


Degli anni 1930-32 sono le grandi opere e i capolavori scultorei di Arturo Martini esposti attualmente a Palazzo Fava a Bologna, “Creature, il sogno della terracotta”, opere che sanciscono la piena maturità artistica dello scultore, modellate a Vado Ligure dove lavora in solitario, in autonomia, in totale indipendenza da correnti e scuole usufruendo della piena disponibilità di materia d’argilla messagli a disposizione da Ilva Refrattari e d’una fornace dove può modellare direttamente le terrecotte di grandi dimensioni senza dover incorrere nei rischi degli spostamenti; le medesime gli varranno il riconoscimento alla Quadriennale di Roma nel ’31, e nel ’32 alla Biennale di Venezia. Come ogni grande lavoro artistico le sue opere degli anni ‘30 toccando i vertici della scultura europea del primo ‘900 travalicano i limiti d’un mondo, la contingenza d’un tempo e d’uno spazio, l’attualità d’un momento storico o d’una singola individualità per farsi veicolo d’una verità atemporale, per aprire la via verso una verità plastica auto-generaratasi, pare, dal suo proprio luogo d’esistenza.
E’
energia intuitiva la scultura, nasce come in Martini da una materia prima
spinta, sospinta, portata verso il suo limite ultimo di verità, d’una propria
interna verità, stilistica o poetica; nasce dallo spazio informe d’una materia
espressiva- la terracotta in primo luogo sentita come elemento originario per
sua natura primigenia- che come la scultura si espande a contatto con il mondo
dell’artista, si nutre dell’esperienza intrinseca del medesimo, è plasmata dai
suoi sensi fino a quando riesce a rielaborarsi in una forma compiuta. Intrinsecamente, dunque, essa intende
posizionarsi al di là di un’arte decorativa, dell’accademismo d’una tradizione
definita “lingua morta” da Martini agli inizi del ‘900 o del falso classicismo
tramandato dall’epoca, perseguendo l’espressione d’una sua implicita
autenticità. Si dà, come la creazione per ogni grande scultura, di un’
“immagine primaria” plasmata dal fondo della sua propria massa sensibile,
definita dal rigore d’un preciso ordine plastico e, capace, tuttavia, ancora da quella sua
originaria oscurità di “ parlarci d’anima”. Lì asserita, inconfutabile passando
dalla contingenza del momento presente a un fuori dal tempo, una scultura
appunto a stretto contatto con l’esperienza interiore che aspiri o guardi
attraverso la trasmutazione poetica a un’altra realtà, se così possiamo dire.
Duplice l’influenza in questo senso
riconosciuta nel suo stile personalissimo da parte delle avanguardie, elaborata
attraverso l’adesione alla rivista “Valori plastici” negli anni ’30: il rinnovamento formale e di pensiero
proveniente dalla metafisica dechirichiana nel suo aspetto atemporale di
scenari immobili fuori dal tempo come in un luogo d’assenza o d’attesa, in
scenari completamente onirici abitati da presenze sospese, statue, manichini e
lunghe ombre rinviando a un piano secondo di realtà. Dall’altro, appaiono
ugualmente importanti le suggestioni che arrivano dalle sperimentazioni
futuriste, soprattutto nei valori plastici di dinamismo, in Boccioni l’esplorazione delle forme in
movimento nello spazio, delle forze centripete o centrifughe in atto nella composizione
scultorea, infine il rifiuto della tradizione e l’ispirazione proveniente da
valori e immagini dalla modernità in atto.
Ne
scaturisce uno stile dalla connotazione fortemente poetica, assimilato in
qualche modo al versante alla poesia “pura”, aspra ed essenziale d’un cento
ermetismo italiano del primo novecento (Ungaretti); da una parte “aspro” sobrio ed epurato
dall’aspetto decorativo, dal falso formalismo d’una certa scultura, dall’altro
sintetico, essenziale ritornando a questa “immagine primaria” della creatura
ritrovata attraverso la pietra. “Struggente”, infine, perché vibrante d’anima,
avvicinandosi come è stato detto alla
ricerca d’una parola poetica scarna, pura ed essenziale come nei poeti ermetici
italiani dello stesso periodo, Ungaretti per primo.
Le
“creature” di Martini scaturite dal suo “sogno di terracotta” attraversano
riferimenti che vanno dalla scultura etrusca alla statuaria classica greca tuttavia
mantenendo ben presente l’intuizione che la figura deve essere riportata al suo
valore ancestrale di “creatura”, primaria, incarnata, abitata d’anima, cioè del
respiro di vita come d’una qualità del vivente, infine scaturire dall’incontro
o meglio dall’esperienza interiore ricevuta rispetto alla medesima. E’
“creatura” perché aderendo profondamente alla materia impura e densa di vita
dell’umano nella sua intensità quanto nella sua manchevolezza resta attraversata
da una qualità d’anima che deve
trasmettersi attraverso la terracotta nel lavoro scultoreo. La funzione
dell’artista non sarebbe altro, infine secondo Martini che “purificare una
passione, distruggere una materia e portarla a Dio”, dunque trasformare senza
sosta attraverso il lavoro scultoreo, vale a dire epurare l’aspetto contingente
dell’esperienza fenomenologica portandola fuori dal momento presente in una
sorta di dimensione fuori dal tempo, d’incontro con l’assoluto nell’evento o il fulcro stesso della
creazione.
“Gare invernali", (1931)
All’ingresso
della mostra come su una soglia in attesa o forse in una qualche sospensione
atemporale tra un prima e un dopo, un dentro e un fuori l’avvenimento, in questo luogo enigmatico dell’apparire,
restando in margine, in uno spazio in limine alla loro incarnazione, al loro
prendere esistenza in figure compiute come nei successivi lavori. Simili a
custodi o numi tutelari, tali delle presenze vigili tornate alla luce da una
materia prima recalcitrante, refrattaria-
la creta nella terra rossiccia del corpo femminile, in quella ocra del
maschile- si tengono a lato come apparizioni guardandoci, guardate da questa
soglia che apre alla realtà onirica e insieme alla concretezza materica di
tutte le altre creature d’argilla.
“Chiaro di luna" (1932)
Lo
sguardo è rivolto verso l’alto, al cielo stellato da parte di due figure appena
delineate nei tratti del volto, portate verso l’alto in questo loro proiettarsi
oltre i limiti del contingente in contemplazione silenziosa. Non è evocazione o allegoria plastica d’un
incontro con la notte stellata o con la divinità ad essa sottesa quanto
cogliere la figura in quell’esperienza interiore: coglierla nell’atto di volgere lo sguardo
verso alto, nel momento forse epifanico o in attesa di tale esperienza per
darne una visione essenziale, “non mediata”, epurata da ogni formalismo
esteriore. Protese su un balcone
appaiono due giovani donne, similari
come sorelle, sfiorate appena dal vento nel tratteggio lieve degli abiti,
protese verso l’alto nella contemplazione lunare. I volti appaiono già a metà
cancellati dal moto che li tende verso il cielo stellato, nel drappeggio lieve indotto dal vento,
portati verso l’alto come in un’esperienza d' ascesi estetica o sacra.
“La
Veglia” (1932)
Angolo
della stanza, la camera è riprodotta in grandi dimensioni in terracotta, a
sinistra un tendaggio discende fino al pavimento, a destra dall’apertura d’una
finestra si sporge una figura volta alle nostre spalle, della quale non vediamo
che il retro del corpo nudo proteso in avanti, la nuca e le punte dei capelli
discendere sulle sue spalle. Non sappiamo quello che sta guardando dall’altra
parte, non abbiamo accesso alla sua visione, la finestra mette in comunicazione
con un altrove a noi precluso dove spazio e tempo si dilatano oltremisura,
oltre lo scorrimento del tempo degli orologi, come sprofondando in un interno
della psiche o della memoria attraverso
un varco sulla sua parte d’ombra, recesso del corpo-desiderio che s’apre
oltre il panneggio occludente della tenda. Tale piccolo teatrino anatomico del
corpo si proietta in un’oscurità,
suggerita, non visualizzabile se non in questa zona d’ombra che s’apre verso
un’altra realtà, sogno o memoria, nei recessi non conoscibili d’un io razionale
e cosciente.
“Il
cielo, le stelle”, 1932)

Gruppo
scultoreo dalle imponenti dimensioni ispirato al complesso ateniese di Fidia
con Fiona e Afrodite dal pantheon greco; la plasticità dei corpi figura
attraverso il loro trattamento espressionista, espressivamente dato come
fossero danzatrici agli inizi del xx secolo. Modellate attraverso il panneggio
grandioso delle vesti sui corpi immensi con una parvenza di morbidezza, di
plasticità, di fluidità nel dare forma a queste figure estremamente presenti
dalle dimensioni importanti, più importanti loro che non le teste, una mancante
e l’altra assente, portata in contemplazione verso l’altro . Ci colpisce
l’audacia espressiva, il potere di presenza, la predominanza plastica di queste
figure più nelle vesti-corpi che non nei visi, nella carnalità dell’abito
modellato da una creta resa fluida, plasmabile come cera, resa malleabile e poi
fissata nella forma finita di corpi di danzatrici su scena.
"Donna
al sole", (1930)
Risalta
il carattere melodico della sua linee, la sensualità sottile con cui è guardata
la figura che possiede insieme la grazia d’una scultura settecentesca, bianca e
levigata e la leggerezza della venatura ironica che la connota nella piena
naturalezza delle sue forme. Colta nel sonno in piena luce meridiana nel sole
della creta che la raccoglie e la riverbera la figura è intera, integra non
mancante di parti, tali i tratti del viso spesso assenti nelle opere
precedenti, e solare, nella piena luce del giorno simile a lucertola
strisciante al sole, a bestiolina uscendo dalla terra umida, fredda e invernale
per cercare il calore del sole all’esterno. Liquida nel corpo, allungata,
distesa, poi semi-raccolta come disegnando una linea di danza in sé, con la
possibilità o la consapevolezza di tale movimento sinuoso e continuo, è corpo
della solarità alla ricerca di luce, inebriandosi, compiacendosi
gratificata al tiepido riflesso della
medesima.
La
massa plastica si allunga e si distende, s’avvolge e si crogiola al sole
d’inverno come bestiolina uscita fuori dalla terra allo scoperto alla ricerca
di un soffio caldo di vita contro il cemento livido e freddo degli edifici ad
accerchiarla. A lato un piccolo nudo del 1930 sembra porsi ai suoi antipodi:
assorta, ermeticamente chiusa, avvinta in un modellato aspro, vivo ed
espressivo, la figura appare molto più piccola, reclinata su sé, appesantita da
questo fardello che la fa tendere verso il basso, precipitare come gravata da
un'invisibile macchia o peso sulle spalle; aspra, avvizzita nelle mammelle,
avvinta al suolo dalla sua propria forza di gravità.
“Venere
dei Porti” (1930)
E' seduta in diagonale, protesa verso
l’esterno, guarda fuori, lontano, oltre la finestra, dall’interno d’una bettola
dando su un vicino porto all’attracco delle imbarcazioni, su una sedia in attesa
di clienti, i tratti aspri del viso, la posa malinconica. Guarda lontano, fuori
oltre la finestra, verso il mare. La figura è a tutto tondo, pensata con un ampio respiro, espansa nella
sua volumetria in piena presenza, e insieme, fortemente connotata d’un radicale
espressionismo. Salta agli occhi il contrasto tra il corpo nudo, ghermito,
intagliato e in qualche modo consunto dall’epidermide ruvida e scabra, dalle
mammelle di pietra avvizzite, offerte all’uso o alla vendita e il volto dallo
sguardo assente, lontano, d’ un indifferente distacco, d’una strana estraneità,
proiettato oltre il qui e l’ora dell’abbozzo disfatto della figura, verso una
temporalità altra. Nella fuga o perdita del proprio fulcro vitale, in una
assenza del sé come d'un anima fuggita o imprigionata altrove, al di là di quello sguardo.
“La lupa” (1930-31)
Una
freccia le trapassa la schiena e il costato bloccando la lunga chioma alle sue spalle, i capelli
tirati indietro, tesi, rimasti serrati attraverso quella . A carponi sulle
proprie gambe e braccia simile a fiera ferita, in agonia, sul punto di lanciare
il proprio grido, sotto di sé grandi pietre, massi della durezza implacabile di
rocce refrattarie che non potrà lanciare. Il proprio grido tra le mani puntato
su quello sguardo di morte. Il corpo scarno, in tensione, palpitante d’ira o di vita arrestata al suo punto culminante è
quello d’una creatura felina, selvaggia, quasi antropomorfa in contatto con le
forze fisiche e istintuali d’un l’innato potere del femminile: passionale,
indomito stadio d’una femminilità liberata quanto sottratta in quel punto di
morte. Il volto è quello della ferita lancinante, del colpo alle spalle non
visto, del grido a metà trattenuto o ancora non del tutto fuoriuscito. La
potenza, l’agilità del corpo femminile visto nella linea scavata e tesa del
profilo rinviano alla sensualità, all’aspetto felino del puma o ghepardo, il
volto è quello della lacerazione, la bocca dischiusa, le membra in tensione,
gli occhi semi-cancellati divenuti un tutt’uno con il moto delle chiome tese
all’indietro in questa sferzata violenta. Il suo vortice d’energia tensiva,
acuta e improvvisa trova il proprio contraccolpo nella retroversione di testa e
schiena , il proprio culmine in questa punta di freccia avvelenata, lancinante,
conficcata a morte nel petto fino a trapassarle il costato.
In
agonia in quel dolore proveniente da un punto oscuro al di là del suo sguardo e
del quale non vede l'origine, il corpo si erge scarno, sensuale sul volto di
fiera rabbiosa, trafitta d'ira, indomita nel dolore.
"La
convalescente", (1932)
Smagrita
e pallida distesa su una sedia a sdraio d’ un pallido interno borghese, intenta
nella lettura in una veste quotidiana la
figura appare agli esatti antipodi della precedente, la “lupa”fiera e selvaggia
sensuale e ugualmente trafitta, in
agonia. In un ambiente asettico, il corpo femminile estenuato, inerte,
semi-dormiente, è privato d’ogni forza vitale di passione o sensualità. La
veste appare ugualmente svuotata nei tratti di presenza del drappeggio, il
volto distaccato sotto l'affetto d’uno strano non-dolore, assente d’una assenza
d’anima a sé stessa. E’ creatura d’anima fuggita, partita, andata via da
qualche altra parte in seguito a un accidente, un incidente, un terrore, oppure
irretita, catturata nella gabbia interiore dove da qualcun altro è trattenuta,
anima rubata e nell’impossibilità di tornare. Qualunque la causa, l'anima ha
disertato il suo corpo e questa creatura
martiniana senza più soffio vitale, senza più respiro a renderla pietra viva,
vivente è lasciata in giacenza su una sedia a sdraio dove noi lo incontriamo,
ceduta a questo limbo di non-memoria, nell’esilio dalla sua piena esistenza.
L’argilla refrattaria di Marini risponde, aderisce al sentito incisivo, aspro
ed essenziale della fragile età dell’adolescenza.
"L’aviatore",
(1931)
Influenzato
dall’aero-pittura futurista, agli antipodi della retorica celebrativa del
regime fascista che utilizza ampiamente i mezzi dell’aviazione in un ottica di
conquista durante la prima guerra, l’aviatore”” di Martini,è scultura sospesa
nel vuoto poggiando in un sol punto invisibile a contatto con la terra, sospesa
come per sovvertire in qualche modo i criteri di staticità, le basi stesse
d’una linguaggio scultoreo spento e accademico guardando al passato. L’aviatore
sfida con le proprie energie le forze di gravità riducendo in un sol punto il
contatto con la terra; il corpo nudo, tensivo a un punto legato alla terra, a
un altro puntando verso l’alto, verso la contemplazione dell’assoluto.
Atletico, teso, scolpito in fasci muscolari di presenza, è l’energia assoluta,
la potenza al massimo grado dalla fibra dell’essere, l’individuo nuovo che si
auto-genera, si auto-erige, esiste nella piena affermazione di sé, dei propri
interni valori, si libera del fardello dell’innata colpa, della materia morta
del passato, dei vuoti simulacri della divinità sfidando la retorica
celebrativa strumentalizzata dal regime. E’ l’uomo superiore, auto-generato che
esiste ponendo fine alla condizione di schiavitù morale precedente, alla sua
cecità o perdita di senso in un rovesciamento che è insieme elevazione e
auto-affermazione della sua nuova esistenza. Con il costato trafitto come
Cristo nel cammino della passione, questo
corpo performativo si auto-rappresenta, si mette in scena, parla in
lui solo, si scolpisce nelle sue membra
d’anima-animale volto al cielo. E’
fascio di nervi e anima con lo sguardo rivolto verso l’alto simile a danzatore teso verso l’assoluto,
sospeso con la terra che fa a lui leva in un sol punto.
"La madre
folle", (1929)
La
figura umana in movimento della scultura classica si unisce alle potenzialità
espressive della terracotta martiniana filtrando l'eredità etrusca attraverso la tecnica di composizione detta
“a sfoglia”. Concepita come fosse soffiata dall'interno in un disordine
dirompente, sconvolta da una potente forza centrifuga inviata da un moto
vorticante simile a vento di tempesta, la madre folle di Martini si erge
improvvisa e coinvolgente come un'apparizione dai tratti arcaici nelle suggestioni che rinviano dalla
tradizione etrusca e , insieme, estremamente innovatori nel dar vita a una
“creatura” di pietra oltre i limiti del naturalismo dell'epoca. Volto, braccia
e busto sono ricavati direttamente al tornio
e poi modellati o intagliati, la parte della gonna costituita ugualmente da un vaso centrale
come un grande lenzuolo di creta a cui in seguito è stato aggiunto il
panneggio. La figura è presa in questo vortice o forza centrifuga portando
dall'interno verso l'esterno del corpo in un disordine atemporale o moto
aspirante che conduce verso il sublime d'una martire o d'una furia indomita.
Esiste forse solo in questo vorticare d'energia intorno al suo centro dove
punto focale resta il busto della donna scolpito in una sola forma con addosso
il nuovo nato, piccolo involucro
indeterminato, appendice di sé che la madre tiene stretto al petto, serrata
alla vita con una delle due braccia. Lei preda, sembra, di questo vortice
d'energia che la riporta all'archetipo o all’immagine prima della furia urlante,
della martire ribelle o della madre folle o terrificante nel suo lato di
abissale oscurità; in ogni caso all’esternazione teatrale d’un sé
reso a figura lirica su scena. L'involucro del neonato stretto al petto, il
moto vorticante che la porta in alto, fuori di sé, l'ascesi, infine, al sublime
romantico rendono qui la pietra carne, la creta materia viva, espressiva.
1- Cfr Livia Velani, « La scultura come poesia » in Arturo Martini, Milano, Skira, 2006