sabato 2 novembre 2024

“Byron contemporaneo”, Giampiero Corelli ( Chiostri danteschi, Ravenna)





















 Lord Byron, figura di spicco del secondo romanticismo inglese, poeta e uomo di lettere ma anche politico e spirito indomito che come una voce fuori dal coro si impone nell’immaginario collettivo di tutta una generazione romantica, ha dato origine al cosiddetto mito dell’eroe byroniano: fascinoso, inquieto, dalla vita avventurosa travolta da innumerevoli passioni amorose, dalla morte eroica in Grecia, in ogni caso sempre e comunque ribelle rispetto alle convenzioni della società borghese a lui contemporanea. 

Byron trascorse in Italia una parte della sua vita sfuggendo dalla noia e la disillusione del proprio paese a causa di una serie di scandali personali e finanziari; soggiornò in diverse città italiane dal 1816 al 1823 per approdare  infine a Ravenna dove rimase tre anni nel corso di una intensa quanto illecita relazione amorosa con la contessa Guiccioli. La città oggi gli dedica un museo permanente  la cui apertura è prevista a fine ottobre  2024 a Palazzo Guiccioli in occasione del bicentenario della sua scomparsa e una mostra fotografica temporanea, rivisitazione dell’opera e del vissuto del poeta da parte del fotografo Giampiero Corelli in un riallestimento contemporaneo del mito byroniano.

 

Le immagini di Corelli illuminano come scintille o sprazzi luminosi alcune citazioni della vicenda e dei luoghi byroniani in una vera e propria immersione nel suo universo poetico legato a doppio filo al tempo presente. Un tracciato quasi inestricabile lega, infatti,  la poesia alla sua esistenza: la sua ricerca di libertà nel disprezzo del giudizio sociale, e, soprattutto, il mito del sé al limite dell’eccentricità riflesso nei suoi alter ego letterari . Le fotografie traslando dal passato al presente mantengono nel lavoro di Corelli lo spirito o meglio l’essenza del mito byroniano ma si rivestono dei volti e dei paesaggi del mondo contemporaneo. Nella prima immagine e forse la più rappresentativa della mostra un uomo a cavallo avanza verso di noi attraverso i fiotti dell’oceano mentre la linea dell’orizzonte dissolve alle sue spalle : l’uomo e la sua maschera. La verità poetica emerge attraverso la maschera dell’eroe solitario e ribelle sullo sfondo dell’oceano oltre la linea dell’orizzonte che spalanca come volevano i romantici una "finestra sull’infinito” .

 

 Il cavaliere errante


“Ancora una volta sulle onde. Ancora una volta! E le onde balzano sotto di me come destriero che conosce il suo cavaliere. Benvenuto al loro ruggito” (Childe Harold’s, III)


L’orizzonte è striato da bagliori tenui e violacei come fosse il sopraggiungere dell’alba e l’uomo a cavallo avesse percorso tutta la costa nella notte per sopraggiungere alla città sconosciuta ai primi bagliori dell’alba nella luce mattutina. Tenue, il mare scompare all’orizzonte là dove si incontrano terra e cielo, su quella linea d’ombra sottile che dissolve in lontananza oltre il nostro sguardo. L’uomo avanza cavalcando verso di noi a raso delle acque: ombra, fantasma quasi proveniente dal passato, maschera imponente e misteriosa, malinconica e austera in questa figurazione contemporanea dello spirito romantico. Il volto appare ora in primo piano: una maschera bianca e neutrale che celando mette a nudo il carattere indomito dell’eroe solitario e ribelle evocato dal tema byroniano.

L’oceano

“Io non amo di meno l’uomo ma di più  la natura per questi nostri incontri nei quali mi allontano furtivamente da ciò che posso essere ora o essere stato prima, per unirmi all’universo e sentire quello che non posso mai esprimere eppure nemmeno mai interamente celare”. 

Il mare ritorna come un eco incessante nelle diverse composizioni poetiche tra cui il quarto canto di Childe Harold’s evocando l’idea di un’infinità insita nella natura che supera e mette alla prova i limiti dell’umano secondo il concetto di sublime romantico. Là,  il poeta e l’uomo percepisce la propria finitezza e, insieme, quell’intima tensione verso ciò che lo conduce oltre: l’incommensurabile che la natura porta in sé. Là, ancora, sente risvegliarsi questa sua sete inesausta di  spirituale divenendo egli stesso parte dell’infinito che si rivela.

 

 La passione amorosa

 “In questa parola bella in ogni lingua, ma soprattutto nella tua_ amore mio_ è compresa la mia esistenza. Sento che esisto qui e temo che esisterò in seguito, a quale scopo lo deciderai tu. Il mio destino riposa in te” ( Lettera alla contessa Guiccioli. 1819)


L’intensità del sentimento amoroso verso la donna cui indirizza questa serie di epistole , la contessa Guiccioli, pur attraverso una relazione clandestina destinata a concludersi a breve si esprime con parole scritte in una lingua straniera, l’italiano, fatta propria per amore. Le immagini di Corelli in questo frangente  si ispirano direttamente al vissuto biografico del poeta oppure come citazioni più sottili lo riportano alla realtà dei giovani volti d’oggi.

 

Farewell my love but not all mine”

 Sullo sfondo di una biblioteca dai volumi antichi nella dimora di una nobile famiglia ravennate_ semi-avvolti dall’oscurità del luogo_ i due amanti nella rivisitazione di Corelli  leggono insieme da uno stesso libro citando implicitamente il Canto Quinto dell’Inferno di Dante con Paolo e Francesca. Le due figure appaiono ricomprese dentro quest’unica aurea luminosa e passionale che li mostra come unità insondabile  e insieme li staglia opponendoli attraverso il  forte chiaroscuro al nero del fondo. I volti illuminati, il calore del respiro fra i due corpi stretti l’uno all’altro nella parziale nudità_ intravvediamo il corsetto della donna e la camicia bianca di lui _ , si stagliano nell’oscurità insieme al grande libro aperto che tengono tra le mani come unico elemento di connessione con l’esterno. Alludendo, implicitamente, al consumarsi  di una segreta relazione amorosa.  

 

 “Tutti gli addii dovrebbero essere improvvisi quando sono per sempre”.

 Nell’immagine successiva, ritorna l’allusione ai pochi momenti di intimità rubati tra i due amanti in una relazione che si consuma perlopiù a distanza e sfocia inevitabilmente in un addio. L’abbraccio clandestino tra i due in primo piano  occultato dai lunghi capelli di lei che ne nascondono i volti si staglia ancora una volta sullo sfondo della biblioteca scura in rovere antico. In un’altra foto sono in primo piano le lettere d’amore manoscritte e scambiate segretamente tra i due amanti come il solo strumento per manifestare e cedere alla propria passione, ora per dirvi addio.

 

La maschera: “E dopo tutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera”

 

Tanto  ha a che vedere nel mito letterario costruito da Byron con l’illusione e la verità, una finzione che permette di raccontare una qualche verità più profonda, insidiosa da svelare. Da un lato Byron crea attraverso la propria immagine pubblica e alter ego poetici il mito di un eroe inquieto e solitario, nobile di nascita, outsider per eccellenza della società benpensante inglese che fugge lontano dal proprio paese per nascondere un qualche retaggio del passato e vede riflessi i propri stati d’animo nell’immensità della natura. Dunque la poesia in questo caso consolida la finzione di un personaggio che si offre come maschera, invenzione letteraria di una soggettività poetica. Basti pensare agli alter-ego poetici da Childe Harold alla versione più satirica di Don Juan. Da un altro punto di vista, Byron attacca la società inglese toccando il tema dell’ipocrisia e della falsità che la caratterizza là dove la maschera è ciò che occulta o manipola  secondo i propri fini la semplice e nuda realtà. Alter ego, maschere e commistioni tra l’umano e l’animale riempiono questa sezione delle immagini di  Corelli riportando al centro il tema della dualità dell’uomo e del poeta Byron: l’energia animale e quella mentale, la ragione e il sentimento, la maschera che occulta e insieme svela una verità   poetica soggiacente.

 

“Sono portato a pensare che una persona abbia non solo la pelle che appare all’esterno, ma ne abbia anche due o tre all’interno”.

 

Nell’immagine di Corelli un giovane uomo e una donna sullo sfondo di un salotto di una dimora nobiliare appaiono avvolti nella vibrazione e nella tonalità di un rosso vivo ripreso dai broccati degli interni e delle tende. Rosso è l’abito sottoveste lungo sensuale della donna e la tunica dell’uomo, rossa la maschera che tiene in mano la giovane mostrando il suo volto nudo, opposto alla maschera nera di lui diviso tra il corpo dell’umano e la testa dell’animale che gli copre il volto. Un gioco di rinvii si dispiega da un’immagine all’altra della serie fotografica: un dialogo amoroso scandito dal silenzio, da un’improvvisa rottura o da un addio preannunciato tra i due personaggi nella foto .

La maschere figurate da Corelli possono in definitiva essere viste come la serie la volti differenti e contradditori  con le quali il poeta Byron era solito mostrarsi alla società borghese e conservatrice cui tentava di rifuggire nel suo paese  ma anche come gli Alter Ego poetici, da Manfred a Harold, che nel tempo hanno dato vita al mito dell’eroe byroniano. Eppure sono proprio quelle maschere a permettere a Byron di rompere i legami oppressivi, l’eredità soffocante del passato e la tradizione letteraria classicista aprendo la via così verso una poesia lirica nuova, totalmente soggettiva, romantica di ispirazione ma tendente già verso un linguaggio poetico moderno.


giovedì 8 agosto 2024

MiròMatisse: al di là delle immagini ( al Museo Matisse di Nizza )

 








Al Museo Matisse di Nizza, curiosando in vacanza sulla costa azzurra tra le varie attrattive dell’assolata cittadina francese ci si imbatte nel museo dedicato a una delle figure più influenti della pittura moderna europea, Henri Matisse generalmente associato all’avanguardia del  fauvismo che trascorse e realizzò qui gran parte della sua vita e della sua pittura. All’ingresso nella hall principale su un’enorme parete del museo appare vibrante di colore la riproduzione su larga scale di una serie di motivi decorativi, per lo più fiori, arabeschi e altre forme geometriche semplicissime e vivide nei diversi colori primari che si snodano  in una semplicità disarmante _ quasi nel gioco di un bambino_ ritagliati dai tratti blu di una cornice astratta tipica dei “papiers decoupés” di Matisse negli anni ‘40. Sul lato opposto della parete in una piccola cornice rettangolare lo spazio in tensione, lo slancio e la creatività di una tela riempita di segni e forme libere nella composizione surrealista di Mirò. Tale il tema al centro della mostra Mirò-Matisse: la relazione, il dialogo, l’influenza reciproca o meglio la sovrapposizione creativa e proficua tra due artisti appartenenti a due generazioni differenti nonché solitamente associati ad avanguardie distanti quanto il fauvismo e il surrealismo che tangenzialmente incrociano i loro percorsi in rari frangenti nel corso di una vita.  Forse solo due  costanti  a far dialogare i loro distanti universi:  l’immersione nel colore e la necessità  di andare al di là dell’immagine come imitazione o pura astrazione in una critica serrata della tradizione pittorica occidentale.

“MiròMatisse, oltre le immagini”, visitabile fino alla fine di settembre al Museo Matisse di Nizza indaga proprio a dispetto della distanza biografica di 25 anni e delle scelte stilistiche che separano largamente i due artisti le zone di influenza e di ammirazione reciproca nonché il legame personale che si instaura tra  i due maestri attraverso la mediazione del figlio Pierre Matisse, gallerista di Mirò a New York. Due i momenti decisivi di reciproca influenza messi in evidenza  dal percorso in cui le opere dei due artisti appaiono in qualche modo  confrontarsi in un faccia a faccia sottile e inevitabile; dalla fine degli anni ‘10 all’inizio degli anni ‘40  la lezione  del fauvismo  si ripercuote in Mirò soprattutto  come l’ immersione emotiva e violenta nel colore per produrre una rottura netta con la tradizione. Dall’altro lato, le tele di Mirò dalla fine degli anni ‘30 esercitano in Matisse un impatto ineguagliabile per la loro unicità e forza trasgressiva divenendo punto di svolta al solco del suo stile ormai assodato. Nella parte conclusiva del percorso, infine, nella grande hall al secondo piano assistiamo proprio a questo confronto diretto  e finale tra alcune grandi opere dei due pittori partendo dal presupposto comune di tendere “ al di là dell’immagine”: “l’assassinio della pittura” in Mirò come “l’estetica decorativa” in Matisse.


Matisse, “Interno in rosso veneziano”, (1946)


Una pittura della luce, del lato luminoso dell’essere umano ricercando questa armonia di composizione dove nessuna linea o tonalità colorata si potrebbe escludere senza che venisse meno l’unità d’insieme. Algebra perfetta di linee essenziali, figure immerse nel colore, ogni cosa trova un proprio posto, lì perché definita nel suo dover essere, ordinando il caos nella creazione. 

Non la riproduzione della natura ma la “semplificazione delle idee nella plasticità delle forme” secondo le parole di Matisse. Attraverso i mezzi più semplici il pittore deve poter esprimere,“oltre la realtà data, tutta la sua visione interiore.” 

Se il colore non è fenomeno puramente esteriore ma contribuisce a esprimere la luce, non solo quella fisica ma anche quella interiore che illumina l’oggetto nella percezione dell’artista, dipingere nei grandi “interni” matissiani degli anni ’40 è sentire la portata sensibile dell’ oggetto e, insieme, essere immediatamente dentro il colore. Utilizzare questo potere emotivo, il potere di liberare e ampliare le convenzioni espressive d’un epoca aprendo la via a uno spazio plastico autonomo, quello dell’arte moderna, dove disegno, colore puro e linea, gli strumenti matissiani per eccellenza, non sono più al servizio d’una realtà fenomenica ma, essi stessi, al centro della pittura: mezzo e misura sostanziale per rapportarsi alla sua interna realtà nel suo esterno apparire. Inseguendo questa intuizione, Interno rosso di Matisse nasce come un’emergenza di colore dove poi cominciano a fluttuare degli oggetti in composizione libera: un tavolinetto sinuoso, un vaso di fiori al di sopra, un bicchiere al suo centro, un piedistallo, un’anfora gialla, un quadro di linee nere e dense sul retro. E la linea scorre fluida, sicura, intuitiva emergendo dal fondo in un segno dalla semplicità disarmante, in una giustezza, tuttavia, ineluttabile. 

In “Interno rosso”, la potenza del rosso va a riempire gli spazi vuoti, come le marcature segnate dagli oggetti decorativi nella composizione. E, d’un tratto, nel grande interno rosso, la visione si anima, diviene vivente. Gli oggetti come forme in ebollizione, molluschi fluttuanti in un vaso di pesci rossi, guizzano in quel bagno invasivo di colore. Infine si riflettono nell’arancio d’ un quadro al fondo della tela in un implicito riferimento autoriflessivo all’atto della pittura. 

Mirò “ Costellazioni”, ( serie, 1940)


Le immagini di Mirò oltre all’apparenza astratta rinviano  sempre più a un sostrato materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e magnetico le cui radici affondano nell’inconscio, nel sogno o nella visione intuitiva della natura: tale,la trasmutazione simbolica della realtà per i paesaggi di Mirò. Nel gennaio del 1940, nel suo isolamento a Varengeville sur Mer, dove aveva preso in affitto una casa per sfuggire agli orrori del regime franchista, l’artista si tuffò nella pittura dando  avvio a ciclo delle Costellazioni. 

“A quest’epoca – racconta in seguito – ero molto depresso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle (…)” 

Le tele parlano ai sensi e all’immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi guarda,la tessitura di un vero e proprio ordito visivo. La pittura diviene soprattutto negli ultimi decenni della sua produzione una forma di scrittura universale, onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza in un alfabeto di segni lievi, delicati o minutamente tracciati come fossero linee di china, ora densi, corposi e materici simili a macchie o pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre immerse in un movimento intrinseco come assistessimo a una danza di corpi che si muovono in un campo ritmico proprio.

 

Come Mirò afferma: “l’opera è come una creazione plastica assoluta ed essenziale, con la sua personale, intrinseca poesia. Perché solo la poesia può interpretare la realtà e la natura”,e forse salvare il mondo.  Le forme danno vita ad altre forme nello spazio vivente della tela, costantemente mutando rispetto a loro stesse . Diventano tracce, una tessitura primigenia di corpi ora terrestri ora celesti fino a dare vita a una realtà di segni e simboli universali. Lo spazio poetico della pittura è uno spazio vivente, d’una semplicità assoluta dove è sufficiente riempire o svuotare, aggiungere o togliere gradazioni colorate al vocabolario essenziale della pittura. Perché, in fondo la pittura in Mirò è intuizione inconscia, impulso dentro il colore e la linea fino a riempire gli spazi in campi magnetici che seguono leggi ritmiche insieme universali e proprie.

Visioni a confronto

Matisse, “ Vista su Notre-Dame” (1914), Mirò “ testa di contadino catalano” (1925)

 

Sono due interpretazioni di un medesimo spazio visivo immerso nella vibrazione poetica del blu; uno  stesso orizzonte teso verso qualcosa di invisibile al di là dell’immagine. Le due visioni di Mirò e Matisse portate da uno slancio oltre la materia appaiono convergere in qualche modo qui, favolose e irreali, seppur provenienti da decenni e presupposti diversi nelle loro poetiche. Geometrica, epurata l’architettura di Notre-Dame in Matisse finisce per essere sintetizzata da un'unica superficie: uno squarcio sul muro della cattedrale riassorbe tutta la visione su quell'unico punto di fuga prospettica verso una linea di surrealtà oltre la rappresentazione . Ed è proprio in tale spazio di surrealtà che bagna la tela di Mirò partendo dal presupposto di assassinare la pittura per trovarsi al di là della mimesi in uno spazio che tuttavia non è mai completamente astratto ma fatto di tutta la materia del colore e l’intensità di una trama di simboli e segni universali. Punto di fuga surrealista dato dallo strascico di una cometa, una pennellata di rosso , il passaggio verso un'altra realtà.

La tela-superficie di Mirò  é un percorso-tracciato sul reticolo-cosmo, una linea che conduce verso un salto nel vuoto: metafisico luminoso segnato da un punto arancio lucente. 

 



 

mercoledì 19 giugno 2024

"Preraffaelliti", muse e opere ( al Museo san Domenico a Forlì)




Se come leggiamo nel pannello introduttivo alla mostra   “Preraffaeliti” a Forlì “kronos” rappresenta lo scorrere indeterminato del tempo e “kairos”l’istante decisivo carico di senso che ne incide il fluire dando ad esso il suo unico valore, allo stesso modo ogni divenire del presente dialoga con un passato più o meno manifesto rimanendo da esso plasmato. Tale dialogo tra i linguaggi artistici, pittura o arti visive e le varie epoche storiche, l’ottocento in particolare, appare al centro delle scelte curatoriali del Museo san Domenico illustrando il lavoro di quel gruppo di artisti inglesi che dalla metà del XIX secolo ha totalmente rivoluzionato l’estetica vittoriana dando vita a un rinnovamento profondo dell’arte in Inghilterra con opere moderne di forte impatto visionario seppur radicate nella tradizione pittorica italiana del ‘400.

L’intera vicenda di tre generazioni di artisti che tutti si richiamarono allo spirito e al nome di Preraffaelliti è così ripercorsa attraverso una selezione di 350 opere  nel viaggio unico proposto dal museo che spazia dai i Nazareni precursori del movimento ai suoi esiti ultimi nel primo Novecento.  Il confronto diretto con i grandi Maestri italiani Giotto, Cimabue ecc da trecento al cinquecento visitabili nella prima parte della mostra  sfocia nelle opere degli artisti moderni inglesi nella seconda parte dando vita a una pittura innovativa, appassionata carica di simbolismo e immersa ancora nel sentire romantico all’indomani degli eventi del ’48 in Europa per quello che può definirsi un vero e proprio nuovo Rinascimento.

La cultura romantica costituì del Medioevo un’immagine mitizzata recuperando da quell’epoca la sfera del sentire, l’aspetto passionale ed eroico,  il fervore religioso o mistico, la densità dell’esistenza contro il rigore delle convenzioni e l’ipocrisia della società vittoriana.  Gli artisti preraffaelliti con la loro aspirazione romantica all’infinito cercano “salvezza” nelle opere più antiche, pre-rinascimentali, precursori in maestri come Cimabue, Giotto o in artisti del‘400 italiano come Botticelli  prima della perfezione e del rigore estetico di Raffaello.

Il percorso si apre con una sezione dedicata proprio ai grandi Maestri italiani del ‘400 con artisti come Beato Angelico, Botticelli, Filippo Lippi, Luca Signorelli ecc                                


Nel “ Compianto su Cristo morto” di Beato Angelico la figura del Cristo deposto al suolo appare avvolto da un’aurea di luce, immerso nello splendore di questa emanazione spirituale, forse già distaccato dalla terra per ricongiungersi al  Padre mentre le donne ai suoi piedi, ugualmente aureolate, sono immerse in una luce divina che  inonda ed eleva la sofferenza e il pathos della carne, la passione del Cristo sulla croce ad ardore religioso lontano dal sangue o da ogni altro dettaglio realista nella scena. Tutto è irradiato di un’aurea luminosa nell’ascesa spirituale delle figure; le tuniche ugualmente appaiono immerse nel colore_ vivido, vivo, rifulgente_ quel colore cui i Preraffaelliti si ispireranno per restituire  pathos e centralità alla sfera emotiva, passionale o mistica dell’esistenza che si opponeva ai codici borghesi della rigida moralità vittoriana, nonché al classicismo imbalsamato della loro Accademia.


Nella “Madonna di Piazza” (1474) di Andrea del Verrocchio, maestosa sul trono si impone la Vergine come una nobildonna quattrocentesca dalle forme piene, in una carnalità espansa dove la figure assume spessore, plasticità, volume e corpo rispetto alla pittura tardo-gotica. Troneggia al centro il bambino, enorme nella rappresentazione anatomica del corpo, sproporzionato e dominante rispetto alla figura della madre, la stessa stagliandosi nitidamente in un abito blu vivace nel drappeggio delle forme fisiche ben marcate.  



Nella celebre tela di “ Pallade e il centauro” ( 1482) ancora è ben visibile in Botticelli una fonte di ispirazione per la pittura preraffaellita.  Il volto malinconico della giovane Pallade, etereo, irradiato di una grazia ineffabile, di una bellezza quasi sovra-umana nell’estetica botticelliana rimanda a molte figure femminili nella pittura dei moderni artisti inglesi. Gli stessi spesso dipingevano volti visionari dalla bellezza eterea proiettati verso il mondo spirituale ispirandosi a celeberrimi miti della letteratura europea. Pallade ricalcando l’ideale estetico botticelliano incarna nella mitologia greca una divinità guerriera rivestita tuttavia qui da un abito leggero e floreale, infine fiancheggiata dalla figura mitica del centauro a metà animale e a metà umano .


Arazzi del Santo Graal (Edward Burne-Jones, William Morris)


Leggende medievali narranti le vicende di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda, il mito di Camelot o la ricerca del Sacro Graal ispirano la letteratura di tutto il Medioevo e sono rivisitate in una serie di arazzi meravigliosamente intessuti da due tra i più importanti esponenti della confraternita.  Nella serie qui esposta vediamo la partenza dei cavalieri congedandosi dalla corte di re Artù;  di seguito, Ginevra porge lo scudo a Lancillotto, il medesimo viene fermato d’avanti alla porta della cappella del Graal per mancanza di fede, addormentato da un angelo che gli sbarra il cammino. Infine nella scena finale Percival,  cede il passo al figlio circondato da bianchi gigli che si inginocchia di fronte alla porta del santuario.  La semplicità della leggenda immersa nella dimensione spirituale di una ricerca sul senso ultimo e religioso dell’esistenza è restituita attraverso i colori accesi prediletti da questi artisti e un realismo inteso “verso la Natura” cioè atto a illuminare la verità del cuore e non la copia delle mere sembianze esteriori.

 Proseguendo il percorso guidato dopo uno spazio dedicato a John Ruskin, influente critico d’arte appassionato di architettura rinascimentale che divenne punto di riferimento teorico per il movimento incontriamo gli artisti più significativi che  dettero vita alla confraternita “Pre-raphaelite brotherhood” tra i quali Dante Gabriel Rossetti, poeta e pittore fondatore insieme ad altri due giovani artisti William Hunt e John Everett Millais del movimento nonché voci femminili  e muse ispiratrici  tra le più importanti quali Elizabeth Siddal, Jane Morris, Christina Rossetti ecc Seguono gli artisti della seconda generazione, Edward Burne-Jones e William Morris a sua volta iniziatore del movimento Art and Craft che porterà lo stile preraffaellita fino agli albori del ‘900. Un ultimo focus nella mostra è dedicato, infine a alcuni pittori italiani che ispirandosi al Medioevo dimostrarono una sensibilità affine a quella dei preraffaelliti inglesi.

Dante Gabriel Rossetti, ritratti femminili


La sua esistenza fu segnata da diverse figure femminile, artiste, muse o compagne di vita che divennero anche il soggetto principale dei suoi ritratti, prima fra tutte Elizabeth Siddal la cui morte segnò drammaticamente la vita e l’opera del poeta enfatizzando il processo di idealizzazione femminile già presente nella sua visione pittorica.  Artista, musa e modella che Rossetti sposò nel 1860 si tolse la vita nel 1862 con un overdose di laudano in seguito a una profonda depressione per la perdita della figlia che portava in grembo venuta alla luce morta. In seguito tra i volti più noti rappresentati ì da Rossetti  compaiono Fanny Conforth, personificazione dell’erotismo sensuale e nei ritratti forse più oscuri gli occhi smisurati di Jane Morris che incombe sulla tela come creatura insieme attraente e inquietante .

“The Roman widow”

Le prime opere dove compare il volto di Elizabeth Siddal sono spesso evocazioni poetiche dalla bellezza immediata e sensuale eppure avvolte da un aurea spirituale, quasi le figure femminili appartenesse a una sfera altra rispetto a quella terrena: esseri in qualche modo angelici provvisti di un candore e insieme di una limpida idealità talvolta rivisitando figure mitiche del passato come in questo caso la donna romana. La giovane accompagnata da due strumenti musicali  appare adornata da fiori, avvolta dai veli di una tunica sinuosa. L’inquadratura ravvicinata del volto femminile  in primissimo piano esalta attraverso un uso smisurato e vivido del colore la ricerca di una bellezza assoluta, fine a sé stessa ma anche sublimata secondo lo spirito e la sensibilità romantica.

“Donna della finestra”

Jane Morris, allora consorte dell’artista William Morris, appare qui come nuova musa per Rosssetti dopo la morte di Elizabeth rivisitando per questa tela l’opera dantesca, in particolare la figura di Beatrice e l’incontro tra Dante e Beatrice nella “Vita Nuova”. Volto ancora una volta in primissimo piano, Jane guarda  in un attimo folgorante come Beatrice il poeta infranto per la scomparsa della moglie. La figura  di lei appare rispetto all’antecedente molto più oscura, inquietante avvolta da un’aurea di mistero e inconoscibilità come trovandosi di fronte all’enigma da decriptare della sua bellezza o meglio della sua anima: un essere misterioso il cui sguardo cresce in intensità e si staglia sempre più in rilievo, attraente e ipnotico rappresentando forse l’opposto alla bellezza solare della precedente. Una dualità tra spirito e materia, tra luce e tenebre, l’elevazione e la ricaduta nello speen esistenziale e, ancora,  la sensualità o la sua sublimazione, che permane come elemento stilistico in molto lavori  dei Preraffaeliti.


L’ultima parte dell’allestimento è infine incentra sugli artisti della terza generazione tra i quali John Waterhouse (“Le Danaidi” 1903), che subirono la fascinazione delle tendenze neorinascimentali nella rivisitazione di miti classici, esponendo soprattutto alla  Grosvenor Gallery quale alternativa progressista alla Royal Academy. Troviamo qui tra le altre opere la rappresentazione libera e anticonformista di “Ipazia”( 1885) di Charles Mitchell, nata ad Alessandria d’Egitto. Filosofa greca e pagana, donna colta e perseguitata dai Cristiani, è rappresentata nuda di fronte all’altare di una chiesa nel momento che precede il suo assassinio quasi a manifesto dello spirito irriverente e rivoluzionario, dello stile di vita anti-borghese e trasgressivo che animava questo gruppo di artisti. 



Per concludere, non possiamo prescindere da un mito del teatro Shakespiraino  come “Romeo e Giulietta” nella tela preraffaellita di Frank Dicksee. Ritorna tutta la simbologia degli elementi citati sulla tela: la tunica bianca d’epoca vittoriana, i lunghi capelli della giovane donna, i fiori di giglio o di passiflora simbolo di purezza o le decorazioni floreali sullo sfondo. Il tutto a circoscrivere lo spazio disegnato dal balcone dal quale Romeo sta fuggendo e dove si consuma il bacio appassionato trai due amanti, quel momento di purezza e passionalità che nel quadro sancisce insieme l’attimo decisivo e la fatalità drammatica del loro destino. Grandi narratori di storie e di miti gli artisti del movimento preraffaellita scelgono come abbiamo visto di rifarsi alla semplicità dell’arte medievale o pre-rinascimentale, di tornare verso quell’epoca oscura luogo di miti e leggende che porterà al rifiorire del Rinascimento per rinascere anche loro liberi e anticonformisti dalle ceneri di uno spenta e usurata società vittoriana.

 

 

mercoledì 1 maggio 2024

"Exodus", Sebastiao Salgado ( al Mar di Ravenna)










Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo. Tali storie, ugualmente documentate dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “ Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno. Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente  si ripresentano_ rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ‘90_ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine la crisi prodotta dall’emergenza climatica in atto.

Quasi tutto ciò che accade sulla terra è in qualche modo collegato” afferma la curatrice Lélia Wanick Salgado, perché una crisi prodotta da una guerra per esempio quella russo-ucraina o a un imprevisto disastro ambientale in una parte remota del mondo influenza e ha delle ripercussioni in tutto il resto del pianeta. “Le persone strappate dalle loro case sono solo le vittime più visibili di un processo globale. Le fotografie qui rappresentate “catturano momenti tragici, drammatici ed eroici di singoli individui” e tutte insieme raccontano anche una realtà che ci appartiene, “ la storia del nostro tempo”. Come sottolinea la curatrice: “Esse non offrono riposte ma al contrario pongono una domanda: nel nostro cammino verso il futuro non stiamo forse lasciando indietro gran parte del genere umano?”

La fotografia documentaria ha portato Salgado in giro per il mondo attraverso i cinque continenti. Le immagini suddivise in varie sezioni spaziano da una parte all’altra del pianeta toccando temi diversi legati al nodo centrale dell’esodo. Nella prima parte si parla di migranti e profughi di oggi contro il loro stesso volere in immagini emblematiche del nostro tempo. La seconda sezione è dedicata alle crisi che hanno investito il continente africano negli anni ‘90 come i profughi ritornati in Mozambico dopo la guerra o la crisi umanitaria in Ruanda. Nella terza parte si parla di America latina con le migrazioni di massa avvenute dalle zone rurali a quelle urbane dando vita alle grandi metropoli del sudAmerica come Città del Messico e San Paulo circondate da estese baraccopoli. Segue la serie di Salgado che racconta la sovra-popolazione in Asia e la creazione di megalopoli come Shangai, Bombay ecc segnate dalle condizioni precarie di vita della maggioranza. Chiude la mostra una selezione di volti arrivati dai quattro angoli del pianeta, perlopiù ritratti di bambini _ spesso le prime vittime delle guerre, degli esodi o comunque della povertà_ ma qui posizionati al centro dell’obbiettivo come i protagonisti indiscussi in un atto di riscatto, inaspettato e lui epifanico.

Migranti e rifugiati: Cap Saint Jacques













Una spiaggia deserta immersa nel profondo chiaroscuro della foto in bianco e nero quasi a immagine di un’umanità sopravvissuta da un immenso diluvio universale sulla terra. Una barca solitaria è spinta a riva da pochi uomini, salvata dall’impetuosità delle acque quasi fossero approdati in una terra promessa dopo il diluvio che ha visto spazzare via tutte le restanti creature. Ancora è l’immagine di una spiaggia deserta da cui sono pronti a partire centinaia di migranti verso l’ignoto oltre la violenza del mare, al di là dell’impetuoso scrosciare delle onde a riva a segno di un incerto, spaventoso destino.

Nella foto successiva una bambina guarda lontano l’oceano oltre il suo infrangersi violento sulla riva là dove le acque hanno portato via i suoi cari e dove altri sono partiti o scomparsi in mezzo ai fiotti, forse divorati dalle correnti. Sulla sabbia parole scritte restano incise come geroglifici primordiali sulla roccia per lasciare una traccia, la memoria da chi è scomparso, portato via dalle correnti o da un  destino avverso.

Lo stretto di Gibilterra

In una notte tempestosa una massa di fumi densi e grigiastri si alza su quel varco infernale tra cielo e terra ad avvolgere i drammi diffusi di tante morti anonime. Migliaia di tentativi di fuga   affossati lì, tra quelle acque; i volti di un’umanità ferita e dispersa ancora in cerca di salvezza.

A proposito di guerra : “La strada principale di Kabul” ( 1996)



Distrutta dai bombardamenti, disertata dai civili in tempo di guerra, il centro di Kabul appare a distanza come un paesaggio desolato, astratto nel chiaroscuro dell’immagine in bianco e nero e svuotato di presenze: relitto e insieme cicatrice di uno shock violento e distruttivo. Rovine di palazzi e cumuli di macerie si ergono lì insieme alle ombre oscure degli individui che la attraversano  restituendo l’immagine di una città fantasma. Visione emblematica di ciò che resta nel passaggio violento e irreversibile di tutte le guerre. 

Campo profughi palestinese”

Sorridono questi bambini nonostante tutto relegati dentro lo spazio ristretto e murato di un campo profughi per rifugiati palestinesi in Siria. Esprimono la voglia, malgrado la situazione drammatica, di libertà, leggerezza e gioco, l’incanto nello sguardo dei bambini identico in tutto il mondo dovunque essi si trovino, liberi o reclusi, arabi o israeliani, la loro curiosità e irriverenza verso la vita come la voglia di correre e muoversi liberamente e senza freni. Ali di libertà disegnate su un muro del campo profughi e versetti del Corano trascritti a caratteri arabi si stagliano come geroglifici oscuri, magnificenti e grandiosi di un codice a loro solo decifrabile. Accanto, la grata di una finestra dietro la quale altri bambini sono reclusi o trattenuti dentro lo spazio ristretto e regimentato del campo.

Una profuga kosovara in Albania


 Giace rannicchiata sullo sfondo di un paesaggio arido e brullo dove null’altro si erge se non la linea di demarcazione tra cielo e terra e fili spinati in primo piano lungo una barriera che preclude l’attraversamento e la avvolge tutt’intorno. E’ avvolta da una coperta nel freddo invernale e forse proviene da un campo profughi lì nelle vicinanze. L’immagine  emblematica racconta un’umanità vista in uno strato di esilio permanente, obbligato e senza speranze: condizione dei molti costretti a spostarsi in altre zone della terra inseguendo un destino vagheggiato di agio e libertà. Un paesaggio raso al suolo da eventi devastanti fuori dal suo controllo; l’individuo al centro come nodo problematico e esistenziale.


Una strada è simbolicamente aperta attraverso un paesaggio, dissecato di massi e di rocce. Un bambino percorre quel sentiero aperto tra gli sterpi come fosse alla ricerca di una via di d’uscita o di salvezza. Quell’alternativa immaginata o sognata spinge la maggior parte dei migranti alla fuga verso l’ignoto, all’attraversamento dei confini alla ricerca di orizzonti ancora possibili. Sullo sfondo, dalla parte opposta della strada, alla stazione di Ivankovo è un treno fermo dove un centinaio di profughi hanno trovato un alloggio di fortuna in Croazia durante la guerra.











African Tragedy

La serie di fotografie scattate nel continente africano negli anni ’90 documenta la crisi umanitaria accorsa in Ruanda in seguito alle vicende tragiche di violenza e persecuzione che hanno segnato la popolazione durante la guerra civile. Ruandesi in cammino verso un campo profughi in Tanzania appaiono nella foto; donne e bambini con la loro casa fatta di poche coperte e cocci essenziali sulla testa camminano a piedi nudi mentre la strada si dispiega  limpida di fronte a loro, il cielo basso e coperto di nuvole nella semi oscurità del tramonto. La savana li scruta a distanza sullo sfondo. Partono lasciandosi alle spalle una terra di atrocità e miseria verso un futuro incerto e oscuro. In un’altra foto vediamo un accampamento di profughi ruandesi in Tanzania fatto di tende per dormire di notte lungo il cammino, pentole e le ceneri di fuochi spenti nell’oscurità.

Mozambico: un popolo in cammino verso una nuova vita attraversa il grande ponte in prossimità del lago Malawi per tornare in patria dopo quindici anni di esilio in Tanzania. Una donna e un bambino avvolto in fasce sulla sua schiena si scorgono tra le fronde di una piccola piantagione verde sopraffatta di foglie e sterpi. Cominciano una nuova vita coltivando la terra che erano stati costretti ad abbandonare quindici anni prima, tornati a casa alla fine della guerra.  































La sezione America latina: esodo rurale, disordine urbano” mostra in una prima foto un villaggio Moruba nella foresta amazzonica in Brasile dove l’essere umano appare ancora in uno stato di connessione profonda con la natura ancestrale e immutata che in sé stessa esiste in un suo eterno divenire. Una giovane donna dalla genuina bellezza si bagna nelle acque di un ruscello in prossimità di una cascata mentre altri bambini e donne del villaggio si mostrano sotto una luce irradiante a contatto con gli alberi ancestrali. Le acque limpide del fiume riflettono in una visione edenica e quasi irreale di paradiso terrestre.  Altrove, in altre fotografie sono le baraccopoli affollate dei migranti a San Paolo o a Città del Messico o ancora le sommosse del Movimento Brasiliano dei Senza Terra per rioccupare parte dei territori dominate dai latifondisti e indispensabili alla loro sopravvivenza.

La sezione Asia, il nuovo volto urbano del mondo documenta il passaggio dalla diffusa  povertà rurale alle nuove megalopoli asiatiche come Shangai, Giacarta, Bombay o Manila dove i migranti vivono in condizioni precarie spesso di sfruttamento e marginalità alle periferie degli immensi centri urbani. Vediamo una stazione enorme e sovraffollata dal traffico costante di migliaia di persone ogni giorno a Bombay, una moschea a Giacarta dove il singolo si perde nella schiera anonima e senza volto di copricapi bianchi in questa marea indefinita di esseri umani inchinati di fronte alla divinità. E, ancora, lungo il molo di Marina Drive un diseredato se ne sta disteso, avvolto da una coperta logora con alle spalle solo il volo dei gabbiani sulle acque ferme della banchina e, ancora più lontano, i grattacieli anonimi dell’immensa e scintillante megalopoli asiatica. 



Portraits  

Ritratti di bambini, limpidi e meravigliosi raccontano storie provenienti da tutto il mondo visti in primo piano semplicemente nella loro intrinseca autenticità e bellezza. Il fotografo ha lasciato loro la libertà di scegliere la posa o il gesto nel ritratto. Le espressioni, lo sguardo appaiono ora velati di malinconia e tristezza, ora sprigionando allegria e speranza. Dai quattro continenti questi bambini affrontano la macchina fotografica scegliendo di rendersi visibili, esposti al mondo in uno scatto fotografico e su una pellicola. Soli di fronte all’obbiettivo scelgono infine di essere visti e autodeterminarsi, loro le prime vittime dei fenomeni migratori, delle fughe obbligate o di chi la guerra rende profughi e esuli.   Il fotografo rivela di ciascuno di essi una limpida verità secondo il proprio contesto e cultura, fisionomia o destino da cui sono stati segnati. Li mostra in una verità gridata senza altro parametro o giudizio che la loro intrinseca bellezza di esseri umani, unici, singolari, limpidi di fronte all’obbiettivo.