giovedì 30 giugno 2016

"Seven days": ai confini dell'immagine video, installazione di M+M al Mambo di Bologna












Sette scene, protagonista lo stesso camaleontico attore Christophe  Luser si spirano  a celebri film degli anni ‘70 e ’80_ dal “Shining” di Kubrick, a “un homme et une femme” di Lelouch, a “tenebre” di Dario Argento, all’indimenticabile,  “il disprezzo” di Godard_ per dare  vita alla video-installazione del progetto “7 giorni” del duo artistico tedesco M e M attualmente al Mambo di Bologna. Quattro schermi, i video in serie si susseguono in corrispondenza a ogni giorno della settimana sdoppiati in due versioni  dove la medesima scena, stessi dialoghi e ambientazione sono interpretate dalle coppie speculari dell’adulto o del bambino, dal duo padre/figlia, marito/moglie, da un personaggio giovane o da uno più vecchio per lasciarci volutamente in una sorta di ambiguità visiva generata dall’aspetto seriale e fittizio dell’immagine messa in scena, nell’ambiguità delle relazioni che si disegnano differentemente ogni volta secondo il contesto o per la mutata atmosfera che ne emerge.
 

Da subito la forma aperta e in divenire lasciata all'installazione video ci pone di fronte all’immagine filmica nel suo potenziale di pensiero e, insieme nella sua forza di rottura: un’immagine capace di risvegliare i sensi, la memoria o una riflessione sulla realtà che racconta, di indurre una scossa alla percezione usurata e quotidiana o perlomeno su una realtà resa volutamente incerta, incomprensibile alla coscienza del singolo, oggetto di indagine e interrogativo piuttosto che di affermazione e giudizio attraverso il visivo. Tale immagine “che pensa”e induce chi la riceve a pensare, a percepire, a sentire si svincola dalla necessità di seguire una sequenza cronologica di azioni in una trama narrativa, la cosiddetta “immagine-movimento” del cinema classico per darsi come libera associazione di forme del pensiero o della memoria non necessariamente connesse a un senso cronologico o causale :“ immagini-tempo” come le definiva Deleuze nei suoi saggi su cinema e pensiero.

In “Sette Giorni”  segmenti filmici in montaggio libero sono proiettati in sequenza su quattro schermi consecutivi in una doppia narrazione simultanea per ogni giornata/scena. Percezioni temporali soggettive dei singoli personaggi dominano al centro del video, identità mutevoli o in divenire per uno stesso individuo visto in prospettive molteplici e momenti differenti della propria esistenza. I volti appaiono in primo piano scrutati a distanza ravvicinata, studiati, analizzati dalla telecamera qualche volta in maniera insidiosa e sottile seguendo le infinite, imperscrutabili sfumature emozionali che vi si delineano a tratti: fulminee appaiono e altrettanto rapidamente  svaniscono per lasciarli nel tempo segnati, incisi, scavati fino a modificare come un destino i tratti di un’esistenza.  Lo spazio a sua volta è colto attraverso una serie di “soggettive” sull’ambiente in quanto vissuto o esperito dalla coscienza individuale ; infine la natura complessa e ambigua delle relazioni trapela, in una coppia, dentro una famiglia o nel rapporto tra l’io e l’ambiente esterno passando attraverso fragili equilibri da momenti di rara armonia, a improvvisi conflitti o inaspettate rotture. 
  
Un corpo narrativo comune si delinea attraverso i sette video, mentre lo stesso attore, camaleontico protagonista della nostra contemporaneità agisce in scenari radicalmente differenti fino a delineare la figura di un personaggio universale, un soggetto del nostro tempo, “nomadico” nel proprio darsi attraverso le mutevoli ambientazioni dei video e visto nelle molteplici sfaccettature della propria identità. Il suo volto cambia, invecchia, si trasforma, viene segnato dal tempo, la vita organicamente  vissuta o registrata dal suo sguardo diviene un tutt’uno con lo stile e la forma filmica che permette di scrutarlo a distanza, all’interno d’uno spazio o in una precisa atmosfera, oppure avvicinandosi attraverso primissimi piani che ne rivelano i dettagli del volto, le più intime sfumature,  la sottile indagine psicologica consegnata al solo stile cinematografico.




Lunedì

La stessa scena, due schermi simultanei, un dialogo, una conversazione serrata e tensiva tra un uomo e una giovane donna, lei, camicetta gialla, capelli lunghi e sciolti, abiti usuali nell’ambientazione d’ una stanza d’hotel sconosciuta, lui giovane dal volto scarno, affilato, nella durezza nei tratti. Stesso profilo nel secondo video, simili indumenti ma questa volta la ragazza ricompare nella figura di una bambinetta e la conversazione si trasforma in un dialogo abbozzato tra padre e figlia. Ritorna al centro della scena la natura ambigua e conflittuale delle relazioni tra i membri di una famiglia o  quella più intima di una coppia là dove la comunicazione è resa difficile o impedita e i dialoghi si ripercuotono in scambi vuoti di parole, in frasi abbozzate e non finite tendenti a nulla dire o nulla comprendere dell’altro. Tenero e genuinamente tensivo in un caso il dialogo tra il padre e la figlia, serrato, pieno di aspettative o risentimento nell’altro quello tra il ragazzo e la ragazza mentre si insinua in maniera vaga e costante il dubbio, la distanza e, insieme, il senso d’una fragilità insita nella relazione o, semplicemente, in un contatto autentico con l’altro. Sempre, gran parte della scena è lasciata al non-detto dell’immagine filmica, a una sorta di sospensione o impossibilità a tutto dire, tutto comprendere  fatta di pause lunghe e obbligate dove i silenzi si caricano di attese e implicite tensioni taciute o riempite di sguardi assenti e non-detti della parola.

Martedì

Salone Botticelli, un negozio di parrucchieri; il giovane uomo è seduto in attesa di farsi radere all’italiana da una donna matura dalla capigliatura rossiccia comparendo alle sue spalle. Primissimo piano sul volto di lui: mani si avvicinano con un nugolo bianco e spumoso per schiumargli il viso. Una lama affilata inizia a sfiorargli il volto, filmata a raso della pelle nell’atto di percorrere ogni centimetro della sua epidermide mentre una conversazione vaga e allusiva si instaura tra i due interrotta di tanto in tanto scivolando come il gesto, lentamente verso la propria deriva. Le frasi vuote di lui si ripetono costellate da lunghe pause d’assenza, vagamente malinconiche, qualche volta di silenzio forzato in assenza di parole. Le mani della donna appaiono vicinissime al volto dell'uomo in primo piano, filmate attraverso  una crescente tensione erotica e insieme la violenza di un gesto appena accennato; insinuano il senso di un pericolo immanente ogni volta che la lama entra a contatto con il viso e sfiora la pelle. Tutto è giocato su questa sottile continuità tra erotismo o forza desiderante insita nei corpi di fronte alla camera e un crescendo della medesima volgendo nel suo opposto  complementare e distruttivo convocato nella metafora d’una lama affilata che si avvicina inesorabile a un volto.

Mercoledì
Un auto nella notte, la più totale oscurità d’una strada senza illuminazione, il senso di un vagare indistinto, nel video in bianco e nero il volto di un giovane uomo scarno, rischiarato dai fari delle auto . Proiettata su due schermi identici e paralleli, l’immagine dà spazio alla proiezione del suo pensiero, visualizza il lavorio della sua coscienza attraverso un monologare ininterrotto e logorroico incentrato sul volto mentre campi lunghi riprendono in esterno i fari delle auto nella notte abbaglianti in un metaforico non-vedere: l'annebbiamento dei sensi o della coscienza. Il giovane è alla guida in un lungo monologare solitario, immerso in uno spazio allucinato, oscurante, lo spazio interiore della propria mente;  immagina la scena che si svolgerà tra breve a casa di lei  percuotente, in maniera ossessiva nel suo pensiero tra gelosia, rabbia e desiderio. Il video lascia spazio totalmente al funzionamento o disfunzionamento della sua mente e, insieme,  visualizza un’identità frammentaria, ripresa alla lente d’una percezione espansa e totalmente soggettiva  del tempo.

Giovedì

La visione è dall’alto di palazzi in vetro e acciaio scintillanti in un moderno quartiere finanziario d'una anonima metropoli simile a una Wall Street dell’attualità. In una sala riunioni durante un consiglio d’amministrazione ad alto rango il giovane si toglie gli abiti che indossa uno a uno di fronte all’assemblea incredula e sconcertata degli azionisti e dei famigliari, di fronte all'incomprensibilità della madre,  alla  freddezza granitica del padre; lascia ai suoi piedi tutto quello che possiede, deponendoli uno dopo l’altro fino a restare in una totale, assoluta letterale e metaforica nudità. Ispirato a una scena del film di Laura Cavani sulla vita di “Francesco” il video mette in scena la rottura di Francesco con i genitori e il suo rifiuto radicale alla ricchezza riportandolo nel contesto attuale del mondo della finanza. Esprime l’idea d’una rinuncia totale, d’una totale e assoluta investitura in una nuova vita dedita a Dio e alla povertà francescana nella storia del santo. Qui ritorna l’idea di nudità, il gesto di rottura radicale compiuto con intenzionalità di fronte  a una predominanza di potere, infine la scelta etica e libertaria di rifiuto rispetto a un determinismo obbligato, a un percorso esistenziale scelto non da lui ma da altri attraverso il semplice gesto di deporre al suolo le scorie della sua prima pelle, l'involucro esterno della sua precedente esistenza.

Venerdì

Buchi neri sono filmati in esterno in primissimo piano  su pareti in cemento grezzo di case popolari neanche intonacate; l’aspetto aspro e rugoso della materia al tatto, la sua repulsione quasi allo sguardo intrusivo della telecamera. Dall’aspetto sordido e sgretolante dei mattoni il video scivola verso l’interno d’una di quelle case . Una giovane donna esce avvolta in un asciugamano nel primo video, stessa ambientazione ma la donna diviene più anziana nel secondo, entrambi proiettati in simultanea sui due schermi contigui. Un uomo si avvicina alle loro spalle con un rasoio alla mano, un taglio rapido in primo piano, macchie di sangue si espandono spaventose e dilaganti al suolo. Entrambi i corpi appaiono distesi nel continuo dei due video, la giovane donna, poi l’altra più anziana, una macchia di sangue espandendo devastante sul cemento. Infine la cinepresa corre sul volto di lui,  nel crescendo violento della musica. L’ambientazione visualizza l’immagine-memoria d’una casa in disuso a metà avvolta da teli in aperto trasloco, poi l’immagine espansa e amplificata di un rigagnolo di sangue al suolo e uno stesso volto femminile, ora giovane, ora vecchio, infine il primo piano sul questo altro volto di uomo criptato, incomprensibile, inumano.

Sabato

Due coppie si alternano sulla pista da ballo d’un club ripreso sullo stile del celebre “Saturday night fever" con Travolta. Luci basse, colori elettrici e artificiali da club notturno, violacei, aranci, blu accesi e psichedelici, musica elettronica dalle tonalità martellanti e ripetitive. La scena continua attraverso un dialogare ininterrotto, lo stesso nei due video paralleli mentre le immagini scivolano da un uomo e una donna danzando insieme a due uomini visti nella stessa scena di seduzione. La tonalità emotiva si trasforma nella simultaneità degli atteggiamenti  creando volutamente ambiguità, mentre si gioca ironicamente sulla variante del genere nella relazione per decostruire una versione unica e monolitica della società e della coppia.

  Domenica

Straiati su un letto, stessa stanza di mattino, la stessa scena è raccontata attraverso un medesimo dialogo ispirato alla celeberrimo prologo di “Il disprezzo” di Godard ma con un’ambientazione e una tonalità che muta radicalmente nei due punti di vista incarnati: la tenerezza avvolgente del dialogo tra padre e figlioletta in una sorta di rituale affettuoso; ora, invece, è il gioco amoroso ad instaurarsi nel rituale erotico e di seduzione che tra il giovane uomo e la ragazza nel letto disfatto al risveglio.

Le immagini , qui nello specifico l’immagine filmica, hanno il potere di aprire spazi di pensiero, di memoria o di desiderio in chi le riceve facendo anche a noi attraversare in maniera più o meno consapevole quella soglia di razionalità oltre la quale vorremo facilmente perderci o lasciarci portare. “L’image-temps” teorizzata negli scritti su cinema e filosofia dal francese Gilles Deleuze era definita come quell'immagine prodotta da un cinema nuovo dopo la crisi del neo-realismo che non si limitava più a documentare la realtà in quanto tale, che non serviva più semplicemente alla rappresentazione del movimento filmico in quanto azione ma che, invece, diveniva immagine della non-azione, d’una versione assolutamente soggettiva e imparziale, frammentaria e incerta della realtà in quanto percepita, ricordata, immaginata o vissuta in relazione alla temporalità esistente. Emergenze prodotte dal visivo, dalla memoria involontaria ma anche biforcazioni e salti temporali tra passato e futuro o, ancora, qualcosa di imprevedibile o incerto come  l’evento inaspettato, la possibilità cui non avevamo pensato, qui nel caso specifico di “Sette giorni” quella variante sulla versione del cinema classico dove entrano in gioco sdoppiamenti di punti di vista, versioni parallele di uno stesso dialogo o biforcazioni temporali nel monologo.  Identità mutevoli e in divenire se ne delineano, tutta una serie di "soggettive" cinematografiche che, ancora una volta, riflettono e interrogano la forma e il concetto di soggettività nel nostro tempo dando una visione della realtà frammentaria, mutevole o scomposta in molteplici sfaccettature .




venerdì 3 giugno 2016

da "Silencio Vivo, artiste dall’America Latina", ( esposizione al Padiglione d'arte contemporanea di Ferrara)









Il  “silenzio è vivo”, abitato, portato fuori attraverso un grido dirompente nel grande affresco di Teresa Margolles ospitato per Biennale Donna alla mostra ferrarese, collettivo di giovani artiste provenienti da diversi paesi dell’America latina. O ancora, è esasperato attraverso la non-parola d’uno  stile individuale lasciato all’espressività unica di singole voci femminili differenti quanto connesse da un filo conduttore che attraversa tutta la zona geo-politica e culturale presa in considerazione. Tematiche ricorrenti alla realtà sud-americana  attuale sono l’esperienza dell’emigrazione, dello sradicamento e della mobilità obbligata di masse di individui, le dinamiche di censura e persecuzione o la privazione di libertà politica e individuale imposta dalle dittature militari che hanno segnato la storia recente di questi paesi, infine la criminalità o la violenza diffusa nei confronti delle fasce più marginali della popolazione, fomentata dall’ instabilità politica e dalla fragilità del tessuto sociale.
Dunque a quali voci appartiene questo silenzio, da dove proviene e a chi prestano la parola, l’espressione, il corpo queste giovani artiste sud-americane? Il silenzio è in primo luogo quello imposto dalle dittature del passato, in Brasile per esempio, come vediamo nel lavoro di Anna Maiolino trasferitasi lì negli anni ’60 e sperimentando direttamente la situazione di pericolo, alienazione e censura imposte dal regime militare in atto dal 1964 alla fine degli anni '70. Oppure, è il silenzio raggelante, l’alone di incredulità e shock emotivo prodotti dal tessuto di criminalità generalizzata e distruttiva, da quella violenza gratuita e diffusa che investe quotidianamente e in maniera particolare le donne nella società messicana  come ci racconta Teresa Margolles. O ancora, è il silenzio alienante della condizione del migrante, del profugo, di colui che si sposta, emigra, fugge o perde le proprie radici per ragioni politiche o economiche, per scelta o destino. Tale condizione identitaria appartenente a molti individui in questa parte del mondo è filtrata, per esempio, attraverso l’esperienza di Anna Mendieta nata all’Avana nel ‘48 e costretta a emigrare negli Stati Uniti nel ‘61  in seguito alla svolta collaborazionista e anti-rivoluzionaria del padre.
Il silenzio, infine, è il polo opposto all’altro estremo d’una comunicazione espansa all’ennesima potenza nelle società occidentali e non solo oggi: quella ipertrofia di immagini, informazioni e messaggi resi possibili dalla rete globale, l’iper-connettività su un piano mondiale e a tutti i livelli_ economico, dei media e delle culture_ la cui altra faccia è spesso l’assenza di una autentica comunicazione o d’un veritiero scambio umano nelle nostre società.   
Dunque tali voci femminili intendono rompere volutamente e criticamente questo silenzio, ciascuna secondo una cifra stilistica propria, tuttavia, sicuramente sempre nella sperimentazione dei linguaggi, nella contaminazione tra video, installazione e scultura, nel sincretismo tra le estetiche contemporanee e il recupero di radici o memorie proprie alle culture autoctone, infine con la costante di parlare, incarnare o esprimere un punto di vista femminile sull’ arte: la voce di donne artiste.

Anna Maria Maiolino, sculture da “Entre o Dentro e o Fora” e “Little snakes”, (2015)








Modellate in assenza o temporanea messa tra parentesi di una reale rappresentazione  del corpo, Maiolino realizza qui sculture che come espressione di forze generatrici e primarie all’individuo si traducono in parti o pezzi di “corpi estranei” mimando o rimandando agli organi interni del corpo. Appaiono come visceri, masse o canali di scorrimento, forme modellate di intestini o stomaci organicamente visti in primo piano o canali di circolazione corporea rovesciati dal vuoto al pieno, dall’interno all’esterno in una materia scolpita, ben visibile, e presente.  Processo attraverso cui l’istantaneità dell’azione viene riassorbita e trattenuta nel gesto della scultura. La pietra diviene malleabile nella forma contorta e sinuosa del suo darsi nonostante l’aspetto granitico e per sua natura immutabile della medesima,  ciò che incarna insieme la potenza viscerale dell’umano e il corpo nella sua capacità di mettersi in relazione con il mondo. Sono interni di intestini ma potrebbero anche essere canali di scorrimento di qualsiasi tipo, reti neuronali del cervello come i connettori nervosi diffusi su tutta la superficie dell’epidermide umana. In una installazione successiva le stesse forme di visceri o intestini vengono portate in esterno e rimodellate attraverso la materia del mondo, infine deposte in massa ordinata su un tavolo d’esposizione museale. Sono marmitte d’auto arrugginite, pezzi riciclati e combinati insieme, tubi di scappamento di vecchie auto in disuso come erano i precedenti pezzi d’intestino, oppure ancora, grondaie rotte o tubature di vecchi canali sotterranei assumendo forme circolari, perturbanti e contorte. Sono materie povere, materiali di riciclo o di recupero simili a scorie del corpo o del mondo che necessitano in qualche modo d’essere riconvertite,riutilizzate, trasformate in altro e altro ancora per poter essere re-immesse nel ciclo vitale.
Sono forme avvolte morbidamente insieme, piegate dal loro moto interno e fusionale e poi fissate rispetto a quel movimento nel gesto e nell’atto della scultura: “ready-made” se vogliamo sulla scia di Duchamps  ma in un processo continuo di duplicazione, di rovesciamento dall’interno all’esterno degli organi e viceversa, di riempimento e svuotamento della materia nel passaggio incessante tra creazione e distruzione. 
La scultura per Maiolino è scavo e svuotamento degli organi, del corpo, dell’argilla fino a far apparire in esterno una materia mutevole, ambigua nella sua configurazione che si tenta, infine, di fissare nel posizionamento ultimo della scultura. Essa assorbe, traduce e trattiene l’azione, il movimento imponendolo in una forma statica, indelebile e modellata come tale per l’eternità. 
In una scultura adiacente della  serie la massa nella sua compattezza diventa scavo, svuotamento e, ancora una volta, l’interno è mostrato o reso accessibile all’esterno. Scolpire è, allora, entrare nei visceri dell’opera come in quelli del corpo attraverso una fenditura che diventa apertura e cavità per risalire quasi alla genealogia della materia, alle radici della storia, alla provenienza più antica e primordiale del gesto scultoreo, forse agli antecedenti della forma. Scavare è togliere, andare verso lo svuotamento della massa, la decostruzione dell’aspetto compatto e levigato dell’opera finita per cercare “nell’indietro”,  nel prima, nell’anteriorità al complesso massiccio e unico della pietra.

Anna Maria Maiolino, “In-Out”, 1973-2010 ( dal video Antropofagia),

Sei immagini in primissimo piano raffiguranti alcune bocche maschili e femminili sono viste nel tentativo di esprimersi ma sistematicamente ostacolate o impedite da elementi esterni o intrusivi: un uovo, un groviglio di fili, una massa di fumo o un semplice filo serrato tra le labbra ora spalancate ora digrignanti. Impedimenti si interpongono in maniera intrusiva all’immagine visiva mentre la bocca è vista nell’atto di ingurgitare voracemente qualcosa fino a divenire un canale ostruito da una parola non-detta o a metà trattenuta. Allo stesso modo il post-colonialismo appare divorare o cannibalizzare la cultura coloniale precedente nel tentativo di espellerla e liberarsi d’essa. Il lavoro dell’artista fa riferimento qui apertamente al clima repressivo del regime totalitario instauratosi in Brasile negli anni ’60  che  letteralmente toglie voce all’individuo e che la Maiolino sperimenta direttamente come migrante. Al di là dell’investimento politico le bocche viste in tale primissimo piano evocano forme perturbanti, sessuate, orifizi aperti o chiusi innestati d’altri elementi intrusivi, spalancate, ora digrignanti o serrate volutamente dando vita a immagini ambigue, aperte, disturbanti alla coscienza del visivo. In fotografie successive che documentano una performance dell’artista nel ’74, “What is left” forbici  sono viste su un volto in primissimo piano; inesorabili si avvicinano al naso prima, in procinto della bocca e della lingua poi e, ancora minacciando il volto in una sorta di violazione perpetuata, taciuta e auto-imposta dall'io al corpo della performer. L’ambientazione appare asettica, la luce fioca nella stanza vuota, in assenza d’ogni altro segno di rilievo se non il volto ripreso a distanza ravvicinata dalla cinepresa. Le lacerazioni prodotte dalla violenza politica, il silenzio imposto dalla censura, l’oppressione e il senso di pericolo diffusi si traducono attraverso la medianità d’un corpo-strumento, istintivamente espressivo, brutalmente nudo e diretto nel proprio darsi sia come oggetto di aggressione che come atto di resistenza. Esso si erge in una implicita sfida alla violenza perpetuata dal regime incarnando su di sé nell’atto dell’ auto-mutilazione il duplice ruolo di vittima e di aggressore.
      
“Entrevidas”, 1981-2010 (Between lives)






(Trittico fotografico tratto dalla performance de 1981)


La strada è disseminata di centinaia di uova, difficile da percorrere a piedi nudi sul cemento. I piedi avanzano lentamente, si muovono su un campo minato. La distesa è d’asfalto, il suolo è lastricato, grigio, improntato di segni dei piedi nudi che camminano, avanzano tra i nuclei bianchi o le piccole forme sferiche più tardi riconoscibili in primo piano come uova. Un percorso a ostacoli: le gambe sono viste avanzare a fatica tutelando i propri passi, camminano su un terreno minato dove gli oggetti appaiono sul punto di esplodere, rompersi, saltare in aria da un momento all’altro. Si allude chiaramente alla minaccia subita in una situazione di repressione politica e al senso diffuso di pericolo immanente quanto non localizzabile come se uno sguardo dall’alto, invisibile e onnipresente fosse là a incarnare il volto più subdolo e repressivo del potere. Tuttavia, nella performance, l’effetto visivo del bianco nella costellazione dei punti disseminati sulla superficie di cemento rompe il grigiore atono e incolore imposto dalla monotonia della scena creando aloni luminosi malgrado tutto, tracce depositarie di vita o  di possibili nuove ri-generazioni, ciò che politicamente darebbe vita a ipotizzabili rivolgimenti in un distante ma non troppo lontano a-venire. I punti bianchi infrangono visivamente la distesa piatta di cemento estendendosi in prospettiva oltre il limite del nostro sguardo  per dare adito e canalizzare un’ altra primordiale energia o forza creatrice. 
I piedi marcano il territorio al passaggio, stranamente qui l’aspetto inalterabile del cemento si imprime di impronte oscuranti allo stesso modo in cui un percorso esistenziale resta marcato o inciso dai segni e le tracce di un'esperienza. Si avanza attraverso quei campi minati fino a farli divenire campi di giocoleria danzando su ostacoli  virtualmente pronti a esplodere fino a renderli  palline o sfere luminose di impensata possibilità, d'altra nuova creatività per assurdo ritrovata.  

Anna Mendieta , “Volcano Series 2” (1979-99)




L’esilio forzato negli Stati Uniti e la consapevolezza di “non-appartenere” si contrappongono nel lavoro dell’artista messicana Anna Mendieta  al bisogno di trovare nuovo radicamento spirituale, forse di inventarsi una nuova identità multiculturale e, insieme, di colmare quella perenne frattura. La terra ritorna e costantemente appare nei lavori performativi della Mendieta come primaria e viscerale forma di appartenenza o innato ritorno all’originario: sublime fusionalità con la totalità del vivente, con la natura intesa come forza animata e partecipe d’ogni aspetto di vita nel cosmo. Il profilo della figura inserito nel paesaggio messicano incontaminato si fonde, mimetizza quasi con la purezza degli elementi circostanti: arbusti, cespugli, rocce, terra granitica che sgretola all’irrompere delle fiamme e nuvole di fumo viste in primo piano sul paesaggio retrostante. La terra è femminile come il corpo dell’artista e la sua energia si vuole per Mendieta creatrice e feconda. Il fuoco emerge nell’eruzione vulcanica come una potenza esplosiva e primaria, visto nella sua duplicità di forza generatrice e distruttrice . Il profilo del corpo_ sagoma svuotata dell’io e aurea irradiante che emana dalla sua volatile presenza_ diviene un tutt’uno, si pone quasi in unione complementare con la terra percepita sia come luogo di nascita che di sepoltura.
Il cratere infuocato appare in tre momenti successivi: la figura arde nel fuoco ritornando alla terra e al suo stadio fusionale primo, in seguito la presenza divorante, la forza vulcanica incontenibile e distruttrice del fuoco si impone, infine l’aurea luminosa del corpo svapora e resta il contorno nero e svuotato nel suo esterno involucro. Il cratere vuoto della terra è culla volta a tomba: ciò che generato dalla terra, arde nel suo fuoco e poi consumandosi si distrugge per ritornare al ciclo primario di natura.

Anima “Firework Piece” 1976
 
Come in un rituale sacrale, la “silueta” simulacro e corpo-profilo  dell’artista si accende, inizia ad ardere lentamente, intensamente nell’oscurità, diviene una fiammata divampante, incessante che appare consumarsi poco a poco nel buio della notte. “Fuochi d’artificio” come Mendieta li definisce accesi nel paesaggio desolante e desertico della regione messicana lasciano residui di polvere e fumo dissolvendo in aria, poi disperdono nella terra per re immergersi e fondere con la natura circostante. L’intera immagine-simulacro brucia, arde e si consuma nel corso d’una notte fino a apparire come una piccola fiammella vista a distanza tra le montagne blu, i paesaggi indaco mossi dal vento e le piane messicane aride e brulle. La combustione è vista come fuoco rituale, il profilo  brucia lungo tutto il suo contorno in una fiamma viva per ricongiungersi al ciclo cosmico di vita-morte mentre solo l’ossatura dei supporti esterni resta dopo la combustione; all'orizzonte un piccolo baluardo che affievolisce nel paesaggio desertico in lontananza.

Amalia Pica




La comunicazione attraverso la rete globale supportata dai continui avanzamenti tecnologici si presenta oggi come sempre più ambigua, volatile, simulata anziché reale afferma Amalia Pica attraverso le sue installazioni; insieme esasperata e svuotata, appare espansa all’ennesima potenza nel suo uso e abuso senza tuttavia portare a effettivi scambi intellettuali e umani;  infine è soggetta a frequenti deformazioni mediatiche, a manipolazioni o a letture spesso parziali o contraddittorie. In molti casi  i canali del linguaggio risultano ostruiti o interrotti, oppure, ancora, il messaggio non giunge a destinazione pur attraversando il canale perché resta mal-compreso, mal-interpretato,  erroneo nella forma se non nel contenuto o inviato all’errato ricevente. Come sotto-intende il lavoro performativo di Amalia Pica l’ ipertrofia di comunicazione nelle nostre società attuali, l’esasperazione quasi nello scambio di messaggi digitali o telefonici, di informazioni, immagini e notizie in tempo reale spesso nasconde, nell’altra faccia della sua medaglia, l’assenza di una reale o effettiva comunicazione. Come l’immagine è espansa all’ennesima potenza, così la notizia, l’informazione o il messaggio diviene rapido, svuotato, moltiplicato e quasi volatilizzato rispetto al suo effettivo contenuto per rendersi pura connessione o link ad altre interfacce multimediali. L’artista d’origine argentina stabilitasi a Londra sperimenta nella commistione costante di stili e linguaggi passando  in maniera versatile dal disegno alla fotografia, all’installazione nel tentativo di aprire dialoghi possibili o  virtuali reti di interazione sociale basati sul linguaggio in una società schiacciata da una compulsione all’informazione che diviene nel suo polo opposto assenza di un sostanziale dialogo.

L’installazione “The Wireless Way in Low Visibility” (2003) riprende in un omaggio a Marconi un palloncino bianco gonfiato ad elio, connesso a un filo dorato e a una bobina di carico quale primo sistema sperimentale di trasmissione senza fili. Il sistema restò all’epoca un semplice esperimento e il palloncino finì un giorno per volare in aria con la leggerezza di un aquilone staccandosi dal suolo per ritrovarsi libero in alto nell’atmosfera. Il pallone ad elio riproposto da Pica appare, oggi, come anticipatore di tutte le connessioni senza fili rese possibili dalle nostre reti "wireless" nel mondo intero, ma, anche, allude a ogni forma di comunicazione sensibile, sottile, vibrazionale o per affinità di intenti e di intelletti capace di creare connessioni travalicando i limiti spazio-temporali della nostra più concreta esistenza. Resta,  infine, un omaggio al gioco dell’infanzia e al suo modo di lasciare libero spazio alle ali della fantasia, dell’immaginazione o di un’esperienza che unisce per sentire comune nella metafora del gioco, del volo, della migrazione o della fuga verso l’alto, sia essa d’una piccola bolla di sapone o d’un immenso pallone aerostatico.

L’installazione “Switchboard”, (2011-12) ugualmente, recupera una passata invenzione comunicativa, un centralino utilizzato all’inizio del secolo e si ripresenta come uno spazio performativo ironico e giocoso creato da due pareti fittizie bucherellate, da barattoli in latta di riciclo e fili che li collegano in maniera casuale dall’uno all’altro lato insieme a onde sonore che si creano nel passaggio.  Nel reticolo i fili  si moltiplicano o si perdono allo sguardo rendendo difficile o impossibile capire quali siano i punti emettenti effettivamente collegati tra loro mentre i buchi vuoti sulle pareti forate in esterno fanno pensare a una dispersione di suono, a effetti voluti di ambiguità nel consegnare o perdere un messaggio. L’interno dello spazio si presenta, tuttavia, come un corridoio sonoro, una camera acustica e di espansione dei suoni, un centralino aleatorio dove alcune estremità sono collegate casualmente al altre seguendo il percorso intricato di fili che ora si confondono ora si connettono per portare o meno il messaggio a destinazione. 
Il dialogo, dunque, in questo gioco è lasciato alla connessione aleatoria delle parti ma, anche, a inaspettate interruzioni o interferenze che possono intercorrere lungo il tragitto; il messaggio può giungere o meno a destinazione, essere recapitato a un interlocutore differente oppure arrivare cifrato o indecifrabile al ricevente. Tutto è affidato a questo reticolo di fili nell'ambiguità del caso o del momento.    




Nell’azione performativa “On education” (2008) l’artista ridipingeva la statua equestre della città di Montevideo in vernice bianca facendo coincidere una credenza popolare latino-americana sul colore dei cavalli di tanti condottieri eroici con la realtà generata dalla sua azione pittorica. Si trattava, ancora una volta, d’un modo ironico per ribaltare un luogo comune volgendo uno stereotipo del linguaggio in una nuova o seconda verità.  Nel video girato in occasione della performance la statua equestre in pietra scolpita è presa a colpi di pennellate, di spatola, ricoperta per gettiti di vernice bianca come se sprazzi di nuova vita, di nuovo colore fossero gettati sul modello scolpito fino a infondervi linfa vitale . Pica versa quella mano di vernice sulla statua parlando di “istruzione”  quasi volesse formulare un pensiero partendo da un posizionamento critico: versare una distesa di bianco è già rinnovare ,  semplicemente rendere visibile un 'altra idea di  trasmissione o meglio formazione dell'individuo “not to impose but to speak the way I think and feel”.   
                                                                      


         
Teresa Margolles, “Pesquisas”, 2016 (Investigations)






E’ un realismo impregnato di morte, della risonanza e dell’idea di sparizione nell'interfaccia tra memoria e oblio quello che si rivela attraverso il grande affresco murale o collage di volti creato dalla messicana Margolles appositamente per l’esposizione. Il lavoro è ispirato all’uccisione di tante giovani donne nel 2008 a Ciudad Juàrez una delle provincie messicane con il più alto tasso di femminicidio  dove la violenza al femminile e, insieme l’impunità contro la medesima si sperimentano ogni giorno nella  realtà quotidiana.  Per effettuare la sua “Indagine” Margolles recupera i vecchi annunci “cercasi” delle ragazze scomparse attaccati dai famigliari in vari punti e luoghi della città. Usurati o graffiati dal tempo, alcuni resi illeggibili dalle intemperie, i manifesti sono incollati uno di seguito all’ altro sulla parete immensa di una stanza in una sorta di montaggio poetico dove essi si confondono e si sovrappongono come tracce appena riconoscibili impresse dalla lotta tra il passaggio del tempo e la memoria.
Volti inumani di giovani donne, ragazze o “poco più che bambine” riemergono sulla parete. Giovani attraenti e piene di vita, di bellezza ancora ma slavate dal passaggio del tempo e dall'oblio  nella loro già parziale cancellazione come veri ritratti. I volti appaiono ricoperti da un alone di silenzio e di morte, in parte staccati o rigati, soggetti a un progressivo  processo di dileguamento e, insieme, fissati nella sospensione violenta di un istante, l'istante anche della fotografia: implicito riscatto della vita sottratta e fissata in un'illusione d'eternità nella sua interfaccia costante alla morte come l'inesorabile consumarsi del tempo e del ricordo . Allo stesso modo che nelle serigrafie di Warhol tali ritratti sono visti in una ripetizione seriale che li consegna a poco a poco all’oblio dell’inevitabile loro cancellazione. Giungono a noi, tuttavia, immensi sulla parete della galleria dal fondo del loro grido, silenzioso, immanente, stranamente inumano, quasi l’artista abbia voluto dare una voce a questi volti per rompere il silenzio entro il quale erano  rimasti troppo a lungo imprigionati: intrappolati nell'istante di sospensione delle loro vite violentemente spezzate.