domenica 22 agosto 2010

"Ravenna out of sight", fotografie di Enrico Fedrigoli, (Longo Editore, 2003)










La geografia e' quella di corpi che percepiscono lo spazio attraverso le azioni più quotidiane,
scritta da corpi che vagano,
si spostano, ritornano,
partono, incidono il suolo,
lo assimilano, lo sporcano,
lo subiscono lasciando tracce di sé:
memorie, polveri, suoni, linee di fumo esauste che svaniscono a distanza nell'aria;
la trama incommensurabile delle loro esistenze.


Ho visto queste mappe aeree, la città doveva essere un vecchio porto, oggi ricostruito altrove nella nuova zona industriale;
vecchio porto nella parte est della città, tra le strade trafficate e le linee ferroviarie.
Vi gravitano maestose rovine di vecchi transatlantici, incise di nomi corrosi, divorate da ruggine dove l'acqua ha lentamente intaccato le strutture in ferro delle fondamenta.

Le mappe lasciano intravvedere un corpo sotterraneo immerso nell'acqua,
la città a ridosso del mare attraverso le strade che la ricongiungono alla marina,
i polmoni-lagune, praterie sommerse d'acqua, inondate dai movimenti irregolari, lenti e imprevedibili delle maree;
le acque salmastre delle piallasse ricoperte di vegetazione, canneti, arbusti,
nascoste orchidee di sottobosco.
E ancora l'esofago-porto, tubo digestivo delle strutture industriali, fabbriche e container in ferro, acciaio o cemento.
Sono gli antri ventricolari del cuore antico, edifici e chiese in pietra a vista,
mosaici, splendore dell'antica capitale fino alle zone di evacuazione, di esubero o escrescenza, lembi non-definiti di materia vivente.
Luoghi sorgono ai margini del formalismo, dell'ufficialità urbana:
le periferie,le costruzioni isolate in mezzo alla campagna, perse tra le distese piatte, uniformi delle terre coltivate.

Un deserto fangoso, inizialmente vuoto, così l' hanno percepito in assenza di vita, di reali presenze umane simile a un deserto acquatico, sospeso tra la terra e il mare, tra le valli e le zone bonificate.

Dentro la nebbia che é una vera nebbia, foschia confusa a fumi industriali.

Dentro il monocromo grigiastro, che é anche un senso di torpore, d'astenia immobilizzante per l'immaginazione.

In una sorta di atmosfera opaca, dove i colori, il nitore del bianco e del nero si perdono,simile all'alchimia d'una allucinazione.




































Praterie inondate dalle acque salmastre in alta marea;
zone umide d' acque dolci e distese melmose d’acque ferme , aspre o salate.
Zone lagunari che si ricongiungono al mare tramite una fitta rete di canali.
Argini erbosi, praterie con bassure periodicamente allagate e rare specie di insetti, arbusti, piante o animali.
Vene aperte , suolo esploso, deflagrato, crepato in fessure di fango incise;
i residui, i lasciti, i relitti dell'antica pineta di S. Vitale.
Saline, multipli specchi d'acqua separati da bassi argini.
La salinità del mare è impressa sulla terra fino ad aprirne crepe, lacerazioni intime simili a bruciature incidendosi al suolo in tracciati irregolari, labirintici là dove le acque si sono ritirate lasciando un suolo dissecato.

Ci siamo immersi nelle acque stagnanti, tra la nebbia e il grigiore monocromo, in mezzo a orizzonti rarefatti e i colori hanno ricominciato a comparire:
cenere azzurrognola, ruggine rubino, grigio argenteo, le macchie lucenti e infernali dei complessi industriali,
le costruzioni biancastre in mezzo alla campagna.

In questa nebbia iniqua dove le cose appaiono come feroci ammonizioni, i complessi industriali, le case isolate hanno cominciato a stagliarsi come magnifiche costruzioni viventi,
trasformazioni alchemiche che trapassano il paesaggio,
presenze fluttuanti sorte dal deserto.

Le immagini popolano la nebbia dove siamo immersi: dalle terre alle paludi, dalle fabbriche alle basiliche. Sono sempre esistite eppure nessuno le ha mai viste.
Ma è precisamente attraverso l'opacità che puoi cominciare a vedere.
Nel deserto sei obbligato a scegliere perché qualche volta la realtà scivola nelle sue intangibili riverberazioni.

Il deserto è là ma non lo vedi, allo stesso tempo, lo senti e lo vivi. Abitato da entità e immagini.

E' una città quasi sommersa dalle acque, immersa nel grigiore circostante, attraversata da improvvisi bagliori. Impossibile distaccare gli ori e i blu dei mosaici dalle strutture industriali,
le terre coltivate dagli acquitrini paludosi, le zone bonificate dalle acque morte;
la fanghiglia dei sentieri dispersi dalle strade lucenti e asfaltate,
l'aria leggera del mare dall'insalubrità delle zone basse, impregnate dal calore e dall'umidità delle valli, impresse dal fumo delle nebbie d'inverno.
Endovenosa che avvolge, penetra, immobilizza, risalendo attraverso le vene,
infiltrando il sangue, le ossa, gli arti, gli organi fin dentro i polmoni.




In una virtuale realizzazione scenica...

Il punto di partenza resterebbe la necessità, il bisogno quasi di rintracciare, di compiere il percorso a ritroso verso le radici. Il movimento entrerebbe in un secondo tempo come modo di comprendere la realtà.
Dopo la più' basilare stesura della struttura sorgerebbe la necessità di distruggerla, farla a pezzi per vedere quello che viene prima, al di fuori, nel mentre, nel dopo e in un senso circolare.
Se la visione apparirà irreale il segno fisico resisterà perché il movimento è realmente impresso nello spazio.
La cosa più' affascinante resta la relazione tra l'individuo e il luogo, il segno umano modificando lo spazio dato, fissato, esistente.
L'approccio sarebbe condizionato da una presenza dell'incombente, di quello che potrebbe accadere, si teme possa succedere, quello che vacilla, pesa, oscilla sulla vita di questi individui, si sposta, si affaccia e si ritrae nel senso di una continua trasformazione della materia e della realtà ad essa contingente.

lunedì 2 agosto 2010

Valerie Jouve ( II ): i muri, le città , le immagini



















Sembra che l'insieme delle operazioni militari compiute dall'esercito israeliano in territorio palestinese nella banda di Gaza abbiano cambiato radicalmente le strategie militari e il modo di organizzare le operazioni di occupazione da parte dell'esercito. Alla figura della maglia cartesiana, della catena di comandi gerarchici, visione monoculare dall’alto si oppone quella della simultaneità, della rete, della sovrapposizione disordinata, della guerra civile di tutti contro tutti. L'attacco al campo di Balata nel 2002 testimonia dell' irruzione della guerra nella sfera del privato, l' armata israeliana avanzando all'interno delle abitazioni dei palestinesi in una forma di lotta non-lineare, dispersa, secondo la modalità definita dal Eyal Weizmal come “passe-muraille”, passare attraverso i muri delle case palestinesi tra gli edifici, le macerie, le rovine della vita quotidiana.

Sono le strutture tentacolari, gli agglomerati anarchici, disordinati;
i labirinti di strade sviluppatosi nei campi dei rifugiati palestinesi, Naplouse, Balata.
Sono “spazi striati “ delimitati da , chiusure, barriere, fossati costruite dalle forze d’opposizione palestinesi.

Storicamente una breccia aperta nella muraglia esterna d'una città-stato presa sotto assedio indica la caduta di sovranità della medesima. Nelle guerre moderne il limite ultimo che viene trasgredito è quello dello spazio domestico, l'irruzione nella sfera del privato.
Vedere, sorvegliare, controllare, occupare, mirare attraverso i muri;
imporre la trasparenza d'uno spazio urbano fluido, facilmente navigabile attraverso le nuove tecnologie di sorveglianza.

Il muro storicamente é frontiera fisica, visiva e concettuale:
muro isolante, visivo e sonoro, costituisce le frontiere intime dello spazio borghese.
Indice architettonico irriducibile, afferma la solidità, la permanenza dell'uomo sulla materia,
le fondamenta di quello che resiste nel tempo ma anche l'entropia naturale dell'ordine urbano.
Muri domestici, sociali, geopolitici, strutture immobili, “immovibili” dell'ordine socio-politico costituito.
Solidità che diventa chiusura, repressione, blocco, arresto di movimento
contro il fluidificare, rendere la circolazione libera, il passaggio facile, immediato.

Gordon Matta Clark: de-murare i muri”, sovvertire l'ordine depressivo dello spazio domestico.
Bataille: attaccare l'architettura nella sua carcassa repressiva per liberare energie incoscienti; trasgredire l'ordine borghese della pianificazione della città, dello spazio urbano.
Liberare energie creative inutilizzate, forze politiche e sociali marginali, inespresse.


Immagini suggerite dal lavoro fotografico e i diari di Valerie Jouve


“la sindrome di Gerusalemme”.
Questa città, ombelico paranoico del mondo rende folli al punto di reclamare, d’invocare nelle strade la venuta del Messia ,
di sentirti male, quando qui vorresti allontanarti senza poterti allontanare ,
incapace di scuoterti di dosso il sentimento opprimente,
feroce che la città ti inocula senza remissione.
Il suo peso ti schiaccia, soffoca e sommerge. La peggiore addizione che avresti conosciuto, senza sapere.

“ Ramallah, un disordine apparente, impossibile a inquadrare, ed é anche il suo valore”;
una città che resiste ai cliché. Naplouse é più semplice a definire, rinvia direttamente alle rappresentazioni che si hanno delle città arabe, costruita in una valle, cornice naturale per una espansione urbana. Rammallah non si prende in foto facilmente, lascia intravvedere un tessuto urbano lambiccato, disconnesso, privo di logica apparentemente.
Ci vorrà forse tempo per vederla in una visione complessiva e frammentaria che ne rifletta sommariamente tutte le parti.



Foucault: “non si vive in uno spazio neutro e bianco. Non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di carta bianca ma in uno spazio inquadrato, intagliato con zone chiare e oscure, differenze di livelli, di gradini, di scale, di incavi, territori duri e altri labili, penetrabili, porosi. ..Tra tutti questi luoghi distinti ce ne sono di assolutamente diversi che si oppongono a tutti gli altri, destinati in qualche modo a cancellarli, neutralizzarli, purificarli. La società adulta ha organizzato i suoi propri contro-spazi, utopie localizzate, luoghi reali fuori da ogni luogo. Spazi differenti, luoghi altri, contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo”. ( Le Eterotopie)


















Pietra su pietra, una cerchia muraria a secco occupa in primo piano l'intero dell'immagine ma lo scorcio é ripreso obliquamente aprendo il passaggio dello sguardo attraverso
spiragli di luce, squarci d'orizzonte, frammenti di cielo che irrompono qua e là sull'uniformità opaca della materia, solida e immobile.

Costruzioni in pietra a vista.
Le pietre diventano muri eretti contro lo sguardo,
diventano costruzioni d'edifici, case e scenari urbani che imprigionano gli individui.
Diventano città, blocchi di cemento sorti disordinatamente sul suolo desertico e arso di Palestina.

Lo spiraglio é squarcio d'orizzonte che s’apre, si intrufola, si lascia intravvedere sullo sfondo dell'immagine ma anche la vegetazione selvaggia e irta che si infiltra come cespugli ribelli tra le insenature,
dentro le piccole fessure sulla muraglia là dove le pietre si discostano l'una dall'altra di qualche centimetro nel passaggio del tempo o per l'effetto d'agenti esterni.

Spiragli ancora sono le sedie bianche, di plastica rovesciate, su un muretto di cemento in un viottolo dove si vedono desolanti costruzioni con piccole finestre, e buchi neri,
e blocchi di cemento, e colonne in cemento grezzo.
Spiragli di luce, d'orizzonte e sedie di plastica bianche rovesciate contro il muro;
materia duttile, banale, quotidiana, nell'economia dei mezzi obbligata.
Vediamo piedi di sedie rovesciate contro il cemento esterno, massiccio a vista in primo piano.

E giochi d'ombre su muri slavati, scrostati a tratti, sanguinanti sembra,
colanti di materia liquida, rossiccia , inquinata,
incrostati, intaccati all'immagine della città alle spalle.
I rami si incespicano in figure strane, contorte,
in giochi di luce e labirinti d'ombre dilatandosi lentamente per aprirsi una strada verso l'esterno.


Ancora un muro coperto di ruggine in primo piano ma preso in squarcio obliquo lasciando intravvedere una strada che s'apre lateralmente, a margine della foto.
Percorso dello sguardo tracciato in linea d'ombra rispetto alla superficie squadrata al centro.
Rossiccio, ruggine, filtrato di luce solare, di scritti e graffiti comparendo qua e là,
diventa un dipinto astratto, inciso, graffiato sui muri,
fatto di macchie, iscrizioni e punti d'arresto,
di suture e pigmenti colorati,
ocra, carminio o ruggine, filtrati di luce solare contro il grigiore del fondo,
nel pieno riverbero del giorno.






Valerie Jouve : corpo, fotografia, utopia ( fotografie realizzate nella banda di Gaza tra 2008 e il 2009 esposte al centro Pompidou, Parigi )









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Valerie Jouve: “Lo spazio tra i corpi ma anche lo spazio prodotto dai corpi è una grammatica che articola il senso.” Non è solo un involucro delimitato, è anche la memoria di tutta una storia, un’umanità che produce significazione al di fuori della nostra volontà.

“Realtà terrificante. Parlo della struttura di realtà che costringe fisicamente dei comportamenti e ne induce altri. Per me, solo i personaggi delle mie fotografie difendono la loro libertà, il loro potere.”
"Vogliono impedire questa corsa verso l’unico, verso l’omologazione a un pensiero che tutti gli uomini dovrebbero sottoscrivere. Una sola verità che bisognerebbe asservire o, allora, è il conflitto, la guerra. Come se, in nome delle grandi ideologie totalitarie, si dovessero svuotare gli esseri della loro differenza, della loro individualità . Da parte mia, preferisco restare in movimento, affermare una verità oggi è diventato molto pericoloso. Tuttavia, grido per arrestare il massacro dai due lati, l’insopportabile svilimento, subordinazione, asservimento, formattazione, lavaggio, smantellamento, spogliazione delle individualità e delle loro anime."
“Questi corpi morti della vanità degli uomini, del sopruso dello stato. Parlano anche di politica. Devono ritrovare una propria voce, la loro voce.”

“L’immagine del margine, del singolare, sono elementi d’apertura della nostra società. Saranno dunque figure, personaggi che al di là d’ogni appartenenza razziale o sociale esprimeranno il bisogno d’affermare questa libertà d’essere altri."


Al di là del prendere atto della realtà, fotografare visi e corpi come luoghi utopici a partire dai quali proiettare una visione altra del presente: luoghi tra il politico e il poetico che nutrono l'utopia, l'idealità d'una nuova generazione per il popolo palestinese.
Sono volti di profilo presi a distanza ravvicinata o in primissimo piano, visti obliquamente rispetto all’obbiettivo.
Occhi aperti, chiusi. Ripiegamento sul sé, perplessità, sospensione, interrogazione, dubbio o angoscia.
Volti nettamente stagliati, chiarificati oppure figure colte di schiena, lo sguardo opposto all'obbiettivo, proiettato in una direzione che sfugge al nostro sguardo, quasi mai frontalmente, come fissando un punto altrove, o il vuoto semplicemente.

Il volto: un paesaggio umano, una domanda aperta, mai neutrale, a tratti perturbante, attraversata da infinite sfaccettature, sfumature,
mutevole come gli umori, gli ardori, i dolori che lo attraversano;
qualcosa di complesso, multiplo, irriducibile a un semplice stereotipo,
fragile della fragilità d'una maschera o figura che si porta addosso sostituendone l'una all'altra,
esposto poi senza riserve alla corteccia rugosa del mondo,
con le sue intemperie, graffi, screpolature.


Un muro di cinta esterno separa il personaggio in primo piano, in una sorta di fotomontaggio, da quello che appare come lo sfondo d’una città araba alle spalle. La figura umana marginale perché esterna, estranea al paesaggio è inserita in primo piano come se si trattasse di un fotomontaggio, in uno spazio fisico, esistenziale e sociale alla quale è connessa e, al tempo stesso, separata. 

Muri, alberi, barriere o linee orizzontali rafforzano la sensazione di scissione tra l'individuo e una realtà dandosi come imposizione violenta, opaca e indeterminata contro la quale il soggetto sembra inevitabilmente intaccarsi scontrandosi ad essa.
Gli occhi chiusi, il volto si da obliquamente alla camera. Giovane donna nitida in primo piano, vestita con jeans e t-shirt occidentali, come cercasse la luce, si protendesse in un anelito di vita; un muro neutrale, azzurrino-stinto alle spalle.

Ancora un muro di separazione e, sullo sfondo, lo squarcio indeterminato delle fortificazioni esterne della città.

Una giovane palestinese vestita di una tunica nera con la testa scoperta, il volto senza velo e i capelli lunghi, bruni lucenti al sole proietta una visione utopica, libertaria della condizione femminile investita d'una nuova idealità per la giovane generazione palestinese. Un muro di pietra si erge alle sue spalle ma il paesaggio roccioso, arido sullo sfondo appare in connessione alla figura in primo piano.


 Nello squallore d'un campo profughi disertato dalla guerra la figuretta d’un bambino si staglia a lato in un improbabile parco giochi disseminato di immondizie e rifiuti.







Michel Foucault , Le corps utopique, Lignes, Nouvelles Editions, 2009.


“Luogo senza ricorso al quale sono condannato”, piccolo frammento di infinito con il quale, letteralmente, “ faccio corpo”, assumo una consistenza concreta, un'apparenza manifesta, evidente, inconfutabile nello spazio.
Eppure, secondo Foucault, il corpo é anche ciò che non si lascia facilmente ridurre , portando in sé le proprie risorse: “luoghi senza luoghi, più ostinati ancora che l'anima, le tombe, gli incantesimi dei maghi. Possiede le sue cave, le sue soffitte, i suoi soggiorni oscuri, le sue spiagge luminose”. La testa, per esempio, strana caverna aperta sul mondo attraverso due fessure dove le cose arrivano, entrano, vengono ad abitare rimanendo tuttavia esterne perché proiettate come immagini percepite all'altro lato della sfera ottica. Per raggiungerle è come se dovessi rivoltarle, appropriarle, riproiettarle a mia volta.

“Corpo incomprensibile, penetrabile e opaco, aperto e chiuso; luogo utopico per eccellenza”. (Foucault)
Cio' che è assolutamente visibile in un senso, come l'essere guardati, osservati dalla testa ai piedi, spiati, sorpresi, sorvegliati alle spalle quando meno ce lo si attende, espropriati dallo sguardo d'altri eppure anche, “captato da una specie di invisibilità dalla quale mai puo' liberarsi”.
E' visione fantomatica che appare al miraggio deformante degli specchi o ancora,
figura frammentaria, parziale, percepita a tratti o per parti distinte,
viso, braccia, labbra, arti, senza spessore ne figura perdendo la propria linea di contorno, sfumata, cancellabile nei suoi tratti esterni.

Visibile e invisibile, trasparente e opaco, respira, vive, agisce, “si lascia attraversare senza sosta dalle mie intenzioni”, dalle mie pulsazioni.
Anche, é materia pesante, investita di una forza di gravità che lo tiene inchiodato al suolo, nella pesantezza quello che lo fa sprofondare nell'abisso della propria finitudine: la lentezza del sonno,
la narcosi dell'abitudine,della noia o dell'abbandono;
l'astenia della non-esistenza,
la quasi-immobilità che precede la morte,
la parte impropria dell'esistenza,
l'architettura intaccata della carne, la suppurazione aperta della malattia.

“Forse, bisognerebbe ancora discendere sotto i vestiti, forse bisognerebbe raggiungere la carne stessa e allora si vedrebbe che, in alcuni casi, il corpo volge contro di sé il suo potere utopico e fa entrare lo spazio del religioso e del sacro__ tutto lo spazio dell'altro-mondo e del contro-mondo__ all'interno di uno spazio che gli è proprio. Allora, nella sua materialità, nella sua carne diventerebbe anche il prodotto dei propri fantasmi. Il corpo che danza è giustamente un corpo dilatato secondo uno spazio che gli è interno e esterno insieme. “

Il corpo umano , secondo Foucault, è l’attore principale di tutte le utopie, “punto zero del mondo dove i cammini e gli spazi vengono a incrociarsi,
piccolo nodo utopico a partire dal quale sogno, parlo, immagino,
percepisco le cose intorno a me e le nego per il potere infinito delle utopie che invento.”