lunedì 29 giugno 2015

Dalla Biennale Danza a Venezia, in dialogo con due danzatrici di "Gravities", (L. Chétouanne )

ph Francesco Foschini


Si entra nella composizione coreografica di Laurent Chétouane come nel suo laboratorio in punta di piedi. Lui , minimalista, attento agli accadimenti sottili del corpo, in ascolto costante delle variazioni infinitesimali , per primo afferma di voler lasciarsi sorprendere da quello che l’essere in ascolto, in connessione al suolo, al proprio centro, alle direzioni nello spazio e all’altro producono.


Sala di prove nell’attico del conservatorio. Bisogna salire a piedi per cinque piani in questo palazzo settecentesco antico e maestoso, circondato da porticati bianchi d’ampio respiro e con due corti interne austere e solenni dove la musica risuona come un sottofondo ritmico attraverso le finestre aperte. La sala è immensa, spaziosa. Si nota un pianoforte a coda a lato, nero e brillante. Il linoleum scintillante al suolo sotto i tuoi piedi scivola perdendosi verso un proprio punto di fuga, lontano. Dalle finestre aperte, un’inondazione di luce; più tardi, sui vetri chiusi appariranno gli intarsi, gli intagli, le rifiniture di ferro che filtrano la luce opaca e le fluttuazioni acquatiche dell’atmosfera veneziana. Mi siedo a lato, aspetto, mentre le danzatrici sono distese al suolo, in attesa. D’un tratto iniziano a muoversi come nel corso d’un normale riscaldamento mentre il coreografo osserva in silenzio. Non una parola. Proseguono così per quindici, venti minuti. Non dicono nulla, sono nello spazio, abbozzano movimenti, gradualmente, quasi in punta di piedi entrano nel lavoro attraverso gesti inattesi, pause, qualche volta cadute o scivolamenti inesorabili verso il basso. Alla fine della giornata , pongo alcune domande su come si sta sviluppando il lavoro a due danzatrici.


M: “Il primo giorno abbiamo lavorato sul riscaldamento. Quando è arrivato il coreografo in sala non ha parlato. Siamo entrate, c’è stato un lungo silenzio, almeno mezz’ora. Il primo impatto è stato per noi un’ora d’angoscia pura finché Chétouane non ha aperto bocca e ha detto: “Adesso camminiamo nello spazio”.

E: “Il peso del corpo cade inesorabilmente sul pavimento e si irradia in tutte le direzioni. Da questo abbiamo cominciato a costruire. La struttura del lavoro emerge da tale condizione primordiale e semplicissima. Abbiamo passato una decina di ore a sentire il pavimento, a misurare il nostro peso su di esso.”

M: “Oggi abbiamo lavorato moltissimo sulla connessione con l’altro, con il suolo, con sé stessi anche attraverso lo sguardo. La connessione: lo stare risolutamente dentro il pavimento attraverso i tuoi piedi, su tutta la superficie del pavimento e con il pubblico, con chi ti sta dietro, d’avanti, intorno a te nello spazio, nelle quattro direzioni, perfino con il ragno che sta sul soffitto”.


Chétouane in un momento preciso del laboratorio chiede alle singole danzatrici di sentire, sperimentare lo stato d’esposizione, di nudità dell’essere dati allo sguardo esterno, del pubblico, di chi è là in sala, di me spettatrice che sono là a fissarti volutamente e senza remore, di tu che sentendoti esposto, osservato, senza barriere nell’intero tuo esserci, percepisci e ricevi quello sguardo in ogni tua parte, organicamente sul collo, le braccia, le caviglie. Lo scivolamento di me, spettatrice-osservatrice è qui inevitabile: ti vedo, sei di fronte a me nella nudità esposta del tuo sguardo, rendi visibile la tua difficoltà, il tuo imbarazzo o timidezza dell’offrirti senza schermo ma io, ora, sono trasparente di fronte a te, ugualmente, entro in connessione con te, sento a lungo il tuo sguardo su di me senza schermo. Entro nel tuo gioco, sono esposto allo stesso modo: guardandoti entro letteralmente nello spazio performativo insieme a te, sono nell’istante senza rendermene conto.

M: “La connessione è l’essere nell’istante; la percezione del tempo perde qui ogni coordinata oggettiva , un secondo può durare un’ora e un’ora del tuo stare ferma, in piedi nel lavoro può durare un minuto. Non c’è immobilità, non è mai statico neanche lo stare fermi.”


Le danzatrici si soffermano ora sulla natura del lavoro, sul tipo di linguaggio astratto e minimalista che il coreografo adotta.


E: “La performance sarà l’evoluzione di quello che stiamo facendo. Stiamo costruendo qualcosa sulla base di quello che abbiamo e di quello che sta succedendo. Non c’è un disegno già tracciato. Si è nella “motion” e per niente nell’emozione. L’aspetto emozionale traspare ma è mediato. In primo luogo il fatto di ricercare tale contatto amplificato attraverso lo sguardo è una scelta forte. Non si vuole porre l’emozione direttamente sul tavolo e dire: è questo. Non c’è la ricerca d’un contenuto che sia al di fuori dello stato del corpo.”

M: “Penso che questa astrazione si raggiunga proprio nella concretezza dell’esserci, al suolo, totalmente in quello che stai facendo . L’essere così tanto nel corpo e nello spazio non può che includere anche il tuo stato. E’ la condizione in cui il lavoro ci pone ma non è traducibile direttamente nell’intento di voler dire qualcosa.”

E: “L’essere umano è lì, presente in maniera brutale ma non è il soggetto, l’io, la persona che si esprime. Per questo è tanto più brutale perché non ti puoi aggrappare al tuo essere individuo e sei nudo, esposto totalmente, e neanche la tua individualità ti protegge, ti aiuta.”

M : “Sei tu come persona ma non sei tu dietro una maschera. In realtà il tuo corpo non può non portare anche il tuo soggetto ma non il tuo sentimento diretto. L’emozione scaturisce da una serie di incontri, di connessioni, di accadimenti, non è a priori”.

Lo spazio immenso particolarissimo, austero, e vuoto della sala entra, infine, inevitabilmente nella costruzione della performance come sottolinea una delle danzatrici.
E: “ Bisogna guardare lo spazio, lasciarlo parlare, questo luogo ispira una sorta di rispetto sacro. Dall’alto del quinto piano si ha la vista immensa su tutta la città, maestosa e insieme spirituale, nella sala entrando si nota subito il pianoforte nero scintillante a lato.”

M: “Il mio posto speciale a Venezia è un campiello, non so come si chiama, andando verso piazzale Roma. Quando sono arrivata qui pioveva, non c’era nessuno. C’è una chiesa che assomiglia a Ara Coeli a Roma e un pozzo al centro. L’atmosfera è nitida, lineare e meravigliosa come in questa sala, come il respiro da cui trae ispirazione questo lavoro”.