mercoledì 15 ottobre 2025

MATTIA MORENI: “dalla formazione alla mutazione ” ( ex convento di san Francesco, Bagnacavallo)






















All’inizio del percorso è un melo verdeggiante visto su una tela enorme che occupa tutta la superficie di una parete in mattoni a vista e s’apre in cima a un’enorme scalinata in marmo;la mostra prosegue poi da un corridoio centrale in salette laterali dall’intonaco scrostato e varchi o fessure sulle pareti grezze nell’antico convento di San Francesco a Bagnacavallo volutamente scelto per ospitare l’opera di uno degli artisti più originali del novecento italiano: Mattia Moreni. 

Fino alla fine del prossimo gennaio, infatti, in tale spazio inusuale all’apparenza disertato, lasciato al decadimento della sua forma originale di “luogo religioso”  ma irradiato di una luce naturale, soffusa che lo attraversa come una scia luminosa da lato a lato è visitabile la prima parte del percorso espositivo dedicato a Mattia Moreni: “Dagli esordi ai cartelli”. Il progetto proseguirà itinerante con altre quattro mostre fino alla conclusione del ciclo espositivo a Maggio 2026 per celebra la poetica del pittore dagli inizi all’apice della carriera in particolare nel suo legame unico e profondo con la terra romagnola.

“Un melo”(1964) dunque si erge all’inizio del percorso immenso nelle tonalità verdi e azzurre sulla parete centrale della galleria. Così lo vede Moreni, portato quasi alla deformazione espressionista nell’uso esacerbato del colore in poche linee essenziali eppure vitali, sospinto dal vento che  come ondata lo travolge e lo assimila al suolo verdeggiante ma anche, lo trasforma in un’entità vivente, innata nel movimento, antropomorfa quasi. Lo sfondo del cielo è ugualmente soggetto a tale immersione profonda in un blu espressivo, intenso e anti-naturalistico.


La fase espressionista: “Autoritratto” (1946)


Verde e rosso i colori sulla tela, la figura appare deformata, squadrata e ingigantita di fronte ai nostri occhi come ci trovassimo dentro “a un racconto fantastico” o nella cosmogonia di un mondo aspro e favoloso dalle qualità tipicamente espressioniste. Tuttavia, al di là della dissimulazione del corpo reso in dimensioni innaturali ed esasperate lo sguardo irrompe piangente, genuino e malinconico facendo risuonare sottile e oscura una qualche voce dell’anima. Emerge chiaramente nel Moreni di questo periodo la vivacità della stagione giovanile nelle sue molteplici sperimentazioni che lo porta di lì a poco ad avvicinarsi al cosiddetto “movimento dell’astratto/concreto” lasciandosi alle spalle l’espressionismo per entrare tangenzialmente a far parte  del “Gruppo degli Otto” esponenti dell’Informale italiano definito dal critico Lionello Venturi.

L’Astratto-geometrico : “Canale Candiano “(1953)


In questa fase di formalismo astratto è l’analisi o meglio “la disposizione mentale del segno” che domina sulla tela distillando qualche porzione di realtà per trarne un reticolo astratto-geometrico. Tuttavia, nella visione del “Canale Candiano” del 1953 l’atmosfera crepuscolare del mare con le sue reti e battelli dei pescatori trapela oltre la griglia geometrica attraverso il riflesso argenteo, grigio-azzurro del corso d’acqua fermo, immobile nella luce smorzata del tramonto che rimanda a una realtà più materica e concreta, più palpabile anche negli oggetti a lato, segno di linee e forme decise a prendere corpo a poco a poco sulla tela.

L’informale

Tra il 1956 e il 1966 Moreni vive e lavora tra Parigi e Palazzo San Giacomo a Russi nel ravennate eletto come suo atelier temporaneo di pittura avvicinandosi  al movimento dell’Informale di matrice francese per giungere lì probabilmente al culmine della sua fama ed esporre nelle principali gallerie europee. La sua pittura si fa sempre più “emotiva”, coinvolgendo l’esistenza tutta in una espressione “Informale” della medesima: grandi pennellate,  segni potenti e materici, colori vivaci nel confronto, infine sempre, con la natura in un ritorno alla realtà seppur su matrice astratta. Un medesimo paesaggio appare qui per esempio, reincarnarsi su due tele parallele , nel grigio prima e nel verde poi, facendosi sintesi di un’immersione totale nel colore e, insieme, di un gesto astratto per la pittura.

Cartelli e paesaggi: lo scontro violento con la natura


L’insorgenza di un grido “ primario e primordiale, incombente e opprimente, terribile nella sua forza e raffigurato con tutta la sua carica psico-fisica”, tale l’essenza di questa nuova strada e insieme la svolta radicale  che a partire dal 1959-60 assume la pittura di Moreni elaborando una nuova poetica dei “paesaggi” e dei “cartelli”. I primi incarnano quell’urlo silenzioso e inaudito dell’umano che come emergenza psichica istintiva non può essere taciuto né detto ma riesce a tradursi solo in pura traccia e segno materico. I secondi appaiono come messaggi criptati lanciati al vento nell’isolamento della campagna oppure nascosti dentro una bottiglia di vetro;  la denuncia di un qualcosa che viene meno o disintegra nella realtà e nella storia a lui contemporanea in una tendenza  progressiva verso la regressione pittorica degli anni successivi.

“Immagine bestiale”, (1960)

Violento, incontenibile come l’estrapolarsi di un getto di colore nell’irreversibile potenza del nero, appare il paesaggio in questa tela, quasi in una rottura violenta alla memoria di un dripping pollockiano. Colore-impronta, colore-emozione ad effetto sulla tela, colore come vita e morte insieme interfacciate, celate tra il nero, il grigio e l’ocra oltre i confini sanciti  dalla cornice, oltre la fine della superficie bidimensionale del quadro simile a una ferita, un grido o semplicemente un’insorgenza di materia e vita.

 

“Un cielo cattivo” (1957)

E’ una terra vista come globo circolare, sferico nella forma della tela da Moreni scelta per questa “emergenza” di paesaggio dove  tensioni ed energie insieme attrattive e repulsive la attraversano. E’ “un cielo cattivo”, una terra malata, una commistione di colori   a raffica dove il nero ancora la fa da padrone frammista ad ansiti di bianco e schegge di rosso e di blu. E’ la complessità di forze incontenibili dentro una cornice spingendosi fuori in un’emergenza materica non figurativa ma neanche completamente  astratta. E’ qualcosa che inciso, lacerato o scritto vuole manifestarsi, gridare o rendersi visibile in una traccia puramente pittorica. 

Cartello “non calpestare il prato”(1964)





Su uno sfondo grigio e denso, su una copertura totale di vernice come del reale esistente un cartello quasi banksiano appare nella scitta incisa e colante in bianco: “ non calpestare il prato”, non gettare via fiori invano, non calpestare la vita sulla terra, non rovinare o distruggere ogni spazio vivente intorno a te, e ancora, lascia uno spazio di bianco e di vuoto, una pennellata di luce, una scia aperta di bianchezza e di candore per i cuori e le menti quando la realtà intorno sembra sempre più oscurarsi, essere ingoiata e scomparire.

“Agonia di un campo” (1969)
















Come afferma Moreni “il rapporto tra il pittore e la terra che ha scelto è un rapporto d’amore” alludendo alla terra romagnola dove Moreni decide di insediarsi per gran parte della sua vita, qui prescelto come focus per l’intero percorso pensato in cinque tappe museali. Tuttavia , l’artista rileva anche nella fase più regressiva della sua produzione come sempre più la realtà appaia ai suoi occhi  precaria o destinata  alla dissoluzione, i campi plastificati o fatti esplodere dalla chimica dell’inquinamento e la natura sempre più soggetta alla distruzione.

“Travolto dall’ ammoniaca e dall’acetone dell’Anic” il campo di Moreni qui rappresentato “esplode e muore” ma dileguando sulla tela immensa della parete irradia ancora di luce propria o riflessa. Dissolve dal verde iniziale della natura al bianco livido dell’irradiazione, sfuocato in una luce quasi irreale e metafisica con qualche tocco di ocra e di pastello. Dal livore conclamato della terra a una levità e leggerezza inaspettate l’artista chiude così in un cerchio perfetto la sua visione della natura da quella verdeggiante e espressionista della tela iniziale a questa eterea e  dileguata dell’ultima versione.

martedì 2 settembre 2025

Mohamed Bourouissa: Communautés ( al Mast di Bologna)

 


















“Communautés”come titola la mostra di Bourouissa volge la propria attenzione ai margini, alle periferie urbane, alle comunità viste nel loro risvolto liminale rispetto all’epicentro del potere, là dove le minoranze non rappresentate risiedono, coloro che solitamente restano invisibili, non visti o senza voce nella società contemporanea. Tale diviene il fulcro di interesse del lavoro di Mohamed Bourouissa  artista di origine algerina, cresciuto in Francia,stabilito a Parigi, esposto attualmente al Mast di Bologna fino alla fine di settembre.  La retrospettiva ripercorre un ventennio della sua carriera accostando  video, fotografia, scultura, collage e stampa in 3D in tre grandi progetti  portati avanti nel corso degli anni e il più recente, inedito “Hands” esposto a Bologna per la prima volta al pubblico. Imprescindibile resta per l’artista franco-algerino, al di là del linguaggio scelto, fotografico, scultoreo o performativo, una riflessione critica sulla società contemporanea toccando temi fondamentali come le città, le migrazioni di massa, il conflitto tra società e individuo nei singoli rapporti di potere, infine la rappresentazione o auto-rappresentazione di sé.   Non si tratta di una fotografia documentaria_ la pura e semplice documentazione oggettiva di realtà_ ma di una “messa in scena fotografica”, di una finzione costruita attraverso il coinvolgimento attivo dei soggetti rappresentati nell’ottica “partecipativa” di qualcosa che si realizza o si rende visibile come accadimento di fronte ai nostri occhi. I soggetti non sono solo passivamente colti dal fotografo ma divengono attori di dinamiche sociali esposte o involontariamente svelate: le tensioni nelle banlieues parigine, la parata di “cow boys” neri a Filadelfia per “Horse day”, infine auto-ritratti che simulano selfie di giovani francesi delle nuove generazioni .




HORSE DAY ( 2013-19)


















Il “Fletcher street Urban riding club”  è una scuderia sociale fondata nel 2024 a Filadelfia dalla comunità afroamericana locale per prendersi cura dei cavalli, coltivare la passione dell’equitazione e offrire ai giovani neri un’alternativa alla strada legittimando così il loro operato. “Horse day” esposto nelle prime sale del Mast nasce come l’esito di una competizione-performance equestre nel corso di una giornata speciale nel 2014: una parata di cow boys con costumi e bardature dei cavalli realizzati per l’occasione cui sono seguiti un film documentario e una serie di sculture in 3D. Nella prima sala del Mast locandine multicolore dell’evento tappezzano le pareti del museo come all’epoca ricoprivano quelle della città accompagnate dalle musiche originali composte per la parata e da alcuni sfarzosi costumi  argentei e luccicanti creati per i cavalli.  Collage e particolari sculture digitali  invadono lo spazio espositivo di “Horse day”: si tratta di stampe fotografiche dei partecipanti o di momenti salienti della giornata su pezzi di carrozzerie d’auto evocando ancora una volta la combinazione tra tecnologia e l’industria nella società attuale. Su un’altra immensa parete un montaggio colorato di una serie di schizzi, disegni preparatori, foto o altri piccoli collage documentano le fasi intermedie simile a un diario di bordo con i passaggi  che hanno condotto al montaggio  sull’acciaio in ampia  scala.



























“Unicorn” sovrappone  fotografie dai colori beige e ocra su una lastra argentea, volutamente “spiegazzata”, soggetta a una sfocatura intenzionale dove i bordi si confondono  mentre  un destriero bianco e bardato è condotto da un cow boy nero che chiaramente sovverte lo stereotipo della tradizione proveniente dal vecchio west americano per riappropriarla, stropicciarla appunto come un foglio usato e riutilizzato in maniera differente sulla superficie scintillante delle immagini.

“Ride Day 2” ( 2019)

 















E’ un affresco post-moderno apocalittico e industriale fatto di parti di carrozzeria in acciaio, pittura per auto, vernice spray e stampe digitali sulle medesime. “Ride Day”occupa tutta la parete della galleria estendendosi nel suo montaggio idiosincratico, fatto di pezzi d’auto di recupero, foto stampate e altri frammenti: i nuovi cow boys afroamericani si intravvedono tra le linee insieme alle bardature dei cavalli e le scintille d’argento che a pezzi disparati si ricompongono nel collage di Bourouissa. Allo stesso modo “Windows” sono finestre aperte sulla vita della comunità nera, individui del tutto sconosciuti e ignorati dalla maggior parte i cui ritratti meravigliosamente umani si rivelano come in un negativo fotografico su vecchie portiere d’auto quasi si trattasse di un’immagine rubata da uno specchietto retrovisore. Là, in primissimo piano, uno spaccato di vite, sguardi svelati nel contrasto del bianco e del nero. Infine, prepotentemente presente al centro della sala compare “The phone ” scultura prodotta da una stampa in 3D in resina e fibra di vetro: una presenza oscura, minacciante nella posa in una ulteriore rivisitazione dello stereotipo bianco dello yankee americano. 


PERIPHERIQUE 

 “Peripherique”_ tale il nome della tangenziale parigina che separa la città dai quartieri  periferici limitrofi _   appare come una serie “aperta” che il fotografo ha continuato a rielaborare con nuove immagini come l“Alyssia” e “Dinosaure” rilanciando l’attualità del progetto. Si tratta di volti, ritratti, messe in scena fotografiche realizzate da Bourouissa per un progetto portato avanti negli anni a partire dalla rivolta delle banlieues francesi nel 2005.

“Alyssia” (2022)



Questa giovane influencer franco-algerina  di “Peripherique” sceglie di auto-determinarsi attraverso una precisa immagine di sé: giovane libera, disinibita, senza veli sfatando gli stereotipi di rappresentazione della donna nella cultura islamica.  Decide di attraversare quel confine sottile che rende non solo visibili ma anche capaci di imprimere un segno, lasciare una traccia permanente sul destino di coloro con cui si entra in contatto. Lei, giovane araba dall’impronta occidentale sceglie di riappropriare la propria identità, corpo e vita, “blessed” come si autodefinisce nel tatuaggio impresso a grandi caratteri sul suo braccio . Da sé stessa legittimata decide di sfidare nella sua rivendicazione di libertà e potere al femminile i cliché sulla cultura araba in occidente così come l’oppressione patriarcale da essa perpetuata.

“La Republique” (2006)


Nelle periferie di Parigi, in quella zona ibrida ai bordi esterni del centro di potere delle elite lo scontro tra giovani di una  gang è messa in scena da Bouruissa evocando le rivolte nelle banlieue avvenute  nel 2005. Il titolo dell’immagine “Republique” dove in primo piano i giovani rivoltosi sventolano una bandiera della repubblica francese evoca, citando implicitamente la celeberrima opera di Delacroix , i nuovi esponenti di questo paese post-coloniale da generazioni frutto di migrazioni, metissage, e contaminazioni tra le diverse culture, nello specifico quella magrebina e quella francese dove ancora non sembra essersi compiuta l’attesa e imprescindibile integrazione. L’immagine intende lasciare spazio e a queste frange urbane di giovani francesi di discendenza araba che chiedono voce, visibilità, un volto in una società che ancora li rende invisibili o inesistenti.

“Dinosaure” (2022)

In uno scenario quasi idillico che rimanda a una visione paesaggistica di ispirazione impressionista una famiglia francese di origine araba è vista nello splendore del momento presente sullo sfondo di un parco fiorito di alberi e cespugli verdi. Tra tradizione e modernità il velo che ricopre il capo della madre proveniente dal mondo arabo si oppone ai capelli lunghi e sciolti delle giovani figlie dai giubbotti di pelle nera e le sneakers ai piedi simili a qualsiasi altra adolescente francese della stessa età. La visione è irradiata di una luce di  aspettativa e ottimismo verso un futuro di coesistenza pacifica  nel difficile equilibrio tra occidente e islam in Europa, tra retaggi gerarchici o repressivi del passato e nuova libertà individuale ancora da conquistarsi.

 SHOPLIFTERS


La serie di fotografie originariamente scattate dal proprietario di un negozio di Brooklyn con una semplice polaroid mostrano in una messa a nudo diretta e frontale i volti di individui  sorpresi a rubare nel supermercato, messi in posa insieme alla refurtiva una volta colti dalla telecamera di sorveglianza. La spaventosa banalità dei beni sottratti come biscotti, uova o birra  insieme ai volti inermi degli indigenti colti dal sistema di sorveglianza svela, in realtà, dietro l’apparente banalità del gesto la violenza e la miseria insite sotto la superficie della società consumista americana. Ne emerge una criminalizzazione disumana della povertà fisica e morale da parte di una società accusatrice e senza pietà.  Uomini e donne della strada sono mostrati in primissimo piano in una messa a nudo fredda, opaca e senza veli che sottolinea ancora di più le contraddizioni ai margini dell’illusorio benessere e del vano spreco  nel sistema capitalistico occidentale .

 HANDS

Immagini provenienti dal passato, in particolare dettagli di corpi, volti, mani o gesti ricompaiono ristampate sul plexiglass e poste sullo sfondo di una griglie metallica nell’inedita serie “Hands” presentata per la prima volta al Mast di Bologna. Si tratta di trasformare o riappropriare ancora una volta nell’ottica di Bouruissa quello che del passato non può sussistere in sé stesso come immutabile ma che invece è soggetto, come la vita stessa, al cambiamento e all’inevitabile trasformazione. L’artista citando Artaud oppone alla materia intesa come presenza viscerale dei corpi la griglia vista come luogo di oppressione e soffocamento dell’individuo. Vediamo nella serie esposti in primo piano profili di volti oscurati, poi mani che si divincolano e cercano movimento e libertà, infine volti cupi, schiacciati e oppressi dalla prigionia. Giungono a noi come grida di libertà, simili ad asserzioni autentiche e incontenibili dei corpi contro il soffocamento oppressivo della struttura tale  la griglia del potere o della legge. Sullo sfondo i  colori elettrici, ora violacei o rossicci, ora blu allucinanti e grigiastri. Perché Bouruissa in tutti i suoi lavori, dalla fotografia, alla scultura  all’installazione nelle sue molteplici sperimentazioni,  non smette mai di parlarci delle tensioni insite nella società contemporanea, dei rapporti di potere tra singolo e comunità, tra centro e periferie, infine di giovani generazioni alla ricerca di legittimità e nuove società dell’integrazione ancora da definirsi. 







sabato 12 luglio 2025

Jack Vettriano: "In the mood" ( Mostra a Palazzo Pallavicini, Bologna)

 











In the mood”, titola l’introduzione all’opera di Jack Vettriano, artista scozzese contemporaneo ancora poco conosciuto in Italia cui Palazzo Pallavicini a Bologna dedica una retrospettiva fino al prossimo 20  Luglio a pochi mesi dalla sua scomparsa. Proprio in quel particolare “mood” o atmosfera, infatti, ci conduce la pittura unica e raffinata di Vettriano, sensuale e ammaliante quando  ispirata  da una musa o “ femme fatale”  al centro della tela, ora intrisa di nostalgia e desiderio quando riportata su quella spiaggia scozzese sovente al centro della sua creazione. Vettriano nasce nel 1951 da una famiglia di origine italiana  per parte materna proprio nella contea scozzese  di Fife le cui suggestioni paesaggistiche ritornano sovente nella sua pittura. Abbandona gli studi a 16 anni iniziando a lavorare in miniera per intraprendere poi la strada dell’arte in maniera autodidatta dall’età di 21 anni influenzato dai quadri di Hopper, dai coloristi scozzesi, dall’estetica del cinema noir e più tardi dal cinema hollywoodiano. A prescindere dal soggetto luci e ombre permeano costantemente  le sue tele attraverso un intenso chiaroscuro che domina tutta la sua pittura traslando sempre la medesima da realista a simbolica, in ogni caso evocativa di una storia intravista ma mai totalmente svelata, osservata e colta in sordina come se l’artista fosse testimone invisibile  della scena. Il tocco di Vettriano   resta rapido, incisivo, capace di cogliere in pochi tratti essenziali  il “mood” vale a dire lo stato d’animo pervasivo dello scorcio rappresentato.  Il ritmo musicale citato come fonte di ispirazione è quello del jazz: rapido, sincopato come l’alternarsi  degli strumenti in un dialogo d’ improvvisazione. Lo si ritrova, infine, nel contrasto dominante tra luci e ombre nei suoi quadri, tra ciò che è rappresentato e manifesto e ciò a cui rimanda di allusivo e  misterioso nella scena.


“A spell on you”







La figura femminile appare spesso al centro delle sue tele come simbolo di fascino e seduzione quasi fosse un incantesimo  da cui non riesce a sottrarsi, “un mistero senza soluzione” nelle parole di Vettriano, dove la donna è spesso rappresentata come un’Afrodite contemporanea che rende l’uomo semplice comparsa dal potere puramente apparente. Da un altro punto di vista, vediamo il soggetto femminile di profilo con lo sguardo a metà celato allo spettatore  quasi che allo stesso modo la rappresentazione volesse aprire uno spazio di inconoscibilità demarcando una linea sottile oltre la quale la percezione reale della figura, oggetto di fascino e desiderio, resta in qualche modo interdetta a un tentativo di appropriazione dello sguardo maschile se non come apparente visione . In “yesterday’s dreams” la donna è vista guardare fuori oltre il vetro della stanza; il viso a metà in penombra assorto nell’emozione di un momento o di un ricordo. La finestra a vetri enorme sullo sfondo riflette e si pone come una linea di confine tra l’interiorità celata della donna e la realtà esterna a lei circostante. Elegante e sottile la figura quasi di spalle volge lo sguardo fuori, lontano da noi mentre la scena è pervasa da percepiamo attraverso la postura che sfugge, lo sguardo rivolto lontano, nei colori ocra-rossicci dello sfondo, nel senso, infine, di solitudine pervasivo di una storia lì interrotta o sospesa. Oltre quella linea di demarcazione la figura resta mistero e inconoscibilità.


“Homage to Fontana”



Bisturi alla mano, l’artista volge le spalle a noi guardando oltre i vetri della grande finestra; ha appena tagliato la tela del cavalletto con squarci netti e definiti che richiamano i “concetti spaziali” di Lucio Fontana cui rende omaggio attraverso quest’opera. Il pittore italiano ricercava là il superamento dei limiti bidimensionali del quadro aprendo a una quarta dimensione spazio-temporale che sapesse confrontarsi con il reale includendo anche i concetti di vuoto o di tensione verso l’infinito. Il titolo “Attesa” accompagnava spesso tali tele suggerendo una riflessione sul tempo perché lì ogni taglio era “un istante catturato” che apriva uno squarcio allo scorrere lineare del tempo. Allo stesso modo, l’artista scozzese rappresenta spesso nei suoi quadri quel tempo sospeso dell’attesa definito come “ciò che potrebbe essere e non si sa se avverrà mai”. Queste figure femminili sinuose ed eleganti sfuggono al nostro sguardo volgendo a noi quasi le spalle in un tempo in cui  “l’anima tende, si dirige verso” un altrove oltre il limite della scena. Per Vettriano l’arte rappresenta non solo ciò che è visibile ma più spesso “ciò che non lo è”, quella quarta dimensione appunto di cui parlava Fontana che tende oltre l’apparire, l’intangibile del reale oltre la rappresentazione.


Sulla Spiaggia

“The sea belongs to everyone. It welcomes feelings, allows footprints aware of the ephemeral nature of every passage”.


E’ alla natura effimera di ogni paesaggio, al  mare propriamente che si ritorna sempre nelle tele più riuscite di Vettriano , là dove spiagge luminose appaiono irrorate di una luce soffusa al tramonto e la banchina traslucida e irreale simile a un proscenio accoglie le figure danzanti, sospese nel vento in un tempo “fuori dal tempo” simile a un sogno dove nulla o tutto può accadere.



In “Mad Dogs”il mare, la spiaggia e la luce della costa scozzese al tramonto divengono protagoniste mentre due figure si muovono sulla banchina verso l’infrangere delle onde a riva. La giovane donna in abito leggero e bianco precede mentre l’uomo le sostiene l’ombrello leggermente retrostante. Lei tentando di restare in equilibrio in una danza lieve, appena accennata, in bilico sulla riva mossa dal vento. Con una freschezza innata, la sua leggerezza e carica emotiva donano intensità alla scena. In “Singing Butler”l’atmosfera è totalmente onirica e sognante come fossimo in un ambientazione surrealista di Dalì , certamente in un luogo immaginario traslato fuori dal tempo ordinario, un altrove creato lì appositamente dal quadro per dare forma e corpo a un desiderio soggiacente, inconscio, viscerale inteso come l’Es del linguaggio. La donna in abito lungo, rosso e attillato stretta all’uomo nella danza appare a piedi nudi, riscattando una certa idea di libertà mentre la scena è orchestrata dentro uno spazio delimitato dai due ombrelli scuri_ il maggiordomo e la cameriera retrostanti_ sospesi come per proteggerli dal vento o dall’imminente temporale. Teatrale quasi sulla spiaggia incandescente di grigio e d’oro, diviene questa ambientazione in un equilibrio perfetto di luci e di ombre mentre le figure sospese volgono lo sguardo all’orizzonte lontano da noi a metà tra levità e mistero.


 


“Dance me to the end of love”


La danza resta uno degli scenari ricorrenti nelle tele di Vettriano perché riporta immediatamente  le figure a una dimensione intima e poetica veicolata nel silenzio della parola attraverso la gestualità del corpo. Così i volti sfuggono alla visione frontale e le figure spesso di profilo lasciano parlare l’espressività dei gesti e delle pose. “Dance me to the end of love” è proprio attraverso la pittura un invito a continuare a danzare fino all’ultimo respiro là dove la danza è vista come metafora stessa dell’esistenza, fino alla fine della musica, fino al limite ultimo della vita o dell’amore come titola il quadro. La coppia stretta nella danza sulla spiaggia in abito da cerimonia con il sole calante al tramonto si ritrova insieme nel passaggio del tempo attraverso la persistenza della vita o fino alla fine della medesima. Ancora la spiaggia appare nella sua dimensione traslucida, limpida ed estraniante restituendo qui uno stato d’animo  a metà tra solitudine e romanticismo.  Invita ad affacciarci, un’ultima volta in  punta di piedi,  con leggerezza dentro questo scorcio di vita, scenario intimo a metà rubato tra i due su una  scena che echeggia di surrealismo. 


“Jack Vettriano by Francesco Giudicini” 




Nell’ultima sala Vettriano appare fotografato sullo sfondo dei suoi quadri dal ritrattista del “Sunday Times” Francesco Giudicini offrendo un’ultima riflessione sulla pittura vista attraverso l’obbiettivo fotografico, ancora in quella “quarta dimensione” qui dischiusa attraverso la fotografia. L’essenza del ritratto di Vettriano si riassume per Giudicini in questo scatto fotografico nel suo studio. Una manciata di pennelli appare in primissimo piano all’angolo di un cavalletto visto trasversalmente con una tela al di sopra che si realizzerà o meno come contingenza di un  momento o di un’atmosfera particolare. Ancora in quello spazio “dell’attesa “ seducente, misterioso che costantemente si presenta come sogno ad occhi aperti nella pittura di  Vettriano.