gli aquiloni si
delineano in profilo di arcate trasparenti e violacee,
leggere e svuotate all’interno. L’immagine è nitida, tendente all’ essenziale, nel nitore d’una messa a fuoco, d’un realismo sfociando nel simbolico, nell’ultra-oggettivo. Nel dialogo esistenziale aperto con il paesaggio, esso diviene qui, come l’immagine in fotografia varco, apertura intuitiva al mondo attraverso la sua tensione a una bellezza innata delle cose partendo dalla loro veste più usuale, da un occasione o un accadimento del quotidiano. Il gioco di Fabbri allora sta nello spostare lievemente il paesaggio partendo dal suo luogo comune, fotografare un luogo noto come la pineta di Ravenna e farne un luogo simbolico, vederlo sotto un’altra luce, lavorare sulle sue possibilità espressive esasperate o sublimate dalla piena focalizzazione, dalla saturazione dei colori, dalla tensione di linee e forme portate al loro massimo grado di astrazione figurale, in definitiva affidando la percezione al qui ed ora del corpo, all’ineffabilità dei sensi, alla temporalità propria dello scatto fotografico.
Cosi’ quegli aquiloni in un’altra immagine nella notte del
festival cervese divengono vorticanti in aria, appaiono riconnettersi l’uno
all’altro a vortice, a fluttuazione di linee viola, fucsia, magenta fino a
toccare il blu elettrico, a vortice inglobante, a flusso continuo d’un effetto
luminoso, fluidificante nell’oscurità, ergendosi alti nel cielo. In basso
restano baluardi d’aquiloni e cannucce di tessuti blu fosforescenti e azzurrini
o pallidi turchesi, trasparenti o opalescenti di luce riflessa nell’oscurità come
miraggi o vaghi baluardi di salvezza. leggere e svuotate all’interno. L’immagine è nitida, tendente all’ essenziale, nel nitore d’una messa a fuoco, d’un realismo sfociando nel simbolico, nell’ultra-oggettivo. Nel dialogo esistenziale aperto con il paesaggio, esso diviene qui, come l’immagine in fotografia varco, apertura intuitiva al mondo attraverso la sua tensione a una bellezza innata delle cose partendo dalla loro veste più usuale, da un occasione o un accadimento del quotidiano. Il gioco di Fabbri allora sta nello spostare lievemente il paesaggio partendo dal suo luogo comune, fotografare un luogo noto come la pineta di Ravenna e farne un luogo simbolico, vederlo sotto un’altra luce, lavorare sulle sue possibilità espressive esasperate o sublimate dalla piena focalizzazione, dalla saturazione dei colori, dalla tensione di linee e forme portate al loro massimo grado di astrazione figurale, in definitiva affidando la percezione al qui ed ora del corpo, all’ineffabilità dei sensi, alla temporalità propria dello scatto fotografico.

“Riflessi dorati” sulle acque a raso d’oro; uomini intenti
alla lotta contro il mare sono visti nello sforzo d’avanzare controcorrente,
nella tensione fisica, nel grido, nel battito congiunto di braccia muovendosi
all’unisono, nella compressione muscolare dei loro torsi, ordinatamente dibattendosi
in lotta in mezzo ai flutti.
Su una barca a remi, fendono le acque in un movimento irregolare, solcano, scavano, segnano e muovono le superfici intatte delle acque generando flutti schiumosi, lievi brume di spuma, fluttuazioni appena percettibili sulla massa intatta di superficie come di un’eco a distanza, udibile anche se trattenuto, attenuato dei grandi moti violenti, espansivi, centripeti partiti dalle profondità degli abissi, giungendo dall’altrove, avendo volteggiato in indicibili loro circonvoluzioni fino ad attutirsi li’ su quella superficie piatta del mare. Sulla distesa apparentemente dorata delle acque intorno sono riflessi luminescenti che ricoprono in volte d’oro, in guizzi e flutti scaturiti al tramonto e immensi nella radiosità dell’oro.
Su una barca a remi, fendono le acque in un movimento irregolare, solcano, scavano, segnano e muovono le superfici intatte delle acque generando flutti schiumosi, lievi brume di spuma, fluttuazioni appena percettibili sulla massa intatta di superficie come di un’eco a distanza, udibile anche se trattenuto, attenuato dei grandi moti violenti, espansivi, centripeti partiti dalle profondità degli abissi, giungendo dall’altrove, avendo volteggiato in indicibili loro circonvoluzioni fino ad attutirsi li’ su quella superficie piatta del mare. Sulla distesa apparentemente dorata delle acque intorno sono riflessi luminescenti che ricoprono in volte d’oro, in guizzi e flutti scaturiti al tramonto e immensi nella radiosità dell’oro.
"Trinidad"

"Bambina gitana"
E’ in Camargue, Santes Maries de la mer, la celebrazione d’una festa popolare
in onore di tutti i gitani d'Europa. Dopo la parata, all’uscita della scalinata d’una chiesa
dedicata alla santa protettrice di questo popolo , dopo che l’evento festivo ha
avuto luogo, sul selciato ricoperto di cartacce, stracci e resti del corteo
in involucri e polveri al suolo, sul cemento piastrellato di fronte
all’ingresso della chiesa ormai deserta una bambina gitana inizia a danzare,
sola, a piedi nudi di fronte al tramonto. La veste sfilacciata sui bordi, le
gambe nude, i piedi anneriti dal cemento al suolo, la piccola zingara danza
dileguante contro il riflesso del tramonto, i capelli sciolti e arruffati al
vento; danza per una folla svanita insieme al vento a ovest, contro il soffio
del vento del nord che la trascinerebbe lontano verso l'altrove. Le
braccia e i palmi aperti accennano al movimento in questa disposizione al volo,
al respiro del corpo, all’innato della danza in sé di fronte a una luce soffusa
che svanisce lentamente a distanza.
Pineta, Ravenna "tra le nuvole"


La saturazione del blu in violaceo elettrico e del rosato frammisto a tonalità irradianti di arancio al tramonto viene portata a compimento in “fra le nuvole” dove i colori caldi e freddi, metà e metà cielo, si riuniscono in contrasto e ricomposizione d’una medesima scia di viola, arancio e bluastro all’orizzonte.
"In attesa di un nuovo giorno" (foto in inizio pagina)
E’ un blu elettrico artificiale e violaceo portato all’ennesima potenza nelle sue possibilità espressive, eterno e ultra-terreno, magnifico in sé ma onnicomprensivo, coprente e esaurendo in sé tutte le tonalità, tutte le sfumature, tutte le prospettive in attesa d'una svolta cromatica o inedito riflesso di colore. Magnificente e espanso come una patina che ammanta, ovunque e senza riflesso, come finisse li’ alla fine del mondo in attesa di un' alba a venire. Il mondo immerso in questa oscurità artificiale e straniante. Sulla spiaggia barche rovesciate in attesa, il litorale illuminato a distanza nella notte.
Luce artificiale, colori saturanti, il senso di straniamento rispetto a una realtà nota, usurata, per conferirle quasi un alone metafisico, in un dialogo esistenziale con sé stessi.
Il cielo violaceo e blu
ultravioletto nella notte rischiarata dalle luci a distanza esalta
l’impressione surreale di un’astrazione figurativa dove gli oggetti, le barche
affiorano alla superficie del paesaggio come fossero state rovesciate li’ a riva non viste attraverso una densa oscurità mentre la notte scendeva, elettrica sulla città.