lunedì 1 febbraio 2016

Pasolini e oltre : "Officina Pasolini" al Mambo di Bologna ( esposizione fino al 28 marzo)














Officina come sotto-intende la parola è luogo di costruzione, di produzione manuale di oggetti, di un qualcosa che si realizza nel fare, nel comporre e scomporre, nel tenere insieme parti, elementi aleatori, in apparenza minimali o insignificanti, nel montarli tra loro fino a produrre un oggetto finito, la forma, il profilo e la struttura di un’opera; allo stesso modo la concezione della mostra monografica al Mambo di Bologna sulla vita e opere di Pasolini si vuole come montaggio di estratti e testi letterari, scene cinematografiche, fotografie, appunti inediti e manoscritti originali, infine costumi di scena che dischiudono un vero e proprio universo poetico, estetico e culturale, un percorso artistico a molteplici sfaccettature e contaminazioni tra le diverse arti e linguaggi per un artista irriducibile a semplici etichette e categorizzazioni. Nel percorso pasoliniano trapela il suo metodo di lavoro intuitivo che scorre fluidamente dalle parole alle immagini, dalla poesia, alla saggistica, al cinema o alla narrativa e delinea, nel passaggio il volto di un paese, un'Italia che si trasforma profondamente nel corso di un quarantennio accompagnando le fasi del suo lavoro.

La scelta curatoriale del Mambo sceglie di esplorare attraverso una serie di scritti e immagini filmiche e fotografiche alcuni nuclei centrali, luoghi e figure mitiche attorno a cui ruota e si costruisce, si consolida e si trasforma l’universo poetico di Pasolini dalle prime poesie in dialetto friulano, alla narrativa ambientata nelle borgate romane del sotto-proletariato urbano, al cinema di poesia e agli scritti “corsari”, alla critica della società consumista e del potere neo-capitalista, fino alle ultime opere uscite postume, il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e il romanzo incompiuto “Petrolio”. “Officina” in questo senso è anche il lascito di un’opera aperta e poliedrica che si vuole testamento per le future generazione di artisti, poeti o registi cinematografici e teatrali, fucina di idee e immagini, scritti e riflessioni critiche alle quali attingere, ispirarsi o dialetticamente mettersi in dialogo quasi proseguendo su un sentiero tracciato e lasciato aperto per un’opera come quella pasoliniana che, come sottolinea la mostra, si vuole risolutamente non-finita, o meglio dal finale aperto, in divenire, in un divenire-altro, estraneo e oltre sé stesso: altra parola, altra lingua e corpo a partire da quella . 











Il Friuli ( “Poesie a Casarsa”1942) Sequenze filmiche e immagini fotografiche a confronto

Nel corso di mezzo secolo, l’estensione temporale che ricopre l’insieme dell’esposizione, l’Italia assiste a una trasformazione profonda e radicale come se almeno due paesi e due rivoluzioni siano passate attraverso essa. Durante e nell’ immediato dopoguerra la realtà italiana della provincia friulana è ancora quella rurale di matrice contadina sprofondata nel provincialismo, legata all’impronta fascista, al retaggio clericale e ai valori nazional-popolari prodotti dalla resistenza.
Negli estratti delle immagini filmiche che documentano quest’epoca appaiono casali isolati nella campagna friulana, distese verdi e piane viste a distanza, rapide attraversate di figure femminili filmate in un paesaggio ventoso , poi nugoli di case rurali, uomini in uniforme militare fascista, coaguli di donne e madri, qualche rappresentante in tonaca della chiesa. Le immagini evocano un mondo antico, arcaico sprofondato in una dimensione meta-storica dove la vita nelle campagne è vista nel suo immobile svolgersi, in una sorta di incanto poetico o nel ricordo mitizzato dell’infanzia. Tali i temi delle prime “poesie a Casarsa” del 1942 scritte in dialetto friulano:

 “ Suona il glorie. A mia madre batte il cuore come a una bambina, e fuori il sole scalda come cinquant’anni fa, quando c’era solo Casarsa in tutto il mondo. (“Le campane del glorie”)

  “Casarsa in quel calore d’estate che non muore mai, bianco e secco come la calce la vedo qui vicina e io bambino, coi calzoni e le maglie sulla carne che mi trema[…] bruciante e grande come il mondo che ardeva a Casarsa.”(Un grappolo d’uva)


Nelle fotografie in bianco e nero della stessa epoca un villaggio si staglia visibile in lontananza dal solo campanile attraverso la campagna denudata al fondo di terreni incisi da profondi solchi e sentieri in terra  battuta imbruniti dal gelo. Ora è il fondale di un fiume con a lato un casale in pietra grezza avvolto da una vegetazione aspra e selvaggia; rami d’alberi lussureggianti si stagliano nel contro-luce d’ombra. Una strada ferrata ricoperta a tratti di neve conduce al borgo; là è a una stazione solitaria in mezzo a distese gelate mentre sentieri di terra battuta s’aprono attraverso  vigneti sconfinati e campi spogli. 


 Se questo  Friuli vive “al di là del tempo”, Casarsa è l’immersione in un mondo primitivo, epico e leggendario che diviene rifugio e totalità per il poeta, culla e sede della sua memoria anche attraverso la relazione viscerale che stabilisce al linguaggio, la koinè dialettale scelta per le poesie,  lingua materna che gli permette di accedere a questa anteriorità della parola e dell’essere attraverso la poesia. La civiltà  è quella pre-capitalistica, contadina, l’umanità vi appare incontaminata in una innocenza primordiale, il paesaggio è quello di Casarsa, la giovinezza impregnata di immobilità e senso di morte quasi in un narcisistico ripiegamento su sé stessi.
Nelle pitture ad olio del periodo giovanile  visibili alla mostra si alternano paesaggi del Tagliamento abbozzati in rapidi tratti realistici e volti dal forte eco rimbaudiano dove la figura dell' auto-ritratto appare appena accennata o disegnata in profondi chiaro-scuri: giovane poeta-Narciso in ripiegamento malinconico su sé, voyant visto in maniera ambivalente tra il lirico incanto poetico e l’atmosfera impregnata di immobilismo e nostalgica contemplazione in immobile presenza.



La figura della madre
















Le presenze femminili, la schiera di madri che popolano i film di Pasolini sono figure dell’eccesso, della dismisura di un legame indissolubile tra madre e figlio, di quell’assoluto l’amore che conduce a disperazione ed  angosciosa solitudine per il poeta: figure addolorate o straziate come il volto della madre del Cristo (interpretato da Susanna Colussi, vera madre di Pasolini) vista ai piedi della croce assistendo alla morte del Figlio agonizzante e, insieme, al compiersi ineluttabile del destino messianico del Figlio di Dio. Oppure ancora, Medea/Callas eroina tragica, maestosa e sublime insieme ripiegata sul proprio indomito abbandono , infine Anna Magnani al culmine della propria  forza espressiva in Mamma Roma o ancora Silvana Mangano, Giocasta in Edipo Re.

A partire dagli anni ‘50 Pasolini approda a Roma dopo la fuga da Casarsa entrando in contatto con i ceti del sottoproletariato urbano dove scopre la forza vitale di un mondo primitivo, disperato e vivo dal parlato gergale e violento delle borgate romane fino a farsi a tratti crudele: una classe popolare dall’identità e la storia non ancora sottomesse o contaminate dal capitalismo e dal modello borghese.Tra le immagini indimenticabili che scorrono silenziose sulle pareti dell’immensa galleria centrale del museo sono il volto della Magnani, prostituta in “Mamma Roma” donna popolare vista sullo sfondo delle borgate romane nel tentativo di riscattarsi, cambiare vita e accedere al mondo piccolo-borghese per occuparsi del figlio Ettore. Sullo sfondo della periferia urbana, ai margini della nuova realtà capitalistica in espansione la donna avanza lungo una strada costeggiata dai palazzoni bianchi e anonimi ai margini della nuova città camminando a un ritmo lento e cadenzato in lunghi piano-sequenza. Il primo piano ora è sul suo volto, figura epica e tragica insieme, moderna eroina greca dai tratti marcati nel profondo chiaro-scuro del volto che incarna insieme l’essere “minore” o minoritario di un popolo o di un gruppo, il divenire soggetto “identitario” per una sottoclasse proletaria e il pathos individuale del personaggio nell’espressionismo visivo portato agli estremi. Il suo volto nulla cela ma come un magnetico polo d’attrazione di forze uguali e contrarie che si giocano dall’intimo fino a lasciare traccia sulla sua superficie lascia trasparire, dilagare in rari momenti_ nello sguardo acceso dalla rabbia, nella lieve contrazione delle labbra, nel gesto del prendersi il volto tra le mani con disperazione_ l’ineluttabilità di un destino,  l’abbandono o l’ombra di una follia che pare sfiorarla a tratti, affacciarsi e dileguare a istanti. Quasi il personaggio femminile fosse lì a incarnare un’umanità dolente posta di fronte a un impossibile riscatto, il sogno di un’improbabile redenzione rispetto a un destino individuale e d’un intera classe proletaria.   

  















La visione della madre nel “Vangelo secondo Matteo” trafitta dal dolore ai piedi della croce e gli altri volti femminili filmati in bianco e nero nell’intenso chiaro-scuro appaiono come icone sacre rinviando ad immagini pittoriche della tradizione classica a sfondo religioso. Una galleria di ritratti vi si disegna qui dove il volto umano colto in primo piano è filmato in immagini di straordinario nitore e purezza espressiva,  come si trattasse di una serie di istantanee fotografiche  in movimento viste sullo sfondo di una Palestina primitiva e arcaica. Distese deserte e vallate aride e brulle sono filmate nell’Italia del sud, folle disperse, strade in terra battuta attraverso le quali risuona la portata rivoluzionaria del messaggio biblico: la vita, il destino, la predicazione e  la morte sulla croce del Figlio di Dio. Le immagini dall’impronta pittorica imprescindibile appaiono perlopiù avvolte nel silenzio, lasciate a un sottofondo musicale di Mozart o Bach o sullo sfondo alla predicazione messianica. I volti sono colti in tale assolutezza ed essenzialità di visione, nella peculiarità irripetibile di ciascuno d’essi: Maria giovane sposa, la madre anziana piangente ai piedi della croce, la figura eterea e diafana dell’angelo annunciatore, il gruppo dei dodici apostoli, la folla, il coro delle donne piangenti avvolte in veli neri ai piedi della croce .
Nella scena finale esse sono filmate come scia di corpi e drappi neri in lontananza attraverso il paesaggio arido spoglio dello sfondo avvicinandosi alla montagna dove si è radunata la folla, soldati e centurioni romani al momento della crocifissione. Il giovane Cristo è immobilizzato sulla croce, un grido straziante di chiodi piantati sulle mani, poi la croce è sollevata all’orizzonte in egual distanza da altre due in una distribuzione prospettica dello spazio ispirata alla tradizione pittorica rinascimentale. Dal coro dolente di figure tragiche greche inginocchiate in veli  neri ai piedi della croce  si staglia lo sguardo estatico della madre, il primo piano sul suo volto rapito  in una sorta di estasi dolorosa, nell'ultimo ricongiungimento al figlio sul punto di morte, nel pianto assente e nel pathos trattenuto in quell' estremo di figurazione di un tragico moderno.

 


Pasolini esplora nel suo cinema le intrinseche possibilità espressive dell’immagine filmica nella sua capacità di rendere visibile, di estendere in qualche modo il potenziale di visione insito nel reale attraverso un cinema che egli definisce essenzialmente  “di poesia”, dalla profonde qualità pittoriche, oniriche e immaginative e, insieme nell’imprescindibile concretezza oggettuale di una realtà intesa come sistema di segni o equivalenti visivi, deposito di materia grezza dalla quale attingere per la sua ulteriore costruzione segnica nel linguaggio cinematografico.  La realtà per Pasolini è potenziale cinematografico in natura, sistema di segni dando vita a “un’altra lingua” semioticamente connotata rispetto a quella letteraria o della prosa, rispetto ad ogni altro codice scritto o parlato perché essenzialmente fondata sull’azione o sugli oggetti di un reale divenuti metafore di sostituzione, alfabeto di un nuovo linguaggio “di poesia” rispetto a un tradizionale discorso poetico. Un mondo arcaico, antico, di ispirazione biblica, visionario nella sua essenza si disegna attraverso le immagini del “Vangelo” pasoliniano, lì appunto dove il racconto della vita di Cristo si confonde con gli stralci e gli estratti del testo originale  mentre primi piani sui volti d’una iconica bellezza si alternano a sequenze immobili di paesaggi infiniti in un'arcaica Palestina-Italia del sud.  







Nel Vangelo pasoliniano emerge il carattere rivoluzionario del messaggio cristico liberato da molte sovrastrutture dell’interpretazione ecclesiale più corrente e riportato, in qualche modo, alla forza cristallina del testo evangelico, alla figura messianica di un Cristo enunciatore della Parola; lui, portavoce della legge universale dell'amore e del perdono ma, allo stesso tempo iconoclasta e rivoluzionario nell'atto, appare come un'altra figura mitica o nucleo centrale intorno al quale ruota la poesia giovanile. 
Nel “Vangelo” pasoliniano è giustamente un Cristo -uomo , giovane e combattivo venuto a portare la spada, il fuoco e non la quiete tra gli uomini a scagliarsi violentemente contro l’ingiustizia, l’ipocrisia e il male della terra là dove il divino si incarna al più profondo dell’umano attraverso la venuta del figlio fino a raggiungere il segno del trascendente, la folgorazione divina in lui attraverso l’annuncio della Parola. La potenza del Vangelo è la forza della predicazione messianica nel film: il messaggio divino iscritto al cuore dell’umano, nel più intimo del suo corpo, risuona della sua eco in parole e silenzi propagandosi in piani sequenza di un universo primo, precedente il logos inteso come l’ordine della ragione, dunque in essenza poetico. Il sacro vi si iscrive qui nella sua portata profondamente irrazionale, inconoscibile, in quell’elemento di visionarietà, nell’intuizione del divino che si ricongiunge e interroga il mistero primo del mondo.


“ Voi udrete con le orecchie ma non intenderete, voi vedrete con gli occhi ma non comprenderete poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie, e hanno chiuso gli occhi per non vedere e per non sentire con le orecchie.”
“Voi siete il sale della terra ma se il sale diventa scipito chi gli renderà il sapore, non serve ad altro che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo, non può stare nascosta una città posta sopra un monte. Non si accende un lume per riporto sotto un moggio ma su un candelabro e fa luce a tutti quelli che sono nella casa .”
“Perciò vi dico non vi affannate per la vostra vita, per quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo per cosa vestirete. Non vale forse più la vita del nutrimento e il corpo più del vestito? Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non vi affannate dunque per il domani perché il domani avrà le sue inquietudini, basta a ciascun giorno la sua pena. Quanto stretta la porta, quanto angusta è la strada che conduce alla vita e pochi quelli che la trovano”.



Critica della modernità












 “Sabaudia” è una sorta di città fantasma fatta costruire su misura dal regime in epoca fascista nei pressi di Orte non lontano da Roma negli anni ‘20. In un documentario del 1974 intitolato  la forma della città” Pasolini filma il profilo, l’architettura, il corpo di quella città a distanza, dall’alto delle sue dune e sentieri sabbiosi e guardandola dal lato opposto della costa, dal mare e dalla macchia mediterranea nei siti disertati,attraverso le strade e gli antichi edifici imperiali di impronta fascista immersi nella grigia luce della sua storia sullo sfondo del Mediterraneo. Quell’architettura ideologizzata, quella città di stampo fascista, afferma il regista, non ha nulla di assurdo o irreale ma guardandola a distanza di tempo assume, invece, un carattere metafisico, facendo pensare alla pittura di De Chirico, e insieme realistico per le singole umanità che la abitano. “Creata dal regime non conserva nulla d'esso” afferma Pasolini se non alcune sue forme esterne e, nonostante presenti ancora oggi gli evidenti caratteri razionalistici, estetizzanti e accademici dell’epoca non trova lì la sua identità e le sue radici ma in quell’Italia precedente e  provinciale, rustica, agricola e paleo-industriale sulla quale il fascismo si era instaurato. In un momento preciso del cortometraggio Pasolini arresta il suo avanzare attraverso i sentieri sabbiosi di Sabaudia e volgendosi verso gli spettatori scaglia la sua denuncia aperta contro la nuova società edonistica e dei consumi instauratasi in Italia negli ultimi decenni sotto il segno generalizzato di un neo-capitalismo che livella tutte le differenze politiche, di classe, sociali e identitarie. Ci troviamo sempre più, afferma il regista, di fronte a un mondo alienato dalla civiltà del consumo, dal capitalismo o da una piccola-borghesia generalizzata alla quale tutte le altre classi aspirano a uniformarsi. L’Italia sta vivendo “un processo di adattamento alla sua degradazione”, alla sua inerte passività o mera accettazione dello stato di cose, del luogo comune, dell’opinione generalizzata nel lavaggio del cervello mediatico quotidiano o, ancora, in una diffusa e accettata omologazione all'abitudine di un non-pensiero corrente fino al totale azzeramento di ogni autentica cultura.

Ora succede il contrario: quell’appiattimento e acculturazione che il regime non è riuscito a ottenere il potere della società dei consumi riesce a ottenerlo perfettamente distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in differentemente. Questo il vero fascismo che sta distruggendo l’Italia”
Ancora in un altro articolo comparso sul Corriere della sera nello stesso anno Pasolini scrive: “ I ceti medi sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi sono i valori dell’ideologia edonistica e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di stampo americano. E’ stato lo stesso Potere attraverso lo sviluppo della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania di consumo, la moda, la televisione a creare tali valori gettando a mare cinicamente i valori tradizionali. L’Italia contadina, paleo-industriale è crollata, si è disfatta, non esiste più e al suo posto c’è un vuoto che aspetta solo d’essere colmato da una completa borghesizzazione”

Gli scritti giornalistici quotidiani e settimanali dal ’73 al ’75 raccolti in“ Scritti Corsari” e “Lettere Luterane” testimoniano tale radicale critica della modernità per un Pasolini osservatore attento della società contemporanea, testimone acuto e sofferente demistificatore dei processi sociali post-capitalistici, dalla corruzione della classe politica alla sua collusione con la criminalità, agli attentati terroristici  negli anni ‘70, al declino della chiesa. Estremamente rilevante risuona ancora oggi la sua critica contro l’acculturazione prodotta dalla nuova società  soprattutto rispetto alle giovani generazioni cedute alla seduzione d'una facile  riuscita, all’appiattimento conformista e a una libertà apparente o falsa concessa  al corpo e alle pratiche di vita per meglio poterlo controllare, manipolare e espropriare della sua vera libertà.







Nell’ultima sala una lunga carrellata di autori, artisti e intellettuali rende omaggio a quarant’anni dalla sua morte all’eredità lasciata da Pasolini nella sua figura di intellettuale, artista e poeta, e rispetto a un pensiero e a un’opera multipla e sfaccettata dalla quale molti sono stati influenzati, ispirati o comunque chiamati a confrontarsi.  Importante restano, oltre l’oscuro capitolo di una morte inspiegata, i segni, le tracce, i lasciti di quest’opera aperta e ancora in dialogo con le nuove generazioni. In particolare appaiono nella mostra alcune opere d’arte contemporanea ispirate  alla figura di Pasolini:  un quadro di Mario Schifano esploso in mille colori, tracce e segni impazziti nello spazio e sulla tela dove del volto trapela lo sguardo intenso, unico, serigrafato a ripetizione dal suo campo magnetico di emanazione, infine disperso attraverso le linee e le tracce colorate del piano visivo. Ancora, il volto del regista italiano entra in un dialogo immaginario con il disegno tracciato dall' iraniano Kiarostami mettendo in evidenza la tensione intellettuale su quel suo volto particolarissimo: l' “essere nel pensiero”, il coraggio della ricerca o dell’affermazione di una verità scomoda per un intellettuale ideologicamente non-allineato al sistema politico dominante, non compromesso o colliso con il potere. Ultima indimenticabile immagine resta quella della figura e della personalità magnetica di Pasolini incarnandosi idealmente nel corpo femminile libero e sovversivo della cantante  e poeta rocker Patti Smith quasi si passasse fluidamente dal maschile al femminile in una rimessa in vita, come afferma la frase a lato del ritratto,  “en vie”,  dello stesso spirito non sottomesso di pensiero e azione nel corpo di una nuova generazione.