lunedì 29 dicembre 2014

"Freezing painting", Lawrence Carroll ( esposizione al Mambo di Bologna e video on line)


Lawrence Carroll: "Ho conservato quest’idea per molti anni, l’idea di gelare qualcosa e tenerlo sospeso per un momento, con la possibilità che potesse riscendere e tornare  alla vita, differentemente, ancora una volta".



  Una tela distesa e' lasciata immergersi dentro questo bacino o cornice d’acqua raggelante al tatto (  prodotta da un meccanismo di raffreddamento posto sotto la medesima che a poco a poco la immerge in una massa incredibile d'acqua e la ricopre d'una pesante lastra di ghiaccio solida, sospesa per un tempo indeterminato, mantenuta in questa metamorfosi raggelante dell'acqua dal dispositivo di refrigeramento in atto.)


Bianco monocromo in strati successivi di pittura ad olio e cera su legno, la tela ricoperta di ghiaccio lascia trasparire tracce e aloni dove l’acqua s'addensa e solidifica a macchia, a coagulo, a nucleo aggrumante o in zone di livore dissecate dal gelo come bruciature d’un tempo  antico.


“Off-white colour", per Carroll "neutro non-colore portatore di memorie", il bianco intonaco sulla tela nelle sue molteplici sovrapposizioni dà all’artista la possibilità di azzerare  e sommare strato su strato, di coprire e lasciar trasparire, di sospendere nella glaciazione indeterminata e dissolvere allo stesso tempo la medesima perpetuandone, sommersa e velata, la sua  trama di vita. Nel video che filma la creazione dell'opera,  mani si immergono in quella vasca, divengono della patina assiderante dei ghiacci artici. Carroll evoca qui le idee di genesi e glaciazione: tenere qualcosa immobilizzato in una luce addensante e opaca, soffusa d’un livore come di bruciature di gelo, tenerlo sospeso per un tempo indefinito con la possibilità che possa tornare allo stadio precedente, e, ancora prima, più indietro, a uno stadio originario di creazione; quasi si volesse ripercorrere a ritroso dalla genesi d’una prima età glaciale sulla terra il processo inverso di  sommovimento degli oceani e delle masse solide nelle interne circonvoluzioni e spostamenti dei pianeti, nei grandi cambiamenti climatici, in un bagno di fuoco e  lava magmatica che come per i grandi cataclismi sopraggiunse nel passaggio da un'era all'altra sulla terra. In fasi alterne e cicliche lì a costituire e liquefare i blocchi antartici millenari fino a trasformare completamente il paesaggio terrestre esistente.





Le mani dell’artista si immergono nella coltre ghiacciata sovrastante la tela, muovono queste acque raggelanti al tatto fino al loro trasmutarsi in corpo e alone di ghiaccio con zone di intensificazione o slittamento dove l’acqua scivola in rigagnoli sotterranei, in trame intessute sulla superficie assiderante d'una tela-ragnatela monocroma.




Goccia a goccia ora si muove sul fondo dell’immagine-video oscurata: piccole gocce d'acqua all’ improvviso tintinnano nell’oscurità divendo tic-tac, coaguli di pioggia appena udibile, gocce cedute alla pioggia, rimbalzo d'un battito ritmico, regolare e appena accennato al suolo. Un gorgoglio d’acqua scorre e si ode divenire più chiaro, forte e nitido attraverso la corteccia immobile e spessa del ghiaccio, partendo da una fessura, da una zona di cedimento appena visibile della medesima, di lacerazione dove la pioggia si insinua e compie lentamente, il suo lavorio lento e graduale di liquefazione, di dissolvimento dei solidi raggelanti .

Acqua sgorgante, spring water,  fonte di vita appare come un piccolo gorgoglio zampillante verso l’alto nell’oscurità.  Mani si snodano da quella vasca immobile, articolazioni cominciano  a muoversi, a far saltare in aria i gettiti d'acqua zampillanti di vita. Battito di gocce nell’oscurità, primi passi di qualcosa che si muove, non visto, appena udibile, vagamente tintinnante e incerto nel buio all'albore di un suo nascere o al momento di un suo ritorno alla vita.






lunedì 8 dicembre 2014

"Veramente" in immagini, sulla fotografia di Guido Guidi, ( esposizione al MAR, Ravenna, )



































Fotografare “veramente”, dal titolo della retrospettiva al MAR di Ravenna, è per Guido Guidi quel momento brevissimo in cui “ tra le infinite possibilità offerte dai luoghi marginali si rende visibile l’immagine”, là nella sua radicalità di visione, in quel vedere che diviene anche un soffermarsi, continuare a guardare, fermarsi per vedere veramente “ là dove pensiamo non ci sia nulla da vedere”. L’immagine d’apertura della mostra nella sua semplicità e nitore sorprendenti giunge a noi, implicitamente, come una prima dichiarazione d’estetica del fotografo: “rendere visibile” dalle periferie urbane, dai bordi e i luoghi liminali, fotografare “veramente” come tracciare un punto su una linea, il segno d’una parola nuda giunta lì a graffiare per caso una parete di cemento grezzo o una pagina scritta. “Veramente” : una parola che usiamo quotidianamente, senza prestarvi troppa importanza, scorta lì su quel muro, a lei sola in una sorta di rilievo di luce che la chiarifica e la intaglia dal contorno di lamiera e cemento del fondo. In quel vedere, contemplare, mettere in luce, rendere apparente là dove apparentemente non c’era nulla di interessante da fotografare. Il portone d’un capanno a scanalature profonde e cementificate, una lamiera e una barra in acciaio che la attraversa appare a metà rischiarata da questa fonte di luce esterna, sconosciuta, che arriva da una direzione trasversale come aprendo a una chiarificazione intima dello spazio dell’oggetto e del paesaggio sullo sfondo. Tracce o segni della realtà in tali rivelanti istantanee divengono vie d’accesso privilegiate a un altro modo di guardare, punti in cui l’epidermide opaca, quotidiana di realtà comincia a vibrare, rinviare il proprio eco, rispondere in qualche modo come superficie foto-sensibile all’immagine.

Vedere dal vero e vedere “veramente”, vedere in questa veridicità in cui le cose, gli indici di presenza, i segni più banali del linguaggio si rivelano a noi d’ un tratto;
vedere attraverso quella superficie opaca , in controluce al reale , in una sorta di radiografia intorno o in prossimità alle cose.
Vedere nelle loro pieghe più interne o sui loro bordi, esattamente in quei margini residuali della nostra esperienza o percezione del mondo. Le fotografie sono qui un invito a pensare attraverso le immagini, a soffermarsi, contemplare ed attendere che quella superficie sensibile vibri, parli, ci parli, ad attendersi qualcosa da quella epidermide del mondo oltre le sue semplici pretese referenziali. Ad attendersi all’avvenimento casuale, estemporaneo o non previsto, per sua natura alchemico dell’immagine.







Le “Vedute” in bianco e nero degli anni settanta dominano come paesaggi statici immersi nell’immobilità, in un realismo tendente all’astrazione di forme e linee essenziali congelate quasi in istantanee fotografiche abitate da un tangibile svuotamento di presenza dove di tanto in tanto sembra baluginare o affacciarsi qualche rara alchimia di luce. Sono forme cubiche o squadrate di edifici resi all’essenzialità astratta dei loro contorni oppure sequenze d’una stessa immagine ripetute quasi identiche con minime variazioni nel tempo, infine le opposizioni nette tra la luce e l'oscurità , l’offuscamento e la chiarificazione di visione, il nitore del bianco e l’abisso del nero cupo o del grigio diffuso. Vedute in periferia sono essenzialmente simulacri d’una realtà svuotata, inesistente in sé stessa dove baluginano di tanto in tanto rare, inattese rivelazioni d’intangibile.


Case isolate nella campagna cesenate o ai bordi dei centri urbani appaiono come facciate di edifici nitidi ed essenziali dove le barriere di ferro in esterno divengono una serie di cornici bianche e vuote, di porte a ripetizione innestate su una luce fredda, a neon distanziante . Ancora una volta riquadri, inquadrature, lenti di ingrandimento sono gettate su una realtà che vuole essere compresa prima che mostrata dal fotografo, interrogata prima che fissata in una singola immagine, messa a nudo e ridefinita costantemente attraverso lo sguardo della camera. Bianca vernice contro il grigio fondo allo stesso modo ricompare in altre fotografie di finestre con tapparelle abbassate che, semi-aperte sull’esterno, evocano bandiere oscillanti su uno statico grigio, bianchi baluardi di salvezza contro una bruma circostante e diffusa. Gli spazi fotografati sono, in queste immagini, per lo più sbarramenti, case-sepolcri con auto parcheggiate di fronte, capanni da pesca segnati da croci sopra, cespugli intagliati come blocchi di cemento su giardini chiusi all’interno da altre mura, forme massicce e spigolose, un volto occultato dal fumo d’una pipa. Rigorosamente in bianco e in nero misurano in qualche modo la relazione o meglio la distanza tra l’individuo e lo spazio codificato del suo quotidiano qui svuotato d’ogni funzionalità, reso bordo o preso come punto di fuga dal fotografabile.

Masse fumose di cespugli aprono da una finestra in sequenza su un luogo affollato d’una densità boschiva simile a nebbia; qui, fili quasi invisibili di cavi divengono ricettori verso l’esterno tracciando una linea di confine sottile quanto netta attraverso cui uno spazio occultato, reso irriconoscibile dal luogo comune, è volutamente riportato all'incerto, al non localizzabile, non fotografabile.







Una parete di pietra massiccia frontalmente in uno scorcio in primissimo piano nel profondo chiaroscuro, un’auto nera parcheggiata di fronte. All’altezza dello sguardo un’insegna si staglia, nitida, l’iscrizione “gelati” a grandi lettere è incisa, deposta sul cemento a secco della parete-sbarramento. In lontananza il mare è punto di fuga disgiunto dallo sguardo, linea di confine perdendosi all’orizzonte, baluardo di salvezza a ridosso della terra ferma, ultima stazione o fermo posta del mondo prima di lasciarsi ingurgitare dal nulla.
Le immagini, afferma Guidi, "accadono dopo lunghe estenuanti pose, indefinite attese", necessitano di pause interminabili restandoli’ posizionati per ore di fronte a un treppiede; arrivano pesanti come piombo, pensanti, grevi e immobili come nebbia che sedimenta in quel paesaggio d’antiche paludi per volgersi in blocchi di cemento squadrati come solidi geometrici, volutamente tracciati in linee di confine o di sbarramento senz’ ironia, senz’anima. Volutamente sono riprese in punti di vista inusuali che tagliano parti delle loro forme o la decentrano quando si guarda, per esempio, un edificio dai suoi angoli, dalle sue linee di cesura sull’esterno, quando si inquadra una finestra come un puro rettangolo di oscurità, di grigiore diffuso o di chiarificazione improvvisa della luce.



Cesena, 1970

Le sequenze sono fasi d’un processo mentale reso visibile come attraverso una matita tracciando una serie di tratti consecutivi, frames d’una sequenza filmica resa statica, congelata nel tempo e fissata su tre momenti precisi, in tre istantanee d’una serie. Un ritratto d’un bianco e nero antico, un volto austero, possente di madre-matrona come d’una figura arcaica, rimanda lontano nel tempo a qualche nume tutelare della dimora accanto al volto incorniciato d’un santo sullo sfondo d’una stanza svuotata. Il rigore delle linee austere disegnate da una cassettiera nera dove la foto è posta rifrangono al riverbero del cerchio di luce pallido sul muro spoglio, una lampada a neon appesa al soffitto. L’immagine nel fare sequenziale si cerca, ricerca l’evento dell’apparire nella ripetizione differita nel tempo, forse nell’effetto d’eco tra le due, quasi identiche. Nella seconda il luogo diviene ancora più immerso in questa atmosfera austera, religiosa, quasi sepolcrale, impregnata in un silenzio in cui il ritratto è sempre più assimilato a un simulacro sacro.






















Ronta
























Siamo nel contrasto tra la nebbia d’una realtà che si perde, si schiarisce ma anche si copre di indeterminato come d’una vaga foschia bianca e dissimulante e il varco d’una finestra-schermo dell’anima che diviene sempre più luogo d'un sedimentarsi e intensificare delle tonalità e del fulcro del nero. Ora la finestra appare nel cerchio disegnato dalla lente d’una telecamera, d’un riflettore o d’un occhio che guarda proiettandosi sul fondale d’una parete neutrale. La visione si rischiara, si irradia d’una fonte di luminosità filtrata e distante, opacizzata tuttavia dal biancore del luogo. In una foto successiva la soglia d’una casa vuota sul fondo asettico, neutrale d’un grigio intermedio è vista attraverso una serie di porte, aperture o varchi luminosi che con le loro fonti di luce arrivano e trasformano quell’ambiente inumano e vuoto. Trasversale, il passaggio di luce arriva da una porta aperta lateralmente, attraversa il corridoio raggiungendo una finestra che si intravvede sul fondo dell’ultima stanza mentre tutto il paesaggio appare cerchiato da una lente di ingrandimento fotografico.

Per Guidi l’immagine non è mai un discorso immutabile e pre-esistente rispetto a una realtà oggettivamente, neutralmente data ma, invece, un processo seriale, un lavoro in divenire dove la visione si cerca e si rende permeabile all’esistenza delle cose, aderisce ad esse partendo da un 'non sapere' dello sguardo gettato su quelle, infine risponde a una necessità di pensiero, di comprensione, di decifrazione d’un mondo reso volutamente opaco. Un’inquadratura errante avanza su questo spazio incerto in pose ripetute attraverso scatti consecutivi che nella serie fotografica si oppongono all’estetica del “momento decisivo”. Spesso le immagini appaiono inquadrate o viste attraverso lenti circolari evocando l’occhio che guarda o la presenza d’un obbiettivo puntato su una realtà mai trasparente e neutrale ma invece posta dentro un cerchio chiarificante o nell’ombra di un negativo, soggetta, anche, a intangibili apparizioni. E’ la luce più spesso che si fa veicolo di questo elemento di incommensurabilità attraverso l’immagine perché attraverso quella l’invisibile entra nel regno del visibile e si incarna nella forma fotografica. E, ancora, è la sequenza fotografica attraverso la ripetizione seriale uno dei modi in cui questa fessura o alchimia dall’invisibile si insinua nella rappresentazione. Perché fa della fotografia un percorso nell’incertezza, un cammino fatto di decisioni momentanee, d’una serie di passi o scatti successivi e virtualmente possibili per approdare alla serie finale delle immagini.




Preganziol”, in questo senso appare come una sequenza filmica di fotogrammi mostrati come le fasi d’un processo percettivo ricostruito scomponendo la veduta finale. La stanza d’un capanno abbandonato dando su un giardino è fotografata nell’estrema sobrietà della cornice: pavimenti in terra battuta, muri nudi, chiara e slavata vegetazione in esterno. La luce entra da una finestra ad angolo creando questo varco luminoso e trasversale che trapassa, travalica e entrando si disegna prima appena percettibile come un raggio che chiarifica, poi si espande in una sezione di piramide tridimensionale lungo tutta la lunghezza del suo asse divenendo schermo riflettente sul quale un tronco e passaggi d’alberi dall’esterno si proiettano. L’immagine riflessa si impone, crea in sé una visione, nell’equilibrio perfetto tra le linee dello spazio all’interno e la percezione esterna. Arriva come un’apertura, l’imporsi d’un quid essenziale che rompe l’andamento lineare dello spazio creando l’interferenza d’ un varco luminoso, significante e poetico. Lì in quello schermo solitario attraverso la luce che si proietta, si iscrive il passaggio del tempo, lo scorrere delle ore, il riverbero dal mondo di fuori nella proiezione sul muro.



Pinarella, "dune dando accesso al mare".

La serialità con cui le vedute si presentano porta l’estetica di Guidi fuori dal “momento decisivo” della fotografia e ne fa gesto immediato, provvisorio e aperto a simultanee ripetizioni come una serie di tentativi, il ripetersi di scatti fotografici su una superficie fotosensibile che ogni volta “darà a vedere”, si imprimerà come negativo su stampa fotografica in maniera similare eppure mai identica a sé stessa. Qualcosa si ripercuote, vibra e si trasforma impercettibilmente da un’ immagine all’altra in una serialità obbligata, in una continuità, in un rapporto temporale, quasi filmico dell’immagine in movimento nella sequenza.

Sono dune nel passaggio verso l’aperto del mare, improntate su un sentiero che porta verso l’ orizzonte illimitato, infinito delle acque. Il passaggio è segnato da un’infinità di passi, solchi, impronte e buchi al suolo in ascesa verso la cima della duna. Ora persone in lontananza attraversano l’immagine avendo percorso quel cammino. Sono là di fronte al mare in contemplazione.
La scena si svuota ulteriormente; è completamente calma, chiara e vista a distanza come attraverso un filtro attenuante, più luminosa, vagamente irradiata di luce.

Poi un baluardo sulla linea dell’orizzonte trapela, in fondo al mare come un punto focale verso il quale lo sguardo corre travalicando l’infinità di impronte, segni, solchi e tracce rimaste al suolo nel loro temporaneo iscriversi ed essere sommerse, ricoperte da altri strati nel tempo e nelle evenienze.



In-between cities









 Dalla fine degli anni sessanta compaiono le pellicole a colori di grande formato riprese con estrema semplicità quasi come si trattasse di piccole istantanee. Sono perlopiù spazi marginali, periferie urbane, zone industriali che decentralizzano lo sguardo dai punti focali delle nostre società, dai luoghi di potere, dai centri storici, dal sensazionalismo dei più diffusi target fotografici. L’immagina ancora una volta si situa in questo atto di chiarificazione o comprensione profonda del reale, nell’esperienza diretta dei luoghi e delle cose in un guardare e riguardare, soffermarsi e pensare attraverso la fotografia partendo da paesaggi presi volutamente come linee di fuga, spazi di mezzo erranti allo sguardo: non-luoghi sintomatici del nostro contemporaneo.

Zona industriale di Ravenna: intonaci e scrostamenti di colore colanti rivelano gli strati antichi di ruggine e vernici sulle pareti dei container; scorci di pareti esterne di navi in ferro e rame compaiono, rosso e nero su ventri e corazze di grandi imbarcazioni da trasporto merci. Montagne di sabbia, dune di terra fine e ghiaia bianca in depositi ammonticchiati ricoprono e poi svelano nella serie il fondale nero-lucido gocciolante di rosso sanguineo e ruggine. Ci sono, ancora, vedute di parti o scorci a raso di realtà, ravvicinate, trasversali o ritagliate di capannoni industriali in legno e lamiere, di depositi merci, di container, tanks e edifici-magazzini murati a secco. Sono pareti in lamiera, sentieri in terra battuta con taniche luccicanti e scorie che conducono ai depositi merci, e ancora, ferraglie, fili, pezzi di vetro rotti di vetrerie e depositi, collage multiformi e intagli di colore d’ “oggetti trovati” a riempire le superfici in rilievo della nostra realtà.

Polonia 1994





L’Europa dell’est prima della caduta del muro di Berlino all’epoca degli stati socialisti sovietici. Architetture senza volto, squadrate, massicce e funzionali al regime dominano al centro delle immagini. Sono case popolari come colonne di cemento massificate ergendosi verso l’alto verticali e anonime, ripartite in griglie regolari, in file di finestre neutrali, improntate sulla durezza del cemento grezzo: architetture rese funzionali sul modello centralizzato d’uno stato-regime dove l’entità del singolo scompare. Bambini in esterno giocano a calcio sull’erba tra il cemento. Le forme cubiche, neutrali e senz’anima degli edifici si ergono contro le presenze animate, sonore, vibranti di colore nella corsa, in movimento, nel gioco di ragazzini in strada contro la miseria e freddezza che li circonda.


Gli interni indigenti degli appartamenti sono visti in sterile igiene, nel nitore d’una asettica, fredda miseria. In questa Polonia comunista affiliata al regime sovietico le fotografie di Guidi si situano ai bordi d’uno stato centralizzato e dittatoriale, si situano in prossimità delle cose; guardano i paesaggi del quotidiano  dandone, quasi, una radiografia silenziosa in controluce fatta di grigi-opaco cemento, di finestre squadrate, d’auto parcheggiate di fronte a solidi geometrici di case, d’una patina raggelante di silenzio e immobilità. Nell’assimilazione silenziosa al regime gli individui, in assenza d’ogni segno d’umanità, appaiono oggettivati come parti di un meccanismo in bar squallidi, svuotati d’ogni merce e vetri rotti a terra ricoprendoli di polveri e detriti.


Cesena, cinque foto in sequenza 




Un ponte cementificato, possente nelle sue basi a vista sovrasta un corso d’acqua, immenso nello scorrimento, nel passaggio delle acque; a distanza sono i suoi argini fangosi ricoperti di melma e arbusti, fanghiglia e terra intrisa d’ acqua stagnante che prosciuga a poco a poco per diventare pianura verdeggiante e campi coltivati. Un varco di luce si disegna attraverso il fluire delle acque, espande e si amplifica ad ampio raggio come scia luminosa d’un tratto risplendente nell’oscurità. Punta di cometa o forma geometrica impadronendosi dello sguardo la scia è sentiero aperto indicando una direzione, verde terra su acqua stagnante che al riverbero della luce si irradia, si desta alla vita per nuovamente ritornare al suo immobilismo di palude di melma e tronchi. Lascia dietro a sé un letto di fiume fangoso e denso, opaco e pieno della sua massa sommersa di scorie mercurio-argentee degradando lentamente sugli argini prima di tramutarsi in terra ferma. Traslucida al passaggio della luce l'acqua rifletteva luminescente, cambiava completamente tonalità, si rivelava altra quando attraversata da questa scia espansa e luminosa, manifestazione d'intangibile, traccia di vibrazione del respiro cosmico sulla distesa immobile del canale.





















venerdì 21 novembre 2014

Immagini-tempo tra icone classiche e versioni contemporanee (da "Iconoclassica" di Francesco Petrosillo, Ravenna, Cantine Rava)











L’immagine contemporanea sorge al centro nevralgico dell’ iconografia Rinascimentale nella mostra di Francesco Petrosillo ispirata a soggetti sacri appartenenti nell’immaginario classico, tali la “cacciata dall’Eden”, la Crocifissione”, le varie rappresentazioni dell’arcangelo Michele, il S. Sebastiano. L’opera contemporanea nella sua rielaborazione grafica in pittura digitale partendo dai medesimi dipinti si pone in continuità o in opposizione, in rottura voluta rispetto alla precedente rappresentazione, in sovrapposizione all’originale o nella creazione d’una nuova immagine data per sintesi e stratificazione di segni dal presente al passato, spesso in una rilettura distanziante e ironica, dissacratoria rispetto alla pittura classica. In quali termini, potremo chiederci, entrano in dialogo due temporalità, due volti, uno storico e uno iconografico o immaginativo, come si trasforma l’immagine iconografica, di quali sovra-sensi si carica, in quali termini parla a noi oggi differentemente nella sua veste contemporanea? Cosa diventerebbe una Crocifissione nel nostro presente, oppure come visualizzare i “sette peccati capitali” divenuti soggetto di sette maschere iconografiche ricreate in versione digitale?

L’immagine visiva può essere pensata come “un punto su una linea[1]”, ciò che produce diffrazione, rottura, “apparizione” nel presente di un evento, qualcosa che sopraggiunge e si sovrappone al corso storico dell’iconografia classica e ne interrompe il tratto, ne dissolve il contorno per dare adito a nuova emergenza nella piega, nel risvolto interno che s’apre tra percezione o reminiscenza individuale e memoria storica o figurativa, tra un segno in divenire e l’iconografia originaria, fondante della nostra tradizione pittorica sedimentata da secoli. L’apparire dell’immagine digitale, il presente del suo evento produce l’“effetto anacronistico”[2]di un’epoca su un’altra, di un presente che percorre a ritroso quell’ordine storico e vi si sovrappone, vi si stratifica in senso atemporale, quasi in un contro-tempo che traversa e si impone al tempo cronologico della storia ma vive nell’attualità di qualcosa che ancora si ripete, si rinnova e ritorna dal passato al presente differentemente.
L’immagine visiva generata dall’intreccio di due temporalità eterogenee vive anche nel carattere psichico di tale emergenza: è “immagine-sintomo”[3] che irrompe sulla superficie della pittura, del ritratto o della rappresentazione e, giacendo in latenza, si ripete nell’insorgenza d’una nuova immagine- è l’elemento latente per sua natura psichica che si ripresenta nella memoria storica e individuale. Perché, là dove l’unità figurativa nella storia della rappresentazione occidentale appare infranta e frantumata in un caleidoscopio di segni e immagini sfaccettate e sovrapposte, contraddittorie e coesistenti una nuova visione sorge dove si incrociano il tempo cronologico passato, gli strati di memoria involontaria, l’attualità del presente, la latenza d’un inconscio desiderante, i salti nel tempo e l’eco dell’origine. Operazione di montaggio, dunque, intrinseco e inconsapevole nella sintesi d’una nuova visione : dissociazione preliminare di elementi della pittura originale ricondotti a precisi significanti, coesistenza del segno antico e di quello contemporaneo, sovrapposizione o sostituzione dell’uno all’altro, infine l’intersecarsi degli elementi figurativi e simbolici attraverso la rielaborazione digitale delle immagini.

Emblematica è per esempio la serie di Petrosillo ispirata ai sette vizi capitali, invidia, ira, avarizia, lussuria, accidia ecc, ricreata a partire da iconografie rinascimentali più o meno note dell’Arcangelo Michele visto classicamente della lotta contro il maligno personificato in diverse incarnazioni di satana. Nella serie l’arcangelo resta come sfondo icastico a maschere svuotate e impersonali che sovrappongono citazioni dell’antico a oggetti simbolici o nuovi apporti grafici di immagini del contemporaneo giungendo a una personificazione astratta e soggettiva del male esemplificata dai sette vizi capitali.

Sono, dunque, sette volti pensati per profetizzare i mali della nostra epoca attraverso icone astratte e atemporali partendo dall’iconografia classica e de-territorializzando la medesima.





L’avarizia  (da “S. Michel terassant Satan” XVIII  di Pierre Alexandre Tardieu, ).



Visibile la figura dell’Arcangelo in controluce alla maschera a pittura digitale su poliestere e carta. Il volto coperto da banconote d’oro e ocra, rilucente d’usura, usurate d’uso, le ali del S. Michele imponenti e intempestive, la spada brandita con la mano destra sovrastano e schiacciano satana divenuto abbozzo informe d’un verde mercurio rilucente nell’effetto satinato del digitale. Dell’icona originale oscurata e astratta permane il precipitare guerriero, vendicatore dell’angelo, la potenza del momento, l’apparire estemporaneo del medesimo nell’atto di trafiggere, immobilizzare, atterrare il dragone, il piede sinistro possente sul petto di lui. L’icona sacra proiettata sul fondo svuotato della maschera astratta come profilo icastico e percuotente getta a terra, ugualmente, il demone della cupidigia, dell’avidità, del dio denaro luccicante in banconote d’oro e di dollari dispiegati. Appare a sua volta sovrastato da insetti personificati in nugoli violacei che evocano sintomatici il segno epidermico del male diffuso sulla terra ma, anche, la bassezza della loro natura ridotta a un pugno mosche. La scintillante verde icona del fustigatore, del santo e della creatura alata si sovrappone riconoscibile e minacciosa nel controluce-sfondo della maschera dorata, contro il demone del potere e della cupidigia nel duplice senso di avidità di denaro e dell’avarizia come eccessivo attaccamento ad esso.

Sullo sfondo appena visibile di un pendolo battendo le ore al contrario, contro la carta da parati di banconote ingiallite dall’uso e le pareti di edifici impregnati d’una patina satura di fumi e esalazioni tossiche, l’avarizia appare come ritenzione, non dono, ritegno eccessivo del denaro, di sé o del proprio sentire, percepire attraverso la materia del mondo. Avarizia di sé, del proprio tempo, del fare dono, di ciò che si lesina da sé agli altri. E’ ritrarsi, trattenersi, ritenere anziché portare fuori: non offrire, non aprire i propri involucri chiusi, le proprie scatole ermeticamente sigillate di cuore e intelletto, trattenere anziché dare nella gratuità del dono. Ritorcere su sé, essere avari di sé all’altro, al mondo, al creato. Sotterrare talenti anziché farli crescere e moltiplicare in frutti e raccolti.


L’ira


L’arcangelo Michele in una tela del XVIII secolo con le sue bianche braccia alate nella pittura di Giacomo Zampa schiaccia la testa del demonio incarnazione del male sulla terra; l’arcangelo combattente è visto sul punto di trafiggerlo, nell’atto di dominarlo, la spada o la lancia alla mano. L’ira è maschera rosso fuoco frammista a fiamme che come vampate salgono fino a pupille cieche e brucianti di sdegno. La creatura alata è visibile, icastica, stagliata nel controluce di un verde scintillante e smeraldo sul fondo iconico della maschera neutra. Traslucidi, digitali rossi purpurei, effetti elettrici, divampanti in fiammate sul volto dagli occhi svuotati e riempiti d’ira. Ermetici elmetti militari lì disegnati figurano simbolicamente la guerra come segno d’un un riversarsi anonimo d’odio e violenza incondizionata in una coazione a ripetere, in un imporsi di meccanismi di sopraffazione e dominio per chi detiene potere, di reazione violenta e vendetta fino alla distruzione o auto-distruzione in risposta per interi popoli.

La rabbia sale come il divampare di rosse fiamme frammiste a gialli accesi, elettrici, su un manto traslucido, porpora, ora purpureo d’ira come nell’impulso rabbioso, violento e distruttivo, poi nella reazione a catena dell’odio e della vendetta. Bruciare nell’inferno della propria ira, ceduti al proprio inferno interiore figurato in teschi di morte e spettri di consapevolezza mentre l’effetto grafico della pittura digitale dissolve la linea neutrale e astratta del contorno in dissimulazione voluta del medesimo, in ritornelli e contro-ritornelli di tonalità cromatiche , nell’aprirsi di un abisso di varchi, onde e linee conflittuali.








L'accidia 


Volto immobile, statico non attraversato da alcun moto di fluttuazione della linea o del colore. Tale paesaggio immobile, malinconico e disincantato incarna l’astenia del sentire, dell’agire, l’indolenza al vivere quotidiano, l’inerzia infine come disillusione  e non volontà all’azione, alla trasformazione dell’ individuo in una società. La maschera è abitata da grandi occhi cerchiati, da lenti espanse che ne inquadrano la gravità, la seriosità, l’opaca permanenza. Tonalità fredde, spente degradano in sfumature del blu e del viola, del cobalto e dell’indaco, nel languire dei sensi, dell’anima alla vita, della forza o del fluido vitale nell’intero essere. Acciaio e ceruleo profondo, lo sfondo è attraversato da intagli di un viola luminescente al riapparire dell’icona astratta dell’angelo in un tempo immoto nello scorrere delle ore. L’icona sacra ancora una volta è vista affossare il demone interno dell’inerzia quanto il dragone infernale visualizzato all’esterno in questa figura in dissoluzione, soggetta a un’azione iconoclasta per eccellenza, fatta precipitare, sprofondare nell’abisso infernale al dissolvere delle proprie linee, del contorno del proprio volto nell’oscurità pervasiva sottostante.   Nello stesso dipinto di Domenico Tasselli S. Michele Arcangelo è visto come giovane nobile alato vestito d’ una tunica e mantello del cinquecento ricordando un centurione romano, ai piedi i gambali di pelle e i sandali di cuoio nell’atto di immobilizza la testa di  Lucifero con il piede e la spada al centro del suo petto . Nella maschera l’accidia ritorna sullo sfondo dell’arcangelo in controluce con la freddezza spenta dell’indaco argenteo e cinereo misurato attraverso immobili lancette nella gravità di un tempo immoto su grandi occhi incorniciati in primo piano. Pupille d’un anonimo sguardo come cerchi concentrici, egocentrici e logici, misurano circonferenze ineluttabili dentro occhi incorniciati da lenti  amplificanti. Geometrismo dello sguardo, del pensiero, astenia dei sensi, assenza di tonalità calde, solari qui evocano il ricadere su sé stessi, l’aridità dell’abisso dove una razionalità cieca e fine a se stessa fa precipitare. In un deserto di colori spenti in tonalità degradanti di un blu malinconico grandi occhi inquadrati studiano, raziocinano, misurano ogni cosa in forme finite, in quadrature geometriche, in cornici regolari e ciniche dell’esistenza vissuta dove non c’è spazio per la luminosità calda, la vitalità creatrice dell’esistenza. 





L’invidia ha il volto anonimo, svuotato di grandi occhi ciechi, oscurati dalla sua stessa presenza; la maschera ancora una volta nella tonalità d’un rosso vivo fin a toccare il magenta si carica d’un riflesso elettrico ed è vista in controluce al profilo d’acciaio sagomato del fustigatore discendendo violentemente dall’alto con la spada in gesto perentorio. Circondata di insetti  che erodono il contorno del suo volto e affollano la sua testa essa appare visivamente tratteggiata da forbici nell’intaglio della linea esterna. Gli stessi insetti ricompaiono negli occhi vuoti, oscuranti come vermi che divorano e pietrificano il volto nell’atto del guardare. E’ la che si insinua nell’immagine il demone dell’invidia, nello sguardo cieco e riempito di malanimo sull’altro,  nel desiderio di possedere ciò che egli possiede, nell’atto bramoso d’un gettare il proprio sguardo ciecamente e con cupidigia sui beni e le qualità altrui per possedere quello che è oltre lui, riflesso e espanso fuori dalla sua portata. Divorare e ambire in primo luogo, attraverso il vedere nell’altro, alla sete di potere,di possesso  in lui.












S. Sebastiano ( dal dipinto di  Guido Reni , 1640)






Il santo, suppliziato e trafitto dai dardi in diversi punti del corpo, stranamente appare nel dipinto di Guido Reni in una visione estatica e sublimata della figura, nella grazia studiata che volutamente deve emanare la bellezza fisica e morale di questo corpo diamantato, idealmente delineandosi  in accordo ai canoni estetici classicheggianti del XVII secolo. Nitido, levigato e bianco come marmo polito sembra passato incolume attraverso il supplizio simile a una divinità greca, a un eroe dai canoni di bellezza classica non toccato dalle lacerazioni sulla carne, esente dal sangue e dalle piaghe o da ogni segno di sofferenza fisica sul corpo trafitto dalle frecce. Nella versione contemporanea diviene bersaglio sensualmente dandosi a noi nel profilo plastico di un corpo elastico snodato in onde ritmiche, in vibrazioni sinuose e sottili  simili a frequenze sonore, preso di mira, infine, da frecciate colorate, trafitto a tiri al bersaglio in onde ritmiche e irregolari. 
Schiena, costato, gambe e spalle segnano i punti di crocifissione con macchie rosse slavate e sgocciolanti di colore. Il corpo qui appare sinuosamente attraversato da onde elettromagnetiche, sonore e ritmiche, quasi vibrazioni quantiche dal suo campo magnetico primo. 
In successive versioni contemporanee di S. Sebastiano le frecce divengono missili e fenditure aperte sul corpo in stelle vermiglie e taglienti; sono missili inviati su un universo-corpo fluttuante come quello di un astronauta lanciato a vagare nello spazio lunare. La figura delineata e longilinea come nell’originale appare qui trafitta da missili dardeggiati sul suo costato che generano astri simili a  stelle nello spazio lunare.  In un’ultima versione le frecce del suppliziato sono piume leggere, da cui si è trafitti o sfiorati, lambiti o dolcemente percossi, piume che come parole divengono forme aeree e leggere,  fluttuanti e sospese in aria come oggetti di scrittura per affondare, lentamente, discendere e aderire ai corpi o alla materia  in tutte le sue sfaccettature; “plumes”  evocando volatilità, leggerezza nel pensiero dell’essere, il togliere peso e gravità alla materia, alle cose  ma anche il segno graffito, le incisioni, le impronte primordiali  delle prime tracce scritte lasciate nelle grotte di Lascaux , l'origine stessa del gesto e l'atto fondante alla  scrittura. Al toccare al corpo trafitto del santo le piume dardeggianti e leggere si imprimono in macchie rosse simili a pillole o capsule plastificate, a piccoli involucri sanguinanti versandosi in strascichi e filamenti di rosso colore. 









[1] Cfr. Georges Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini , Bollati Boringheri, p. 22-23
[2] Ibid.,
[3] Ibid., p. 41

sabato 1 novembre 2014

Su ritratti e mosaico contemporaneo ( da Young artists and mosaic 2014, MAR Ravenna)




 



Tutti i ritratti, pur nel loro estremo di frammentazione o “perturbazione visiva”, (quelli visti a “Eccentrico Musivo” per esempio), sono il volto di qualcosa o qualcuno, auto-ritratti che raffigurano l’intima dissoluzione in polvere o schegge di sé o, altrove, la ricomposizione del volto in una maschera immota riversandosi totalmente all’esterno trattenuta al limite del contorno_ iconoclastia o iconicità della figura. Ora appare esplosa in una macchia di polvere e pietruzze di marmo al suolo , ora scavata dentro un supporto di legno e sughero, manipolata e stravolta dallo svuotamento o intaglio del medesimo o, ancora, ricomposta in una eterea cornice come pura macchia-superficie del volto dove solo occhi verdi scintillanti brillano dalla veridicità dell’io.  Altrove  nella mostra  “Giovani artisti e mosaico ” al Mar di Ravenna,  mentalscape paesaggi mentali appaiono come tele bruciate, sottoposte a combustioni, coperte di  piccoli fili ferro, polveri e granuli. L’aereo intaglio d’una casa immensa e leggera sospesa in carta trasparente al soffitto diviene, ugualmente, l’autoritratto d’un sé assente; costumi e moduli intrecciati di materiali sintetici industriali si ergono come maschere di manichini senza volto, i loro doppi fantasmatici espandendosi magnificenti sui muri.  L’epidermide- mosaico d’un anonimo corpo come fosse visto al microscopio è proiettato sullo schermo d’un video fin dentro i tessuti, la tessitura della pelle, fin dentro le cellule d’una materia vivente che, presenza espansiva , dilata, invade e trasforma la propria natura modulare sull’intero campo visivo dello schermo.

Unknown mentalscape”  ( Andrej Koruza 2014) Ritratto sconosciuto della mia mente in ferro, zucchero e polvere da sparo sottoposta a una combustione di polvere infiammabile su legno lasciando al suo estinguersi un grande varco vuoto al centro e grovigli in ferro o coaguli inceneriti come perturbazioni della superficie visibile.
Un grande incavo al centro è buco bianco di cervello svuotato ed esploso, e piccoli lasciti ai lati come cumuli di zucchero e polvere bruciata, agglomerata in scorie arse, nere e brillanti. Le sedie sparse d’un teatro, d’una platea in linee di ferro, fili attorcigliati e rivoltati disegnano un percorso fittizio  di brucianti nodi e scie annerite: un intreccio saltato in aria, fatto deflagrare come  mente esplosa da polvere da sparo; attraverso quella s’aprono isole, continenti, macchie scavate di luce, varchi bianchi e vuoti dove il riflesso rimbalza, s’arresta e penetra attraverso le superfici.   

 Un vecchio pensiero” (Jae Kee Kim) si illumina d’un tratto su un cranio, su una testa ovoidale  e arriva come un passaggio improvviso, come una strada aperta che conduce a quell’intima, interna illuminazione fatta di ori e celesti, di azzurrini luminescenti e leggeri guizzi di corrente nelle sue esterne fluttuazioni  su un mare blu tenue mosaicato.  


Sul ritratto (Giorgio Tentolini, “Oltre l'approdo” Raffaella Ceccarossi, “Crisi di identità2 ” e Sergio Policicchio, “Ritratto di Eugenia Koleshikova”)


L’identità è frammentata e esplosa in Raffaella Ceccarossi come masso di pietra colpito da polvere da sparo. Volto deflagrato, il ritratto è finito in frantumi, terra al suolo, terra su terra, di pietre e pietruzze, sassi e polveri dispersi in sentieri inusuali. Inusuali labirinti sono aperti su volto-superficie a sé stesso cercandosi, percorrendosi in un nugolo di polvere e sassi, aprendo sentieri attraverso le parti oscure del proprio materico darsi. Circumnavigazione a vista attraverso un volto a macchia esploso, si ricompone in pietre e pietruzze di marmi rossi o rosati, bianchi o perlacei. Ricomposta a scacchiera, la polvere di marmo dilegua lucida, scintillante aspira verso l’alto in vortici di vento, in onde, in un soffio che sale disegnando la terra d’ aperture misteriose dipanandosi da un centro reticolare.

Un altro ritratto, “Eugenia  Koleshikova” (Sergio Policicchio), questa volta è una maschera di pietra, schermante, senza riflesso, ricomposta sul volto in pulviscoli di marmo ricompattati insieme mentre il busto e la capigliatura appaiono sfumati, dileguati, diluiti l’uno in macchia purpurea, l’altro in bianco candore. L’oggetto  di studio è il volto, nitido, visibile lasciato al centro del piano in legno, studiato da vicino, interrogato, posto là come un enigma alla visione; ugualmente lo sguardo è evidenziato, separato dal resto attraverso due minuscole lastre-paraocchi in marmo.



 

Guardare o impedirsi di guardare per quel volto, oltre i limiti del proprio sguardo, oltre le barriere d’un punto di vista, oltre il solco di un’abitudine al vedere; guardare come attraverso raggi ultravioletti, concentrarsi sulla traiettoria, il punto di fuga lontano e invisibile di quell’interno vedere semplicemente ignorando tutto il resto.
Fissare la propria attenzione ora dall’esterno su quel ritratto ricomposto in minuscoli granuli di marmo, studiarne l’architettura visibile, vederlo come maschera immota, come materia di pietra ricompattata da eterei frammenti. Vederlo in tale immobilità, in tale fissità lieve dove solo occhi scintillanti ritornano dalla sua interna veridicità proiettati oltre l’orizzonte del nostro punto di vista. Vederlo in tale cecità, in tale simulata compattezza, nella rigidità apparente d’una maschera funeraria,
di un sé immoto e lontano da cui scintillano soltanto due schegge velate e smeraldo .
Oltre l'approdo” del volto (Giorgio Tentolini) in prossimità del corpo l’intaglio è scavo, interna corrosione del cartone -ritratto. Il cartone di sughero è aperto in cunicoli, svuotato in varchi oltre il limite designato della figura, oltre il contorno-icona del volto per cancellarla definitivamente, farla scomparire nella sua integrità di superficie, dissolverla da una reale presenza nel ritratto,  ciò che a distanza la fa ricomparire in un effetto voluto di controluce in diverse immagini della medesima; dal suo volto interno esse si sovrappongo alla dissimulazione voluta, trasposte sull'incavo vuoto e informe della superficie.

 Quanto spazio si può scavare sulla superficie immota d’una figura per capire che era già tutto lì portato in esterno dall’inizio su quella tela o piano, pietra o marmo, che non c’era altra verità da andare a cercare altrove, da scovare al fondo?
Piccoli contenitori senza contenente, scossi, attraversati, versati fuori, dissipati su quella superficie in indizi, tracce, segni, dal caos indistinto all’aggregato materico, al reticolo ordinato di forme. 
 La concentrazione d'energia d'una maschera, di un volto come ritratto: dissiparla per  non trattenere più nulla, l’atomo esploso in un abbandono di sé, in uno svuotamento, in un dileguare sulla tela o la lastra musiva.

Questa carne è più fragile di come ci hanno fatto credere, è carne più mortale, più porosa,
e macchine l’accerchiano ma non è come le macchine.
Questa carne abitata, questo soffio di vita che la scuote e la placa non ha l’estensione, le misure, gli angoli retti, il colore uniforme di una macchina”.[1]
Possiamo attingere direttamente da quello che viviamo, i dati dell’esperienza, dei corpi, della coscienza discesa dentro le ossa  nella sostanza della carne, attingere a  una ritmica complessa, trasformarla in poesia, in pagina di scrittura o nel cantiere d’un immaginario poetico aperto, vivente e in divenire.

 “Unirsi così a fondo alla vita da intravvedere oltre in questo abbraccio; danzare una danza che salvi il nostro aggregato dalla noia, dalla furia polemica, dal caos”[2]
Non nella  concentrazione d’un gesto di volontà portato al limite ma in un abbandono fiducioso di sé, allo Spirito in noi, non nell’imposizione assertiva ma nello svuotamento, nel miracolo del soffio vitale, vita come grazia e accettazione, concentrazione di energia ma nell’abbandono a quel che sarà: “fare spazio al transito d’un soffio che scende al centro della terra e quando sale, pieno di forza, di fuoco può far spostare le  montagne”[3].




[1] Alessandro Berti « Miracoli» appunti spirituali per la performance Humunculus 
[2] Ibid., Berti
[3] Ibid ;, Berti