sabato 8 febbraio 2025

AI WEIWEI, “WHO AM I” a Bologna, Palazzo Fava

 

 

“Ai Weiwei, who am I” titola la mostra in corso fino al 4 maggio a Palazzo Fava di Bologna sull’artista cinese da sempre impegnato in prima linea nella difesa dei diritti umani. La domanda scelta come titolo “who am I” appare insieme al ritratto di Weiwei, i suoi occhi grandi aperti e le mani sul volto a fissare la realtà che lo circonda come attraverso una lente di ingrandimento per indagare, cercare di comprendere, trovare una chiave di decifrazione alla medesima. Tale domanda resta al centro del suo lavoro come di tutta l’esposizione bolognese: chi sono io, dov’è qui, qual è la verità nella costante ricerca di una più profonda consapevolezza umana e politica perseguita attraverso l’esperienza artistica. Con quello stesso sguardo disincantato, vigile e demistificatore Weiwei ci incoraggia a guardare il mondo con la versatilità di chi riesce a scorrere fluidamente da un mezzo artistico all’altro tra installazione, scultura, video e fotografia. Lui, da sempre attivista oltre che artista, blogger e, dopo  la soppressione del medesimo da parte del governo cinese, dissidente politico che espatria in Europa, decide di fare della propria arte uno strumento fondamentale di cambiamento politico collettivo. Tra i temi più scottanti oggi affrontati da Weiwei appaiono la lotta per i diritti umani, le crisi geopolitiche mondiali, il cambiamento climatico, il diritto alla libertà di informazione contro la repressione o la manipolazione della medesima da parte dei regimi o delle istituzioni al potere. Tutto il suo universo creativo in definitiva  non smette di ricordarci il connubio necessario  e inevitabile tra creatività e pensiero critico rispetto al momento presente e alla società contemporanea.

 

Le opere esposte nelle prime sale ritornano costantemente al tema del rapporto tra passato e presente nella Cina d’oggi dove si è assistito a un’operazione di cancellazione progressiva della memoria storica: l’antica identità imperiale spazzata via dalla Rivoluzione culturale cinese nell’epoca comunista e poi, a sua volta, la rampante globalizzazione capitalista di oggi   a partire dalla seconda metà del ‘900. La distruzione della memoria per Weiwei è anche quella personale attuata attraverso la persecuzione subita nel suo paese fino all’esilio forzato. Emblematica resta la demolizione imposta del suo studio a Pechino Left/right nel 2018 le cui macerie recuperate _ frammenti di ceramica bianchi  e blu _ ritornano qui per dare vita  a un'inedita installazione nella sala bolognese. Il tema della memoria storica è filtrato in altre opere alla luce della relazione tra Cina e Occidente là dove vediamo nelle prime sale  una serie di capolavori della pittura italiana rinascimentale o moderna reinventati attraverso un’immagine in pixel  ispirata  ai mattoncini lego.  

 

Left/right studio material 2018

 


Frammenti di sculture distrutte  del vecchio studio di Pechino sono lì a terra in lungo e in largo attraverso tutta la stanza dentro una sorta di cornice bianca a fissare al muro “l’ultima cena” di Leonardo digitalizzata in versione lego.  Rilucente al suolo una nuova opera comincia a prendere forma fatta di frammenti, lasciti e schegge per raccontare un’altra storia con i pezzi di tante storie differenti, galleggianti, alla deriva dal passato. Ciò che  pur non esistendo più porta in sé una memoria intrinseca, cellulare dentro la materia stessa di un luogo e tempo precedente, misterioso, inconoscibile  per infondere quel vissuto in un  nuovo presente con inedita vitalità. 

 

Con ironia Weiwei rilegge e reinventa alcuni grandi classici rinascimentali italiani ai quali si confronta in versione digitalizzata questa volta. Nell’ “ ultima cena” riprodotta  da Leonardo l’artista rappresenta sé stesso ironicamente come Giuda, “colui di cui il regime cinese non si deve fidare”, in ogni caso una presenza scomoda, disturbante per il governo di Pechino che vuole controllare e mettere a tacere le voci dissidenti.  Ancora, “La Venere” di Giorgione re-immaginata in versione pixel, ritorna distesa nuda nelle sue forme piene e perfettamente sinuose, ben proporzionate ma accompagnate da un elemento dissonante come una gruccia che allude implicitamente agli aborti clandestini negli Stati Uniti prima della legalizzazione. L’artista con questa anomala inserzione  intendeva denunciare le conseguenze nefaste che tali pratiche illegali avevano sulla vita di molte donne negli Usa.


 


In “Pollock in blue” Weiwei riappropria il procedimento di dripping pollochiano portandolo su un piano astratto di anti-materia, il piano dove l’immagine diventa digitale, fatta di pixel elettronici che rivelano la sintesi astratta dei blu e dei neri in composizione libera di minuscoli puntini luminosi. La violenza del segno tipica dell’impressionismo astratto si perde qui così come l’immersione nello strato colorato di vernici gettate un corpo a corpo contro la tela da Pollock. Weiwei interroga, al contrario con questo lavoro, il limite tra immagine digitale e la sua creazione/manipolazione attraverso le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale là dove l’autenticità del lavoro creativo individuale viene messo alla prova dalle potenzialità insondate delle nuove tecnologie di intelligenza generativa.  

 

 

“Dropping a Han dynasty urn”, 1995 (Lasciando cadere l’urna della dinastia Han)

Un gesto ironico e performativo è al centro di questa nota serie fotografica di Weiwei quasi fosse un modo per ripensare la storia imperiale cinese, una memoria ingombrante quanto antichissima con la quale dover fare i conti nella dicotomia tra perdita del passato e necessità di non restarne prigionieri.   Nei tre fotogrammi della serie il gesto decisivo, rapido e irreversibile del lasciar cadere il vaso a terra è  immortalato con la leggerezza d’una distrazione: un atto casuale quasi che manda in frantumi un reperto archeologico illustre, carico di valore, greve quanto il peso della tradizione incombente sul suo capo. Rompere deliberatamente quel simbolo di un potere imposto con la forza per Weiwei significa liberarsi del peso soffocante di un’eredità culturale che non solo rappresenta la dinastia imperiale passata ma anche l’oppressione politica presente perpetrata contro l’artista da un tacito regime di controllo e censura in Cina. Distruggere il vaso allora risuona come un atto creativo e sovversivo rispetto all’autorità politica vigente nel suo paese_ lui espatriato ed esiliano in Europa_  riscattando così il la sua libertà e pieno potere di espressione.

Urn with Coca Cola ( Urna con Coca Cola)

 


Il logo della Coca cola compare in un’altra versione della stessa urna antica interpretata da Weiwei evocando Andy Warhol la pop art e insieme  l’ironia dissacratoria di Marcel Duchamps. Il marchio per eccellenza del consumismo/capitalismo occidentale con la scritta Coca Cola compare impresso  su un artefatto della tradizione orientale come se l’artista volesse lasciare lì aperto un interrogativo sulla relazione  tra Cina e Occidente nella geopolitica attuale: quanto tale sogno capitalista di profitto e ricchezza è entrato prepotentemente dentro la Cina d’oggi sempre più globalizzata ,arresa alle leggi del mercato, succube del miraggio occidentale sacrificando nel processo la propria identità e storia?

 

“Monna Lisa smeared in cream” ( Monna Lisa imbrattata di vernice)

 

“Monna Lisa”in immagine pixel, segmentata in micro-particelle simili a lego è volutamente imbrattata di vernice bianca qui alludendo alla protesta globale per il cambiamento climatico mentre, in una seconda versione, Weiwei riconverte lo sfondo in arancio elettronico attraverso gli strumenti di manipolazione dell’immagine digitale. Ancora una volta la questione aperta è quella sulla tutela della proprietà dell’opera e dell’identità per il singolo artista  di fronte alle nuove frontiere varcate o valicabili dell’IA, algoritmi in grado di produrre immagini talmente definite che sfidano e mettono alla prova i limiti e le potenzialità della creatività umana tanto da poter rappresentare a seconda del loro utilizzo una minaccia o strumento potenziale per l’individuo.

 






“June 1994”


 

Nel 5° anniversario del massacro a Piazza Tienanmen una delle più note immagini di Weiwei  celebra attraverso un semplice gesto di resistenza un’esplicita derisione del potere. Nell’azione performativa  l’artista cinese Lu Qing moglie di Weiwei solleva la gonna di fronte alla macchina fotografica, inquadrata in primo piano al centro dell’obbiettivo sulla piazza sorvegliata dai militari come fosse la parodia di una foto turistica sotto lo sguardo di Mao nel ritratto al centro. Evocativa della tragedia avvenuta 5 anni prima che pose fine al movimento studentesco  l’immagine si erge come atto di non-rassegnazione, non-sottomissione, non-allineamento alla tacita imposizione del regime contro il singolo artista che con una certa insolente leggerezza risponde con questo gesto di totale libertà politica e personale.

 



“Study of perspective, 1995-2010”

Infine a conclusione del percorso espositivo come non menzionare la nota serie di Weiwei “study of perspective 1995-2010” iniziata nella stessa piazza di  Pechino nel 1995 e perseguita come fotomontaggio di un  ironico “fuck off”, anche titolo dell’esposizione aperta a Shangai nel 2000. Il gesto dissacratorio di aperta resistenza e derisione alle istituzioni oppressive del suo paese non muta mentre si alternano come varianti sullo sfondo i fotomontaggi di diversi luoghi iconici della cultura  e della storia occidentale : la Casa Bianca, Buckingham, Palace, la torre Eiffel, la basilica di san Marco a Venezia. Palazzi del governo e delle istituzioni, volti ufficiali del potere, pareti di intonaco bianco coprono le manipolazioni ideologiche ad esse connesse e la corruzione di diritti fondamentali che vi si celano dietro. La prospettiva scelta è quella dell’individuo o del singolo, dell’artista in una postura critica, vigilante, non-ceduta al potere, contro un’istituzione che uccide il suo diritto ad essere, a prendere posizione, a prendere parte, aprendo a un ideale democratico e egalitario.

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 23 dicembre 2024

Tina Modotti , “photography”(a Palazzo Pallavicini a Bologna)






















“La fotografia può solo essere prodotta nel presente, è basata su ciò che esiste oggettivamente . Registra la vita in tutti i suoi aspetti come un documento intriso tuttavia di intelligenza e sensibilità.” Con tale inciso si presenta a noi il tracciato complesso di vita e d’arte, di impegno politico e ardore estetico della fotografa Tina Modotti, donna libera e anticonformista, artista e modella che insieme a Edward Weston e gli altri protagonisti dell’avanguardia messicana attraversa e segna la storia del novecento nel suo modernismo fotografico. Palazzo Pallavicini a Bologna le dedica una retrospettiva visitabile fino al prossimo 16 febbraio, un percorso espositivo articolato in varie sezioni tematiche che mostra al pubblico le diverse sfaccettature di una fotografa obbiettiva come volevano i modernisti ma estremamente intimista; dal puro intento estetico di inizio XX secolo l’immagine assume una dimensione più propriamente politica implicitamente intrisa di un’etica umana e sociale soggiacente.

  La Modotti, italiana d’origine, immigrata insieme alla famiglia negli stati Uniti per tentare la fortuna in America, approda a Los Angeles diciassettenne dove incontra e sposa il poeta Roubaix che la introduce al milieu artistico e intellettuale autoctono. Appassionata di fotografia entra presto in contatto con il fotografo americano Edward Weston con il quale inizia un’intensa relazione professionale e personale  che culminerà nel luglio del 1923 con il loro trasferimento in Messico, lei inizialmente nel ruolo di sua assistente e modella. Dunque, il periodo messicano vede l’incontro con l’avanguardia artistica del paese, tra cui Diego Rivera, Frida Khalo, gli intellettuali protagonisti della rivoluzione messicana in corso. Fondamentale l’incontro con Weston che persegue nel tempo anche dopo la fine della loro relazione personale attraverso un fitto scambio epistolare e la reciproca influenza a livello umano e artistico dando vita a uno dei capitoli più affascinanti della storia della fotografia nel XX secolo.










Tina comprende presto che la fotografia può divenire, oltre  la sua dimensione estetica insostituibile, uno strumento di indagine e denuncia sociale, contribuendo anche a mettere in luce la realtà attraverso le sue pieghe o i suoi risvolti più intimi là dove lo scatto resta, tuttavia sempre, una resa poetica, simbolica del reale. I ritratti, i volti si susseguono per esempio nel corso della produzione fotografica lasciando posto alla vicenda umana prima che all’oggettività fotografica pura. Tina fotografa per esempio sé stessa giovanissima nel frangente doloroso della perdita del compagno, il rivoluzionario cubano Antonio Mella. Fissa il suo volto in quel momento unico e irreversibile  stravolto dal dolore e dall’impronta oscura della morte, poi in un’ultima foto il volto assassinato di lui con l’intento di “conservarne una traccia”: nell’immobilità di un istante fissarne lì ancora la memoria,  sulla pellicola fotografica, per strapparlo dall’inevitabile oblio. Vediamo, di seguito, il ritratto della madre, degli amici artisti e personalità straordinarie  a lei prossime, di gente comune infine, dei grandi protagonisti della rivoluzione messicana parte della sua cerchia di conoscenze. La fotografia si vuole, secondo la Modotti, strumento poetico e politico insieme per non solo rivelare ma anche per intervenire sulle vicende del mondo ricomponendo la loro linea frammentata e interrotta entro una memoria condivisa.


 

Istantanee fotografiche

Sono i volti e i gesti quotidiani della gente comune che circonda Tina Modotti in Messico nella realtà a lei contemporanea per questa serie di istantanee, alcune straordinarie, scattate tra le donne di Tehuantepec. Lo sguardo rivolto a quel mondo  semplice, primario e vitale fatto di braccianti, bambini e soprattutto  donne nei villaggi messicani appare empatico, idealizzante oltre ogni riproduzione realista come fossimo di fronte a un luogo fuori  dal tempo e dallo spazio, anacronistico: una società immobile, avvolta da una certa bellezza da cui trarre ineguagliabile linfa vitale per la fotografa.

In una delle immagini della serie una donna di Tehuantepec porta con estrema dignità e fierezza  un vaso sulla testa dipinto a mano con frutta, fiori e altri motivi floreali derivanti dalla tradizione messicana. La blusa ricamata e la collana fanno presumere la sua appartenenza a una classe sociale elevata. Indossa l’abito tradizionale della regione segno di orgoglio e potere per le donne in questo villaggio di discendenza matriarcale. Il suo volto incarna una bellezza epurata e ideale sottratta dai segni della miseria, della fatica o dell’arretratezza di una presumibile tale condizione di vita. Mostra, al contrario, la fierezza di quello sguardo ma anche di quell’abito tradizionale che incarna la forza e l’indipendenza femminile a Tehuantepec. Modotti in quell’immagine riesce ad estrarre l’essenzialità di un singolo volto elevato a simbolo del femminile in un villaggio dominato da sole donne viste nella loro estrema dignità esistenziale.

Nella foto successiva quelle stesse donne lavano i panni nel fiume di Tehuantepec; le azioni del quotidiano insite nella propria realtà sociale oltre la semplice idealità estetica danno vita a un nuovo realismo poetico.  Lavare i panni al fiume, trasportare una brocca sulla testa, tenere un bambino tra le braccia mentre portano l’acqua , tutto ciò diviene parte di una composizione fotografica d’insieme attraverso dettagli visivi che narrano una nuova poetica del quotidiano.


Mefamorfosi

Le architetture e le visioni di oggetti o di altre forme della natura portate verso la loro massima essenzialità appaiono in alcuni scatti suggestivi della Modotti certamente per l’influenza della poetica modernista incarnata dalla personalità di Edward Weston. Tuttavia, nella fotografa tale filone si sposta sempre più verso una ricerca di equilibrio interiore che utilizza la forma come mezzo per veicolare la propria personalità e successivamente anche il riflesso di importanti tematiche sociali.


“Rose”



E’ la delicatezza di queste rose dischiuse e fiorite, riprese in primissimo piano nella foto in bianco e nero per cogliere la bellezza di un istante, fuggevole, transitorio come la vita: il momento in cui i boccioli si aprono a piena fioritura, espansi, qui pienamente fioriti e subito destinati ad appassire nella fugacità della loro bellezza. La messa a fuoco, precisa, diretta ed essenziale in primissimo piano esalta la naturale sensualità delle forme che si dispiegano nitide e assolute nel contrasto chiaroscurale in quella ricerca di idealità e astrazione che appartiene all’estetica moderna. Eppure, nell’immagine successiva della Modotti il fiore di una pianta simile  a un cactus espanso e modellato a forma umana si trasforma in una piccola mano capace di afferrare la vita ergendosi dal centro verso l’alto della pianta nel miracolo della primavera che sempre si ripete.     

“Mani”

Appaiono in primo piano, legate, immobilizzate da una morsa di legno e altri fili di acciaio nell’impossibilità di muoversi ma, anche, arse, consunte dalla durezza del lavoro quotidiano, infrante dalla miseria e dall’oppressione delle classi più umili come il loro dettaglio ci mostra in primissimo piano al centro dell’immagine. Compare qui il tema sociale passando dalla semplice ricerca estetica sul dettaglio ingrandito dell’oggetto alla denuncia sociale là dove tale scorcio fotografico su mani infrante dalla fatica e rese schiave dall’oppressione rinvia al tema politico di cui Tina si fa portavoce. Operai, donne e contadini alla ricerca di libertà rivendicano con forza i propri diritti come voleva la rivoluzione messicana di cui in alcune altre emblematiche immagini_ “chitarra, falce e cartucciera” per citarne una_ la fotografia della Modotti si rende strumento di propaganda politica.  


 Ritratti Immortali














La vita e l’arte in tutto il lavoro di Tina Modotti non possono essere scisse in alcun modo, dalle celebri fotografie in cui si presta come modella e musa ispiratrice per Edward Weston negli anni venti a quando, più tardi, vestendo i panni della fotografa continua a rappresentare sé stessa e la scena artistica e culturale del paese. Immortali restano, tutt’oggi, i nudi di Tina  scattati da Weston in Messico sulle spiagge dell’Azotea (1924) dove il fotografo conduce a sua massima espressione la ricerca formale di perfezione estetica, purezza espressiva ed essenzialità raggiunta attraverso il mezzo fotografico. Weston restituisce qui l’idealità di un corpo femminile disteso con le sue linee flessuose sulla spiaggia dell’Azotea, marcato da profondi chiaroscuri, illuminando di lei quell’aspetto misterioso di “sensualità velata di melanconia”, attraverso uno sguardo puro, sprovvisto di ogni volgarità. Tale perfezione ha reso queste fotografie ancora oggi immortali citando implicitamente  i nudi femminili di Modigliani o Monet.      



In una delle ultime immagini  della mostra vediamo una Tina Modotti molti anni più tardi a Mosca nel 1932 in uno scatto colto dal giovane rifugiato Angelo Masutti cui aveva ceduto la sua Leica. Ben distante ormai nel tempo e nello spazio dalla luminosa esperienza estetica messicana Tina appare qui, anni più tardi, in un nuovo ruolo politico nella piena consapevolezza di un vivere in tale ormai totale impegno ideologico a favore della libertà contro le persecuzioni politiche del suo paese. Da quel momento rinuncerà a fotografare lasciando tuttavia indelebile il suo nome scritto in una delle pagine  più importanti della storia fotografica del novecento.




sabato 2 novembre 2024

“Byron contemporaneo”, Giampiero Corelli ( Chiostri danteschi, Ravenna)





















 Lord Byron, figura di spicco del secondo romanticismo inglese, poeta e uomo di lettere ma anche politico e spirito indomito che come una voce fuori dal coro si impone nell’immaginario collettivo di tutta una generazione romantica, ha dato origine al cosiddetto mito dell’eroe byroniano: fascinoso, inquieto, dalla vita avventurosa travolta da innumerevoli passioni amorose, dalla morte eroica in Grecia, in ogni caso sempre e comunque ribelle rispetto alle convenzioni della società borghese a lui contemporanea. 

Byron trascorse in Italia una parte della sua vita sfuggendo dalla noia e la disillusione del proprio paese a causa di una serie di scandali personali e finanziari; soggiornò in diverse città italiane dal 1816 al 1823 per approdare  infine a Ravenna dove rimase tre anni nel corso di una intensa quanto illecita relazione amorosa con la contessa Guiccioli. La città oggi gli dedica un museo permanente  la cui apertura è prevista a fine ottobre  2024 a Palazzo Guiccioli in occasione del bicentenario della sua scomparsa e una mostra fotografica temporanea, rivisitazione dell’opera e del vissuto del poeta da parte del fotografo Giampiero Corelli in un riallestimento contemporaneo del mito byroniano.

 

Le immagini di Corelli illuminano come scintille o sprazzi luminosi alcune citazioni della vicenda e dei luoghi byroniani in una vera e propria immersione nel suo universo poetico legato a doppio filo al tempo presente. Un tracciato quasi inestricabile lega, infatti,  la poesia alla sua esistenza: la sua ricerca di libertà nel disprezzo del giudizio sociale, e, soprattutto, il mito del sé al limite dell’eccentricità riflesso nei suoi alter ego letterari . Le fotografie traslando dal passato al presente mantengono nel lavoro di Corelli lo spirito o meglio l’essenza del mito byroniano ma si rivestono dei volti e dei paesaggi del mondo contemporaneo. Nella prima immagine e forse la più rappresentativa della mostra un uomo a cavallo avanza verso di noi attraverso i fiotti dell’oceano mentre la linea dell’orizzonte dissolve alle sue spalle : l’uomo e la sua maschera. La verità poetica emerge attraverso la maschera dell’eroe solitario e ribelle sullo sfondo dell’oceano oltre la linea dell’orizzonte che spalanca come volevano i romantici una "finestra sull’infinito” .

 

 Il cavaliere errante


“Ancora una volta sulle onde. Ancora una volta! E le onde balzano sotto di me come destriero che conosce il suo cavaliere. Benvenuto al loro ruggito” (Childe Harold’s, III)


L’orizzonte è striato da bagliori tenui e violacei come fosse il sopraggiungere dell’alba e l’uomo a cavallo avesse percorso tutta la costa nella notte per sopraggiungere alla città sconosciuta ai primi bagliori dell’alba nella luce mattutina. Tenue, il mare scompare all’orizzonte là dove si incontrano terra e cielo, su quella linea d’ombra sottile che dissolve in lontananza oltre il nostro sguardo. L’uomo avanza cavalcando verso di noi a raso delle acque: ombra, fantasma quasi proveniente dal passato, maschera imponente e misteriosa, malinconica e austera in questa figurazione contemporanea dello spirito romantico. Il volto appare ora in primo piano: una maschera bianca e neutrale che celando mette a nudo il carattere indomito dell’eroe solitario e ribelle evocato dal tema byroniano.

L’oceano

“Io non amo di meno l’uomo ma di più  la natura per questi nostri incontri nei quali mi allontano furtivamente da ciò che posso essere ora o essere stato prima, per unirmi all’universo e sentire quello che non posso mai esprimere eppure nemmeno mai interamente celare”. 

Il mare ritorna come un eco incessante nelle diverse composizioni poetiche tra cui il quarto canto di Childe Harold’s evocando l’idea di un’infinità insita nella natura che supera e mette alla prova i limiti dell’umano secondo il concetto di sublime romantico. Là,  il poeta e l’uomo percepisce la propria finitezza e, insieme, quell’intima tensione verso ciò che lo conduce oltre: l’incommensurabile che la natura porta in sé. Là, ancora, sente risvegliarsi questa sua sete inesausta di  spirituale divenendo egli stesso parte dell’infinito che si rivela.

 

 La passione amorosa

 “In questa parola bella in ogni lingua, ma soprattutto nella tua_ amore mio_ è compresa la mia esistenza. Sento che esisto qui e temo che esisterò in seguito, a quale scopo lo deciderai tu. Il mio destino riposa in te” ( Lettera alla contessa Guiccioli. 1819)


L’intensità del sentimento amoroso verso la donna cui indirizza questa serie di epistole , la contessa Guiccioli, pur attraverso una relazione clandestina destinata a concludersi a breve si esprime con parole scritte in una lingua straniera, l’italiano, fatta propria per amore. Le immagini di Corelli in questo frangente  si ispirano direttamente al vissuto biografico del poeta oppure come citazioni più sottili lo riportano alla realtà dei giovani volti d’oggi.

 

Farewell my love but not all mine”

 Sullo sfondo di una biblioteca dai volumi antichi nella dimora di una nobile famiglia ravennate_ semi-avvolti dall’oscurità del luogo_ i due amanti nella rivisitazione di Corelli  leggono insieme da uno stesso libro citando implicitamente il Canto Quinto dell’Inferno di Dante con Paolo e Francesca. Le due figure appaiono ricomprese dentro quest’unica aurea luminosa e passionale che li mostra come unità insondabile  e insieme li staglia opponendoli attraverso il  forte chiaroscuro al nero del fondo. I volti illuminati, il calore del respiro fra i due corpi stretti l’uno all’altro nella parziale nudità_ intravvediamo il corsetto della donna e la camicia bianca di lui _ , si stagliano nell’oscurità insieme al grande libro aperto che tengono tra le mani come unico elemento di connessione con l’esterno. Alludendo, implicitamente, al consumarsi  di una segreta relazione amorosa.  

 

 “Tutti gli addii dovrebbero essere improvvisi quando sono per sempre”.

 Nell’immagine successiva, ritorna l’allusione ai pochi momenti di intimità rubati tra i due amanti in una relazione che si consuma perlopiù a distanza e sfocia inevitabilmente in un addio. L’abbraccio clandestino tra i due in primo piano  occultato dai lunghi capelli di lei che ne nascondono i volti si staglia ancora una volta sullo sfondo della biblioteca scura in rovere antico. In un’altra foto sono in primo piano le lettere d’amore manoscritte e scambiate segretamente tra i due amanti come il solo strumento per manifestare e cedere alla propria passione, ora per dirvi addio.

 

La maschera: “E dopo tutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera”

 

Tanto  ha a che vedere nel mito letterario costruito da Byron con l’illusione e la verità, una finzione che permette di raccontare una qualche verità più profonda, insidiosa da svelare. Da un lato Byron crea attraverso la propria immagine pubblica e alter ego poetici il mito di un eroe inquieto e solitario, nobile di nascita, outsider per eccellenza della società benpensante inglese che fugge lontano dal proprio paese per nascondere un qualche retaggio del passato e vede riflessi i propri stati d’animo nell’immensità della natura. Dunque la poesia in questo caso consolida la finzione di un personaggio che si offre come maschera, invenzione letteraria di una soggettività poetica. Basti pensare agli alter-ego poetici da Childe Harold alla versione più satirica di Don Juan. Da un altro punto di vista, Byron attacca la società inglese toccando il tema dell’ipocrisia e della falsità che la caratterizza là dove la maschera è ciò che occulta o manipola  secondo i propri fini la semplice e nuda realtà. Alter ego, maschere e commistioni tra l’umano e l’animale riempiono questa sezione delle immagini di  Corelli riportando al centro il tema della dualità dell’uomo e del poeta Byron: l’energia animale e quella mentale, la ragione e il sentimento, la maschera che occulta e insieme svela una verità   poetica soggiacente.

 

“Sono portato a pensare che una persona abbia non solo la pelle che appare all’esterno, ma ne abbia anche due o tre all’interno”.

 

Nell’immagine di Corelli un giovane uomo e una donna sullo sfondo di un salotto di una dimora nobiliare appaiono avvolti nella vibrazione e nella tonalità di un rosso vivo ripreso dai broccati degli interni e delle tende. Rosso è l’abito sottoveste lungo sensuale della donna e la tunica dell’uomo, rossa la maschera che tiene in mano la giovane mostrando il suo volto nudo, opposto alla maschera nera di lui diviso tra il corpo dell’umano e la testa dell’animale che gli copre il volto. Un gioco di rinvii si dispiega da un’immagine all’altra della serie fotografica: un dialogo amoroso scandito dal silenzio, da un’improvvisa rottura o da un addio preannunciato tra i due personaggi nella foto .

La maschere figurate da Corelli possono in definitiva essere viste come la serie la volti differenti e contradditori  con le quali il poeta Byron era solito mostrarsi alla società borghese e conservatrice cui tentava di rifuggire nel suo paese  ma anche come gli Alter Ego poetici, da Manfred a Harold, che nel tempo hanno dato vita al mito dell’eroe byroniano. Eppure sono proprio quelle maschere a permettere a Byron di rompere i legami oppressivi, l’eredità soffocante del passato e la tradizione letteraria classicista aprendo la via così verso una poesia lirica nuova, totalmente soggettiva, romantica di ispirazione ma tendente già verso un linguaggio poetico moderno.


giovedì 8 agosto 2024

MiròMatisse: al di là delle immagini ( al Museo Matisse di Nizza )

 








Al Museo Matisse di Nizza, curiosando in vacanza sulla costa azzurra tra le varie attrattive dell’assolata cittadina francese ci si imbatte nel museo dedicato a una delle figure più influenti della pittura moderna europea, Henri Matisse generalmente associato all’avanguardia del  fauvismo che trascorse e realizzò qui gran parte della sua vita e della sua pittura. All’ingresso nella hall principale su un’enorme parete del museo appare vibrante di colore la riproduzione su larga scale di una serie di motivi decorativi, per lo più fiori, arabeschi e altre forme geometriche semplicissime e vivide nei diversi colori primari che si snodano  in una semplicità disarmante _ quasi nel gioco di un bambino_ ritagliati dai tratti blu di una cornice astratta tipica dei “papiers decoupés” di Matisse negli anni ‘40. Sul lato opposto della parete in una piccola cornice rettangolare lo spazio in tensione, lo slancio e la creatività di una tela riempita di segni e forme libere nella composizione surrealista di Mirò. Tale il tema al centro della mostra Mirò-Matisse: la relazione, il dialogo, l’influenza reciproca o meglio la sovrapposizione creativa e proficua tra due artisti appartenenti a due generazioni differenti nonché solitamente associati ad avanguardie distanti quanto il fauvismo e il surrealismo che tangenzialmente incrociano i loro percorsi in rari frangenti nel corso di una vita.  Forse solo due  costanti  a far dialogare i loro distanti universi:  l’immersione nel colore e la necessità  di andare al di là dell’immagine come imitazione o pura astrazione in una critica serrata della tradizione pittorica occidentale.

“MiròMatisse, oltre le immagini”, visitabile fino alla fine di settembre al Museo Matisse di Nizza indaga proprio a dispetto della distanza biografica di 25 anni e delle scelte stilistiche che separano largamente i due artisti le zone di influenza e di ammirazione reciproca nonché il legame personale che si instaura tra  i due maestri attraverso la mediazione del figlio Pierre Matisse, gallerista di Mirò a New York. Due i momenti decisivi di reciproca influenza messi in evidenza  dal percorso in cui le opere dei due artisti appaiono in qualche modo  confrontarsi in un faccia a faccia sottile e inevitabile; dalla fine degli anni ‘10 all’inizio degli anni ‘40  la lezione  del fauvismo  si ripercuote in Mirò soprattutto  come l’ immersione emotiva e violenta nel colore per produrre una rottura netta con la tradizione. Dall’altro lato, le tele di Mirò dalla fine degli anni ‘30 esercitano in Matisse un impatto ineguagliabile per la loro unicità e forza trasgressiva divenendo punto di svolta al solco del suo stile ormai assodato. Nella parte conclusiva del percorso, infine, nella grande hall al secondo piano assistiamo proprio a questo confronto diretto  e finale tra alcune grandi opere dei due pittori partendo dal presupposto comune di tendere “ al di là dell’immagine”: “l’assassinio della pittura” in Mirò come “l’estetica decorativa” in Matisse.


Matisse, “Interno in rosso veneziano”, (1946)


Una pittura della luce, del lato luminoso dell’essere umano ricercando questa armonia di composizione dove nessuna linea o tonalità colorata si potrebbe escludere senza che venisse meno l’unità d’insieme. Algebra perfetta di linee essenziali, figure immerse nel colore, ogni cosa trova un proprio posto, lì perché definita nel suo dover essere, ordinando il caos nella creazione. 

Non la riproduzione della natura ma la “semplificazione delle idee nella plasticità delle forme” secondo le parole di Matisse. Attraverso i mezzi più semplici il pittore deve poter esprimere,“oltre la realtà data, tutta la sua visione interiore.” 

Se il colore non è fenomeno puramente esteriore ma contribuisce a esprimere la luce, non solo quella fisica ma anche quella interiore che illumina l’oggetto nella percezione dell’artista, dipingere nei grandi “interni” matissiani degli anni ’40 è sentire la portata sensibile dell’ oggetto e, insieme, essere immediatamente dentro il colore. Utilizzare questo potere emotivo, il potere di liberare e ampliare le convenzioni espressive d’un epoca aprendo la via a uno spazio plastico autonomo, quello dell’arte moderna, dove disegno, colore puro e linea, gli strumenti matissiani per eccellenza, non sono più al servizio d’una realtà fenomenica ma, essi stessi, al centro della pittura: mezzo e misura sostanziale per rapportarsi alla sua interna realtà nel suo esterno apparire. Inseguendo questa intuizione, Interno rosso di Matisse nasce come un’emergenza di colore dove poi cominciano a fluttuare degli oggetti in composizione libera: un tavolinetto sinuoso, un vaso di fiori al di sopra, un bicchiere al suo centro, un piedistallo, un’anfora gialla, un quadro di linee nere e dense sul retro. E la linea scorre fluida, sicura, intuitiva emergendo dal fondo in un segno dalla semplicità disarmante, in una giustezza, tuttavia, ineluttabile. 

In “Interno rosso”, la potenza del rosso va a riempire gli spazi vuoti, come le marcature segnate dagli oggetti decorativi nella composizione. E, d’un tratto, nel grande interno rosso, la visione si anima, diviene vivente. Gli oggetti come forme in ebollizione, molluschi fluttuanti in un vaso di pesci rossi, guizzano in quel bagno invasivo di colore. Infine si riflettono nell’arancio d’ un quadro al fondo della tela in un implicito riferimento autoriflessivo all’atto della pittura. 

Mirò “ Costellazioni”, ( serie, 1940)


Le immagini di Mirò oltre all’apparenza astratta rinviano  sempre più a un sostrato materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e magnetico le cui radici affondano nell’inconscio, nel sogno o nella visione intuitiva della natura: tale,la trasmutazione simbolica della realtà per i paesaggi di Mirò. Nel gennaio del 1940, nel suo isolamento a Varengeville sur Mer, dove aveva preso in affitto una casa per sfuggire agli orrori del regime franchista, l’artista si tuffò nella pittura dando  avvio a ciclo delle Costellazioni. 

“A quest’epoca – racconta in seguito – ero molto depresso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle (…)” 

Le tele parlano ai sensi e all’immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi guarda,la tessitura di un vero e proprio ordito visivo. La pittura diviene soprattutto negli ultimi decenni della sua produzione una forma di scrittura universale, onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza in un alfabeto di segni lievi, delicati o minutamente tracciati come fossero linee di china, ora densi, corposi e materici simili a macchie o pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre immerse in un movimento intrinseco come assistessimo a una danza di corpi che si muovono in un campo ritmico proprio.

 

Come Mirò afferma: “l’opera è come una creazione plastica assoluta ed essenziale, con la sua personale, intrinseca poesia. Perché solo la poesia può interpretare la realtà e la natura”,e forse salvare il mondo.  Le forme danno vita ad altre forme nello spazio vivente della tela, costantemente mutando rispetto a loro stesse . Diventano tracce, una tessitura primigenia di corpi ora terrestri ora celesti fino a dare vita a una realtà di segni e simboli universali. Lo spazio poetico della pittura è uno spazio vivente, d’una semplicità assoluta dove è sufficiente riempire o svuotare, aggiungere o togliere gradazioni colorate al vocabolario essenziale della pittura. Perché, in fondo la pittura in Mirò è intuizione inconscia, impulso dentro il colore e la linea fino a riempire gli spazi in campi magnetici che seguono leggi ritmiche insieme universali e proprie.

Visioni a confronto

Matisse, “ Vista su Notre-Dame” (1914), Mirò “ testa di contadino catalano” (1925)

 

Sono due interpretazioni di un medesimo spazio visivo immerso nella vibrazione poetica del blu; uno  stesso orizzonte teso verso qualcosa di invisibile al di là dell’immagine. Le due visioni di Mirò e Matisse portate da uno slancio oltre la materia appaiono convergere in qualche modo qui, favolose e irreali, seppur provenienti da decenni e presupposti diversi nelle loro poetiche. Geometrica, epurata l’architettura di Notre-Dame in Matisse finisce per essere sintetizzata da un'unica superficie: uno squarcio sul muro della cattedrale riassorbe tutta la visione su quell'unico punto di fuga prospettica verso una linea di surrealtà oltre la rappresentazione . Ed è proprio in tale spazio di surrealtà che bagna la tela di Mirò partendo dal presupposto di assassinare la pittura per trovarsi al di là della mimesi in uno spazio che tuttavia non è mai completamente astratto ma fatto di tutta la materia del colore e l’intensità di una trama di simboli e segni universali. Punto di fuga surrealista dato dallo strascico di una cometa, una pennellata di rosso , il passaggio verso un'altra realtà.

La tela-superficie di Mirò  é un percorso-tracciato sul reticolo-cosmo, una linea che conduce verso un salto nel vuoto: metafisico luminoso segnato da un punto arancio lucente.