lunedì 22 ottobre 2012

A proposito di danza e improvvisazione, Virgilio Sieni, "Alisei"( visto al festival Mantica, Cesena ottobre 2012)









Danzare in libera improvvisazione nello spazio per il coreografo Virgilio Sieni accompagnato dal contrabbassista Daniele Roccato é “spogliare il corpo di quelle pratiche che appaiono sotto il segno della danza”. “Sbrandellare con rigore il corpo fissandosi con fatica e dolore così come con leggerezza e voglia di attraversamento sul senso d'una sparizione": non mostrare, affermare o dare a vedere qualcosa per il danzatore ma, al contrario, andare verso un’esperienza di spogliazione, di attraversamento e messa a distanza. Muoversi per sparire, "divenire impercettibile nell’atto d’esserci e insieme lasciare tracce", pesare come un corpo pesa al suolo con i suoi propri passi, lasciti, orme, iscriverle come si iscrivono le proprie fragilità, come si percorrono gli antri, le pieghe interne, i risvolti oscuri, gli accidenti della propria carne. Farli pesare, manifestatamente passare dalle soglie della propria unità figurale alle vibrazioni, gli ansiti, i micro- movimenti della propria muscolatura, negli interstizi della pelle, e insieme nell'esperienza singolare d'un attraversamento, d'un  passaggio o immersione a corpo perso: essere transiti, tracciati nell'atto .
Danzare dunque diviene atto di sottrazione e di allontanamento da una soggettività o presenza abituali, ma anche da una certa abitudine al movimento, di un corpo anatomicamente costituito, pensato per parti simmetriche, ordinato secondo uno schema sensori-motore facente capo a un intelletto, infine idealmente riconducibile nel suo fare a precisi codici di “danza”.


Come appare allora il movimento in questa improvvisazione ?
Traccia d'una scrittura personalissima, spesso sgorgata dall'impulso istantaneo, il farsi imprevedibile d'un movimento di mani, piedi, il divergere improvviso di muscoli dello sterno, della schiena. Movimenti angolari degli arti, il corpo si disarticola, gli occhi sono chiusi, distanti da un reale coinvolgimento emotivo.

Sembra non riuscire ad appoggiare i piedi a terra completamente, i palmi dei piedi sono volti verso l'interno come per un impedimento ad aderire al suolo in ogni sua parte, quindi trasformando in altro modo la danza, creando a sua volta dei movimenti strani, disarticolati dove il corpo si arrabatta al suolo, poi in qualche punto si solleva, riprende quota, ritrova qualche passaggio rigoroso e geometrico, qualche passo ripreso e stravolto dal linguaggio classico, oppure ritrova la frase della variazione per ricadere a sua volta nell'inciampo, nel risvolto d'un moto decomposto in singole parti frammentato.
Forse è perché non vede, ha gli occhi chiusi, socchiusi in una forma di parziale cecità, a tratti,
a intermittenze oppure perché é preda di questi impulsi strani, divergenti che lo portano fuori, lo fanno divergere, deviare, derivare da quello che dovrebbe idealmente essere l'esito della sua frase, la risoluzione d'un moto da compiere, portare a termine, esaurire .

Danzare come fosse nell' impossibilità di vedere o a metà privato d'una reale visione ,
inciampando su sé stesso, incespicando su ostacoli immaginari, arrabattandosi sui propri piedi che non fanno presa completamente al suolo.
Danzare come fosse preda di strani impulsi disarticolanti che fanno partire braccia, torso e testa per altre direzioni.
Danzare sotto il segno d'una disarmonia voluta, nella scomposizione del movimento in singole parti: testa, sterno, collo, mani, caviglie, piedi.
L'impedimento, la condizione di non-danza come una zavorra ancorata ai suoi piedi paradossalmente creano questa altra, singolare scrittura del corpo in movimento:
danzare ad occhi chiusi, nella cecità o nel disequilibrio d’un funambolo sospeso a un filo,
danzare con i palmi dei piedi incrinati all'interno, nell'impossibilità di aderire completamente al suolo.
Danzare in ginocchio, con le gambe incrociate e come annodate tra loro trascinandosi sul pavimento,
danzare dentro, contro l'impedimento d'un tempo entropico, costringente a ridosso d'una non-danza
e, ancora, nella ripresa repentina, nel sollevamento dal suolo, nel distacco ironico, leggero da sé,
qualche volta in dialogo con la vivacità della partitura musicale ripresa dal contrabbasso in fase d'improvvisazione.

Danzare i propri impulsi discordanti, in tempi di singoli arti divergenti, nel dettaglio espressivo d'una mano, d'una testa, d'un piede, d'un bacino che parte per proprio conto.
Danzare dentro la scossa, dentro o contro la caduta, resistendo o assumendo la medesima, affondando nella memoria d'un esperienza corporea inconscia;
danzare in dialogo con un corpo mutevole, in mutazione, non-finito, mutante nelle limitazioni fisiche del suo darsi come nelle facoltà potenziali e espressive che da esso scaturiscono,
sulle soglie, negli angoli, nel risvolto interno della figura conclamata d'un sé manifesto.






Sieni a questo proposito parla di danza come d'un viaggio esperienziale, d'un cammino conoscitivo, una stratificazione della mente fino a quando non si sopraggiunge a “un'idea o un'esperienza di sbriciolamento di tutti questi apprendimenti, un dover abbandonare tutti i codici e le tecniche per trovare la sostanza originaria, la forza primaria che si annida dentro il singolo gesto. Esperienza giustamente di immersione o caduta in un corpo altro che “lentamente, nel corso del tempo ci riporta all'origine delle cose”, riconnettendoci a una memoria innata passata entro i suoi ritmi e gesti.





lunedì 8 ottobre 2012

Mosaici, mappature immaginarie, archeologie di luce ( guardando le opere di Marco de Luca, Museo d'arte di Ravenna)









Visti nell’insieme, facendosi eco l’un l’altro attraverso le pareti della galleria i mosaici di Marco de Luca rinviano a valori di trasparenza, elevazione dalla più diretta figuratività e smaterializzazione; rinviano al gioco di riverberazioni tra l’argenteo brillante, lo smeraldo vivo, il bianco perlato, il grigio oscuro, l’oro della luce riflessa e gli ocra della terra. Sono forme o superfici che de-materializzano, spostano, tolgono presenza, consistenza, figurazione; elevano, sottraggono, astraggono, assorbono verso l’assoluto d’un idea o d’un’immagine oggettivata nel bagno cromatico d’una superficie o d’una forma volumetrica rifatta a mosaico.

Rarefazione: rivelazione plastica  di un’idea o immagine, epifanica nel suo manifestarsi attraverso l’impronta lasciata dal colore o dagli effetti dalla luce sulla materia, lastra, superficie o scultura mosaicata.
L’indeterminato lasciato all’opera che, nella sua forma più nuda, più essenziale é riverbero d’una luce-colore su una superficie materica diventa, anche, la sua chiave di lettura infinita, noi che ci avviciniamo ad essa come ad una serie di schermi o piani riflettenti che s’animano, riecheggiano,  si ripercuotono o vivono attraverso la nostra esperienza sensibile- caldo, freddo, opaco, brillante, impalpabile, lieve- per effetto d’una vibrazione luminosa lì infusa, quella che emana una singola concrezione materica . 
Far vibrare, far emettere una sonorità precisa, una suggestione estetica chiara, riconoscibile, insieme diffusa e impalpabile come un’aurea da un blocco, una lastra di pietra, una scultura, dall’immersione cromatico-luminosa  d’una singola superficie e nella pura astrazione della medesima. Il tutto resta circoscritto in uno spazio geometrico rigoroso, scultura nello spazio in alcuni casi ma anche spazio-superficie piana di riassorbimento o estensione, di intarsio e intaglio di un’idea in termini di composizione per tessere e tasselli colorati. L’artista sceglie il mosaico come mezzo d’elezione proprio , non semplicemente riempitivo o decorativo ma come linguaggio a sé attraverso il quale ritrovare una forma intrinseca di temporalità, il tempo proprio  dell'opera che tende a un quid essenziale, smaterializza le figura, si affida a una presenza materica pura, al taglio dei tasselli o al loro allestimento in composizione, infine all’agente essenziale della luce sul reagente fondo-colore . Ne conseguono forme plastiche dove sculture in levità s’ergono dal suolo oppure superfici mosaicate s’animano, si scavano o si distendono auto-definendosi in concrezioni libere nello spazio.



Ascolta piove (2011)

E’ volumetria essenziale nello spazio, è parallelepipedo stagliandosi  in tridimensionalità con piani irregolari su diverse altezze, e una tessitura dorata e filamentosa addensandosi verso il basso come colata d’oro, di pioggia o di granuli lucenti. I suoi assi riflettono contro la parete oscurata del fondo come fossero profili di palazzi, sagome di tetti e comignoli irregolari di diverse altezze, concrezioni volumetriche strane che sfuggono a prima vista a un geometrismo rigoroso per frastagliarsi in ombre molteplici  contro la superficie grigia del fondo.
Tetti, forme geometriche si aprono in profondità contro la parete, sfaccettature di parallelepipedi irregolari, combinazioni di figure squadrate, tridimensionali, a multiplo incastro, scheggiate, dentellate a diverse altezze nella proiezione contro la parete creano questa sorta di panorama urbano astratto. 
Linee convergono, si sovrappongono, s'elevano, rendono frastagliato il limite ultimo dell’orizzonte aprendo la visione di uno "skyline" metropolitano  rifatto a mosaico  d’oro, d’ocra e di grigio; altre s’inabissano, temporaneamente scompaiono, sono nascoste, oscurate forse per riemergere sotto altra forma, in altra via.
Sul muro la linea del cielo metropolitano si apre in profondità come orizzonte di  tetti irregolari nei profili grigio-bianchi dei palazzi parigini. Nello spazio è l’astrazione geometrica ergendosi come un parallelepipedo in verticale contro la parete: colata d’oro e di grigio con qualche folgorazione di verde brillante  in tessera incastonata.











Sole/ Luna (2012)
                                       
Sono le due superfici uguali e contrarie dello stesso, sono i due opposti complementari mosaicati, i due volti d’un unico viso, luce e tenebre, opposizione intrinsecamente contenuta nell’uno, nella dicotomia irrisolvibile della ricomposizione d’un ego individuale. 
Sole è un lucente riflesso in mosaico, l’irradiazione dell’oro, la solarità, l’abbagliamento di filamenti vitrei e dorati.
Accecante nel controluce, impedisce di distinguere le forme a distanza, abbaglia, agisce in questa sorta di folgorazione d’oro nel suo inatteso manifestarsi.
Luna è la controparte opaca, grigio-mercurio filamentosa, cenere argentea lasciata all’oscurarsi del riflesso solare su terra. 
E’ il mondo privato della luce, della riverberazione solare , del tepore caldo che emana la sua corteccia terrestre lasciata al giorno senza più calore sulla terra, alla  nebbia oscurante, alle ceneri grigio-mercurio intensamente depositate sul fondo,  verso il fondo d’una provetta trasparente come la misura d’una malattia, come il lascito di scorie bruciate dopo la fine d’una combustione.  
Sostanza pesante, mercurio-cromo che affonda entro il vetro d’un riflesso trasparente. 
Una stessa cornice, ora la terra appare come una superficie brillante, irradiata di solarità, di guizzi e getti, di tasselli, di folgoranti tocchi d’oro e d’improvvise iridescenze, ora è lasciata all’assenza di luce, all’oscuramento quando il sole scompare d’un tratto, al grigiore che ne consegue, non spento non morto ma solo opacizzato, mercurio oscurato, coperto.
























La sposa (2008)

Rifatta a mosaico come forma concava, liscia, essenziale su un piedistallo con la sua propria ombra, bianca , d’una qualità incandescente, d’una purezza che solo l’intaglio e il lento intarsio di minuscole particelle incollate una a una in composizione può conferire. E’ alone bianco ceduto al mosaico, con la sua propria ombra rifatto in questa purezza che solo la pietra non umana, non intaccata, non contaminata può continuare a conferire. Simile a un arazzo, un selciato bianco, una distesa, un velo, un abito nuziale, qualcosa che si estende, si distende, si amplifica, assume le sue proprie sembianze sensibili come sotto l’effetto d’un respiro immenso, sconfinato; si chiarifica, trova la sua propria chiarezza, impronta di bianco candore.

Il monte ( in due versioni successive 2001/2011)

Appare nelle sembianze d’una spiaggia, d’una distesa o discesa dorata di sabbia divenuta ora mosaico con l’intarsio di detriti, conchigliette, scaglie, ora pezzetti d’osso o di legno lasciati dalla marea, frammenti di gusci, sassolini, sassi e polveri. 
Spiaggia dorata, è distesa d’oro e di conchiglie incastonate sul suo fondo contro un infrangersi grigio d’onde sul bordo. La sua superficie invoca alla corsa, alla discesa, allo scivolare d’un tappeto d’oro ai tuoi piedi. Appare in una seconda versione come un muro in mosaico dallo spessore della pietra, massa opaca ponendosi come parete invalicabile nell’alternanza tra l’oro e il grigio. Apertura, discesa, luminosità, scivolata fluida della prima versione e densità, cumulazione, barriera frontale e rocciosa nell’altra.

L’ultima luce solare riflessa dall’acqua. E’ onda o lascito grafico che si illumina contro il blu, bronzeo mosaico-fondo come una marcatura, un sigillo, una traccia scritta.
Impressione o stampa a vivo del sé sulla porosità alveolare dell’ ombrato contorno.

Crepuscolo (2009)

E’ un riflesso violaceo, porpora ora indaco, blu tenebroso fino a toccare la voluttà del nero. E' questo riflesso violaceo in multipli strati e dense sovrapposizioni dove la luce rimbalza violentemente fino a infrangersi  tra i suoi tasselli.

Campi di riso

Sono bianche e lucenti distese d’acqua; avanzano in simmetria come quadrature di terra, lentamente procedono in fuga prospettica verso il fondo. Richiamano le astrazioni liriche di Rothko, trovano una loro armonia compositiva in termini di pieni e vuoti, ora tessere di bianco e d’ambra in cumulazione dentro un riquadro ora madreperlacee bande in estensione lirica procedendo verso il fondo, verso un loro punto di fuga oltre la cornice materica, oltre il limite fisico che vediamo. Corrono verso una propria infinità cui tendono intrinsecamente  nonostante i limiti d’un piccolo quadrato, d’una precisa cornice.

Salina (liberamente suggerita dalla lastra mosaicata)

Dovevano essere delle distese d’acqua  raso il suolo, dovevano essere periodicamente allagate dalle maree, adagiate, lasciate riposare in una serie di bacini naturali, lasciate al processo d’evaporazione e precipitazione del sale . Dovevano essere attraversate da ondate lievi, doveva esserci quest’acqua, questa marea che le portava verso il largo, ampia, calma, dirompente, invadeva come le acque la terra. Doveva esserci questa corrente calma e inequivocabile verso il mare. Poi, dopo che la corrente era passata e aveva compiuto il suo corso dovevano restare questi depositi bianchi, granitici fatti di dune, montagnole, cumuli nettamente sedimentati di sale al suolo; sostanza primordiale estratta dalle acque, deposta in grani, lasciata in margine della terra per conservare, curare, purificare.


















La morte di Ofelia (2003)




E’ l’ocra dorato della terra  in propulsione da un centro esplosivo verde smeraldo-brillante che s’apre,   irradia come un’apertura, una folgore, un sorgere inattesa di luce in composizione geometrica di minuscole particelle cubiche a ripetizione. E’ questa irradiazione che parte in smeraldo dal centro e si amplifica, espandendosi in micro-settori, estesa, evolutiva come spirale degradando da un fulcro fino a smussare i contorni del verde e ricongiungersi gradualmente all’ocra del fondo.  E’ questo fulcro che divaga da centro propulsivo ed esplode, espande fino ad essere riassorbito, dissolvere in pluralità sulla base-terra.

Pensiero d’oriente (2004)

Arco absidale d’oro brillante,  converge verso un  punto smaltato nero, e riassorbe la dispersione della pluralità delle particelle, delle singole esistenze, entro l’unico, l’uno, un punto di ricongiungimento universale. E’ forse questa convergenza verso un punto di vacuità del sé, d’intuizione dell’essenza prima dell'esistente,
è forse questa trasposizione astratta d’un pensiero dell’illuminazione buddista come esperienza immediata dell’unità  nel superamento temporaneo dell’ego .   

Le mura di Atlantide (2002)

E’ muraglia che sale verso l’alto, muro di cinta, di difesa della città, sogno d’un luogo ideale, sorta di acropoli dell’antichità sopra-elevata e  d’elevazione per l’umanità. Mura si ergono verso l’alto, aspirano come questi colori turchesi, blu, grigio-argenteo brillanti, all’ascesa, all’elevazione verso una città celeste concepita in un suo proprio infinito. Sono colonne, forme verticali semplici, essenziali ricondotte alle linee della loro  interna struttura e portate da questo movimento ascensionale, d’astrazione smaterializzante verso un puro argenteo-blu spirituale.



Archeologia topografica (1986)

Terra, segni e strati sul suolo. Insediamento archeologico, pietre e massi in rilievo, scavare.
Circumnavigare un territorio: insediare, assediare, prendere sotto assedio, sedimentare e depositare strati su strati. 
Tracce scavate, incise in tasselli mosaicati affiorano in una topografia immaginaria del territorio, come stampati in rilievo, in ocra, terra e bianco, in ondulazioni, sedimenti, estensioni o ritrazioni del medesimo. 
Corrosive a tratti sui volumi o in margine intagliando i medesimi,  riconfigurano i contorni sotto l’effetto della luce, immersi nella porosità diffusa, ruvida qualche volta folgorante della sabbia tra le dita.