mercoledì 18 marzo 2009

Partendo dal butoh...(Note suggerite dall'antologia "Butoh"a cura di Odette Aslan, Beatrice Picon-Vallin, CNRS Editions 2002








La questione essenziale a indagare resta la continuità esistente tra una scrittura poetica al più vicino del corpo, ricondotta alla voce, all’oralità, al ritmo primordiale del respiro, e, allo stesso modo, la danza presa nella sua dimensione poetica essenziale come una “poesia nello spazio”: una lingua dell’emozione discesa nelle vertebre, nella carne, nel respiro quando questo diventa tutt'uno con il movimento.

























Tutto parte dal silenzio: un silenzio totale, uno stato di ascolto permeante, onnipresente, liquido, permeabile agli esseri e alle cose. Permette di accedere lentamente, impercettibilmente a questo stato di danza, di ascolto dell’essere attraverso la densità della sua materia sensibile.

Butoh: viaggio, esplorazione, passaggio, attraversamento. Il vuoto denso di quello che il butoh chiama il “corpo oscuro”. Non cercare di riempire lo spazio con gesti astratti, non andare verso l’aggiungere, il senso pieno della materia ma giustamente verso il vacuo come il non-luogo del corpo, uno stato di non-essere impersonale che coinciderebbe con una sorta di vuoto abitato: vuoto-pieno secondo il concetto del “ma” giapponese. Trovare questo spazio dove il corpo é esposto a una nudità   crudele, pericolosa, inaccessibile. Trovare questo spazio di un vuoto-pieno che si lascia vedere e prende forma attraverso il corpo del danzatore.

Esplorare la sensibilità nervosa trasmessa attraverso le infime vibrazioni dell’ essere corporeo o le sue qualità inusuali di movimento. Rompere con il linguaggio univoco del reale per essere portati dal “flusso impetuoso, del sogno”. La danza non racconta una storia seguendo un filo predefinito ma é “l’energia dell’istante, l’assumere la pienezza e l’intensità di ogni istante come il compimento dell’atto teatrale e poetico nello spazio”[1].

La ricerca dell’imprevisto, la perdita progressiva di tutti i punti di riferimento, dei punti abituali di ancoraggio all’esistenza, all’identità, alla forma. Per Hijikata la danza é via d’espressione per attraversare la temporalità d’un essere, la sua storia, quello che si inscrive al fondo del suo corpo, come in Artaud “dilatare il corpo della mia notte intera”[2]. Colti nel loro punto di vulnerabilità estrema lì dove si scoprono “démunis”,  impotenti o non protetti dall’ordine sociale o dalla forma, li’ dove possono essere uccisi con un solo sguardo. Più l’esperienza del lavoro sarà difficile, più il corpo sarà messo in pericolo, in stato di necessità, di vuoto incomprensibile più sarà pronto a lanciare quel grido, e quel grido sarà forte, veritiero, profondo, improntato d’ una forza organica vivente.
I gesti di Hijikata sono movimenti strani, lenti, innaturali, spinti fino a un punto di resistenza o di tensione interiore: la deformazione e contorsione del viso, degli arti, delle membra. Appaiono come forzati dentro le articolazioni muscolari, le vibrazioni nervose.
Non é un corpo proiettato al di fuori ma riavvolto verso l’interno, raggomitolato al suolo e dove anche i gesti più ordinari sono presi da uno sforzo o tensione verso l’interno. La contrazione estrema del torso, per esempio, danzando con la sola schiena in evidenza.

Lavorare sul punto di rottura dell’equilibrio, sulla ricerca di altri possibili equilibri nella disarmonia, nella diacronia, nella rottura violenta creata dall’alternanza tra tensione e distensione, tra una verticalità tesa all’estremo e un ritorno all’orizzontalità come in una caduta inattesa, in un improvviso precipitare al suolo.

L’improvvisazione s’apre su questo incontro con l’inatteso.Ogni movimento deve essere prodotto a partire da azioni semplici parte del concatenamento cinestetico quotidiano (per esempio il semplice atto di camminare). Continuare a ripeterle e vedere dove esse ci portano, fino a che divengano altre, i ritmi segreti che le attraversano, il modo in cui ridisegnano il tracciato di un io possibile, giustamente lasciando spazio a questo corpo “altro”, puramente virtuale, possibile che la danza rende visibile.

Tali azioni divengono espressive giustamente nello scarto rispetto al modo in cui mi muovo, muovo o sono mosso nella vita reale, sempre e comunque preda di questo processo di negazione-rilancio dal quale tutto il lavoro sul movimento ha inizio. La ricerca ossessiva compiuta sul linguaggio corporeo, parte da gesti banali modificati da fattori quali il peso, l’intensità, la lentezza o la velocità dell’azione, l’equilibrio o la sua perdita, infine la distensione o la contrazione muscolare.
Mettere o togliere peso nel fare un passo, nell’appoggiarsi a terra, nel sollevarsi, ricadere, rialzarsi, lasciarsi andare al contatto totale con il suolo.
Una stessa azione può’ essere sottoposta a un rallentamento progressivo fino alla quasi immobilità del corpo e insieme presa in uno sforzo di concentrazione muscolare come nella mimica espressionista.

Come ritrovare il flusso continuo nella discontinuità del movimento? Nell’apparente immobilità del corpo esiste come il ritmo di un “rumore di fondo”[3], mormorio del mondo, brusio permanente dell’essere. Deve aver a che fare con il “turbinio incessante delle onde”[4], con le oscillazioni delle masse acquatiche, con il fla-fla sciabordio d’acqua, turbolenza di quello che é animato, vivo, acquatico e che pur nell’apparente assenza di movimento non si interrompe mai. E’ la musica come di un basso continuo che ci trascina, ci porta, facendoci avanzare per slanci e interruzioni, con onde precise e fluide che si esauriscono in sé. Simili a ondulazioni sonore.
Esiste un rumore permanente anche nel silenzio: é il battito segreto dell’universo, la pulsazione come dal fondo oscuro della materia, rumore impercettibile di ogni singola particella animata, quello che ancora udiamo sul bordo del sonno.

Questo rumore di fondo è qualcosa “d’ordine musicale"[5].
Residui di una memoria arcaica; ne ritroviamo la traccia semplicemente mettendoci all’ascolto. Per questo tutti gli altri suoni, interferenze o inibizioni che vengono dall'esterno devono essere a poco a poco aboliti, rimossi, neutralizzati.  Ed é allora, li’  in quel punto preciso di perdita che il danzatore comincia a riportare la mente, il cuore, il ventre allo stadio del vuoto oltre i limiti ristretti del suo io abituale.



Il butoh mette in scena corpi ripiegati su sé stessi, irrigiditi, accartocciati: concentrati di dentro, contratti di fuori, ermeticamente chiusi entro il circolo della loro energia. Sono sempre in una relazione simbiotica con il suolo attraverso il respiro, la pelle, i canali sensoriali. Hijikata appare come un’energia concentrata al centro: il corpo è riavvolto a terra ma allo stesso tempo preso da una tensione opposta come per opporre resistenza al suolo. La ricerca di una rottura rispetto a un movimento rettilineo e armonioso si realizza in una contrazione, in una resistenza ricercata rispetto alla naturalità del gesto. La concentrazione del danzatore si esprime attraverso i movimenti di un corpo ascetico, investito di una forza interiore fuori dal comune che ne rivela la densità e la presenza straordinaria sulla scena.

La tensione diventa vincolo diretto, l’espressione prima del desiderio come eros allo stato puro: desiderio erotico ma anche estemporaneo, assoluto come l’indicibile nel suo limite di rappresentabilità fino a toccare il fantasma fusionale dell’origine:  l'essere androgino e arcaico che riunisce in sé i principi opposti del maschile e del femminile .
Da questi corpi marginalizzati, impediti, come da involucri di pelle emergerà a poco a poco un corpo nuovo, altro, rinato dalle ceneri della propria morte, risalendo lentamente attraverso i visceri alla memoria della propria origine.

Viaggiare verso la terra come all’interno di sé. Il viaggio verso la terra, all’interno della terra non é solo il punto di partenza di ogni movimento nel butô ma anche un vero e proprio viaggio iniziatico all’interno del sé. La discesa agli inferi, verso le proprie tenebre, é un “viaggio terrificante e salvifico che apporta una possibilità di rinascita, di rinnovamento e di conoscenza dalla quale dipenderà la trasformazione dell’essere del danzatore e della sua arte”[6].
I danzatori-poeti di butô seguono una via similare nella creazione: accedono attraverso un cammino interiore a uno stato di danza che li conduce ad attraversare i limiti della coscienza. Se il momento catartico creativo coincide con questo abbandono della soggettività, come un lasciar parlare o venire l’Altro in sé,  il butô non é una tecnica ma “l’azione che ci apre a delle tenebre più grandi per la mediazione della malattia o del segreto”  “Il corpo nell’intossicazione, nel silenzio assoluto, nella sofferenza si apre la strada alla discesa agli inferi, ... potenza che mi fa morire e rinascere come totalità...viene dalle tenebre” [7]


Kazuo Ohno: “definire quello che sia il butoh é lo stesso che definire quello che é l’essere umano”. Il butoh é il sogno di un feto”.La danza diviene qui atto poetico come ciò che a che fare col segreto, come rubare un’immagine e restiturla nell’occultamento , come si guardasse l’universo da una fessura aperta al centro della terra. “Danzare al limite, non importa quale”. Dipingere un quadro come per rubare il segreto di una visione. Per Ohno danzare é ancora questo “allontanarsi dalla ragione” passando attraverso diverse corporalità; e insieme richiamare in vita le forze animate della natura, gli spiriti dei morti, i fantasmi dei revenants.

La vita generata dall’universo, il corpo degli uomini come un piccolo universo. La madre, questo grande universo ce l’hai sulla schiena, se ti volti indietro vi guardate negli occhi. Imprimi la terra coi tuoi passi, un fiore in mano”.
“ Il sogno dell’universo: un mondo che supera il tempo e lo spazio, un mondo coperto di schiuma. Ci si lava fino ai piedi e la danza é come vento. Essa é bella. Bisogna danzare questo. Un gatto danza in duo con il vento che non ha dimora. Un piccolo io porta la madre sulla sua schiena
.”[10]

Danzare non importa come, fino alla fine del tuo respiro, per parafrasare le parole di Ohno..
Estrarre la propria danza da se stessi. discendendo lentamente. Danzare é quello che trovi in te stesso, nel processo, quello che ti rimane quando tutto il resto é svuotato, sottratto, annullato. Forse uno stato di estrema leggerezza dove si comincia ad essere nel possibile, nell’indeterminato, nel bianco, nel vuoto.

“Non posso insegnarti, non posso dirti come fare, anche il più piccolo dei movimenti devi trovarlo dentro di te”, dice Ohno. Nel lavoro ciascuno deve mettersi di fronte a sé stesso fino al limite in cui questo io viene meno, all’ascolto sempre e comunque di forze e contro-forze che investono il suo campo d’azione, di sentire, d’essere. L’esistenza nella sua fragilità in quello che d’essa mi diminuisce, mi tormenta, mi toglie il respiro; mi rende debole, esitante, multiplo e da me stesso infinitamente diviso.
Li’ dove é impensabile fare un passo quando é necessario fare un passo, e il corpo di dentro grida preso da questo spasimo di movimento, lì dove le leggi del desiderio e dell’impossibilità si scontrano in un faccia a faccia violento e irrisolvibile, li’ si comincia a vivere, a danzare. Al fondo del proprio essere la voglia di piangere e giocare, vivere e morire, gioire e rinascere infinitamente.






[1] Cfr Beatrice Picon Vallin, Odette Aslan, Butoh, CNRS Edition, 2002
[2] Cfr Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, in Œuvres, Gallimard 2004
[3] Cfr. Michel Serres, Genèse, Grasset, Paris,: « Le bruit du fond est permanent ; il est le fond du monde, le fond noir de l’univers, il est le fond de l’être peut-être. » p. 108
[4]Ibid. Serres, Genèse
[5] Ibid., Michel Serres
[6] Ibid., Picon Vallin, Aslan, Butoh,
[7] Ibid ., Butoh
[8] Ibid., Bûtoh
[9] Antonin Artaud, Le théâtre et son double, Gallimard, 1964
[10] Idid., Butoh

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