lunedì 25 gennaio 2010

Christian Boltanski ( II )













































Giocare nel senso teatrale del termine, non con parole ma con segni nello spazio,
lanciati nello spazio, depositati, lasciati allo sguardo dello spettatore, non per essere detti ma per essere sentiti.
L’idea d’artificio. “Non si tratta di realtà ma di far sentire la realtà (interna), qualcosa di talmente complesso, qualche volta bisogna mentire”.
Inventare finzioni, affabulazioni, racconti di una memoria inesistente, irrecuperabile a priori, re-inventata come una "vita possibile", la vita di tutti e nessuno; montaggio, collage di frammenti provenienti da archivi diversi nell’impossibilità di scrivere una vera autobiografia.
L’artificio, forse, che si domanda per andare più a fondo a una verità;
la dichiarazione, infine, d’una aperta asserzione d’oblio come ultimo ancoraggio alla memoria.


“Il luogo è talmente forte, parla già talmente in sé che più importante è mostrare”, metterne a nudo la struttura, intervenire in quello che è dato;
lavorare partendo dalla realtà di quello spazio, smisurato e insieme fatto di vuoto,
costruire l’opera partendo da tale vuoto. E’ un collage, come mettere insieme elementi diversi, tempi e qualità proprie di materiali fino a costruire linee,
investire una spazialità virtuale per farne un vero e proprio universo sensibile.

Si è all’interno di un universo dove accade qualcosa”. Lo spettatore deve avere il senso di affondare all’interno di questo spazio altro, “immergersi “. Non sarà “di fronte all’opera ma dentro l’opera”, afferma Boltanski, dentro l’atmosfera ipnotica, opprimente, ripetitiva della scenografia d’insieme, (“spero che avrà freddo”), dentro una certo uso della luce, al mattino o all’arrivo dell’oscurità. Farà l’esperienza del luogo nel tempo, in una durata che andrà sottilmente, inevitabilmente a cambiare il senso della sua percezione là dove tutti gli elementi dovranno convergere verso una visione d’insieme, un sentimento comune come in “un’opera totale”.

Isolati da un grande muro, tagliati dalla realtà esterna entrando, un muro fatto di scatole d’archivio, anonime, fredde, rugginose,
montate l’una sull’altra rinviando alle pareti delle urne cinerarie cristiane.
Tagliati dall’esterno come in una specie di “passaggio dantesco” , la separazione necessaria per discendere verso questo altrove.


“La mia opera parla dell’unicità di ogni essere umano e della sua fragilità. Ognuno è unico e, allo stesso tempo, scompare nella memoria degli altri talmente rapidamente. Ho immaginato un’isola in Giappone dove saranno raccolti migliaia di battiti di cuori. E’ un modo per tenere insieme degli esseri umani. C’è questo fatto strano, che più si cerca di salvare qualcosa più essa scompare. Non si vede tanto bene la morte di qualcuno che quando si guarda la sua immagine in fotografia ….”
La fotografia è necessariamente illusione di presenza, arrestando un momento, fissando un volto, avendo l’illusione che mai scomparirà, che sarà sempre lì come un segno scritto, inciso di fronte agli occhi, avendo l’illusione di averlo sottratto al tempo, al processo di distruzione, alla cancellazione della morte.

Immortalare: rendere immortale; ma, paradossalmente, fotografare è dichiarare apertamente il fallimento di tale intento, l’immagine fotografica portando in sé il segno di una di-sparizione, la cosa che è là e non è più, una delle tracce più evanescenti che si possa immaginare,
un passaggio della luce, un segno sublimato nel vuoto di una reale presenza;
l’istante passato che non potremo più recuperare,
la traccia anche di un’assenza incisa nel bianco e nero di una figura che ancora e sempre continua a sfuggirci
restando lì , impressa, chiara di fronte agli occhi.

“ Essere umani è lottare, lottare per conservare la memoria, per conservare delle presenze umane e fallire, necessariamente, in questo intento. Come una piccola parabola sul fallimento e l’impossibilità di lottare contro il destino. Interrogandosi sulla casualità della vita, sulla vulnerabilità dell’esistenza.”

“ L’arte è un tentativo di impedire la morte, la fuga del tempo, una lotta che non è possibile vincere, una forma di fallimento a priori. Tutto il lavoro d’archivio che ho fatto dall’inizio risponde a questo desiderio di mantenere una traccia, desiderio d’arrestare la morte.”


Christian Boltanski (I), Monumenta 2010, "Personnes", Grand Palais, Parigi



Battito potente, ipersensibile, espanso al suo grado massimale;
nella penombra, nella semioscurità, somma di tutti i battiti, di tutti i cuori, le vite che hanno attraversato quegli abiti, fatto di quei respiri dei segni viventi.
Archivio di vite immaginarie.

Lo spazio enorme s’ apre smisurato oltre la taglia umana sotto la volta del Grand Palais;
spazio come ampiezza del respiro, fatto di arcate immense, fabbrica o luogo d’esposizione di un’antica Internazionale.
Circolare nelle volte in ferro che si elevano ai lati, perpendicolare in altezza, sulle vetrate che si ripetono in linee rigorose all’infinito.
Sobrio, essenziale, d’una semplicità estrema come la natura dell’installazione: immensa, rigorosa, ripetitiva fino all’assoluto.

Quadrati d’abiti sono disposti in linee verticali e orizzontali su tre colonne;
cimiteri d’abiti, di cappotti, di tessuti. Come i cunicoli o le urne sepolcrali dove venivano trasportate le ceneri dei defunti quando i corpi erano dissolti e non ne restavano che le reliquie. Corpi svaporati, restano gli involucri di umanità disperse, l’impronta eterea, evanescente, della loro non-presenza impressa sui tessuti distesi al suolo.

Colori opachi, spenti, poi macchie luminose s’aprono all’improvviso, giallo per esempio, di foulard svolazzanti o giacche malamente dispiegate.
Ai lati, quattro colonne in ferro ruvido, oscurate dal tempo, gelide al tatto, si ricongiungono con i fili d’acciaio al centro convergendo verso una lampada a neon rettangolare .

Presenza fredda, ineluttabile, sottilmente pervasiva, la morte, impronta la disposizione dello spazio; spazio di "di-sparizione", d’oblio;
lotta a ridosso della memoria.
Rinvio tacito, ai campi di concentramento, alla Shoa, agli ospedali psichiatrici,
ai gulag, alle prigioni e a tutte quelle strutture di potere che irreggimentano e disciplinano l’individuo dentro la norma e il controllo di un ordine imposto fino alla sua perdita.

Silenzio a ridosso della memoria. Potente, in contrasto, questo battito continuo, smisurato, risuona della somma di tutti i battiti, i cuori, d'un’infinità di vite e d’esseri.
Qui la vita si erge assordante, minacciosa contro la struttura opprimente, a ripetizione della scenografia di morte.
Il battito primo, suono o musica che abbiamo sentito per la prima volta venendo alla luce, prima nozione di ritmo che abbiamo percepito, rinvia tacitamente al cuore di un’esperienza primordiale della quale portiamo inconsapevolmente la memoria. Ogni volta cercando un ritmo, una frase o una parola, un gesto o un movimento. Battito vitale, per eccellenza, é qui la somma di tutti i battiti individuali, eco di vite scomparse che si ergono, minacciose, contro la loro distruzione.


Alla discesa della notte la luce all’esterno degrada a poco a poco assorbita dall’oscurità. Allora l’atmosfera si fa più pregnante, il riflesso freddo delle lampade a neon contro i fili d’acciaio più acuta, i contorni delle forme, delle linee più marcati nel chiaro-scuro circostante.
Discendiamo a poco a poco in questa sorta di distesa spietata di camere a gas dell’oblio e della memoria.
Costruzione rigorosa pensata in una geometria di quadri comunicanti, apparentemente isolati l’uno all’altro, facendo salire in noi, lentamente, insieme al freddo che assorbiamo, dentro l’atmosfera che respiriamo, il senso opprimente della memoria, una storia, anche, collettiva in controluce .

Rumori, forti, continui, provenienti da diverse direzioni, individuali sono alternati a mixaggi collettivi come in una fabbrica. Scatole d’archivio che divengono urne cinerarie,
pietre anonime di una parete in ferro rifrangente che separa dal mondo dei viventi là fuori.
Abiti vecchi, usati o di seconda mano, appartenuti a qualcuno prima.
Il freddo. Spazi vuoti. Sensazioni di rumore, di vuoto, di immobilità.
Accumulazione di stracci, di stoffe, di tessuti; qualcosa dell’ordine dei sensi che pure non riusciamo a toccare.
I suoni ci passano attraverso da parte a parte. Ritmici, identici, regolari e d’una semplicità sorprendente. Qualcosa di perturbante, d’opprimente ma che resta invisibile agli occhi,
di cui non ci rendiamo conto se non nella durata, facendo l’esperienza della cosa nel tempo e nello spazio, camminando attraverso i quadrati identici l’uno all’altro,
restando lì a lungo ad assorbire gli odori degli abiti vecchi ,
ad assimilare il rumore assordante del battito ,
a sentire l’assenza di vita o le sua esplosione, improvvisa, a tratti.


Una montagna immensa di stracci colorati, di stoffe e colori mischiati, confusi insieme;
una sorta di meccanismo spietato, un grande artiglio in ferro discende, ineluttabile, a intervalli regolari: artiglio meccanico privo di battito cardiaco, afferra, solleva e strappa a caso una manciata di stracci, indifferente;
li mantiene sospesi, , in aria, poi d’un tratto li lascia cadere, scivolare giù,
li abbandona al proprio destino semplicemente.

Pensiamo alla ripetizione, ai meccanismi a ripetizione, irreversibili e che agiscono macchinalmente , senza possibilità di intercessione, del destino o del caso.
Pensiamo a immagini lontane, alle visite obbligate ai cimiteri da bambini, ai passaggi attraverso i sentieri di tombe incise di nomi anonimi, identici l’uno all’altro, al vuoto, all’ineluttabilità,
ai meccanismi che schiacciano l’individuo fino al suo annullamento.

giovedì 14 gennaio 2010

Su Cartier-Bresson (II), immagini e parole

“L’immagine della città radiosa e nera, saggia e folle, silenziosa e abitata dai fantasmi che portiamo in noi” (P. Gascar)













Indonesia 1949: due giovani balinesi si preparano alle danze,
allacciano corsetti prese nel complicato rito vestimentale.
Decorazioni floreali sulla fronte, tra i capelli, impresse sugli abiti ricamati in oro.
I tessuti sono stretti alla vita, i capelli accuratamente raccolti in acconciature rituali.

Gli occhi sono chiusi,i movimenti ampi delle mani avvolti nel rapimento misterioso della danza: un avvenimento d’ordine sacro, religioso e rituale.
Deve emergere così, tacitamente, nel baratto dei corpi ordinari, nello spazio di un istante, nel passaggio verso l'alterità del divino. Convocato nel silenzio, nella metamorfosi rituale degli abiti,
attraverso un complicato processo di preparazione, maquillage e ri-vestimento.
Gli occhi chiusi sono colti nell’atto di una preghiera : invocazione silenziosa attraverso l'oscurità. Qualcosa accetta di manifestarsi nello spazio di un passaggio fulmineo, di un movimento avvolgente del corpo: il divino lascia emergere la sua traccia senza intermediari.

Occhi chiusi, corpi traversati, temporaneamente transiti.

Morire e rinascere nella metamorfosi di un misterioso passaggio.




Place de L’Europe, Parigi, 1932.


Il fotografo lascia fare al caso, all’accidente che agisce sul reale e rivela l’inatteso, l’insubordinazione delle forze di vita sull’organizzazione rigorosa della forma;

unageometria segreta di linee e superfici  legando i rapporti tra le forme rivela il surreale dentro e a partire dalla realtà stessa.

Una strada diviene uno specchio d'acqua, un uomo corre via, lontano, oltre la sua ombra, contro il riflesso sbiadito che scompare, a poco a poco, all'altro lato della realtà. Un frammento di strada ferrata si disegna, fluttuando per scomparire, d’ un tratto, entro la superficie opaca, immobile d’acqua.

Oggetti accumulati dal caso sembrano circoscrivere perfettamente quella geometria rigorosa di forme sulla scena. Un mucchietto di pietre e sassi ammassati sullo sfondo; la luce sbiadita, diafana di un mezzogiorno grigiastro illumina l’ora immobile che il pendolo segna sulla torre della stazione. Un ammasso di terra, cerchi di ferro incurvati contro la linearità della superficie, una grata di lame appuntite, sullo sfondo appare anch’essa contro lo specchio d’acqua. Figure anonime scompaiono in lontananza nel controluce d’ombra.
Grandi caratteri di scrittura restano impressi nero su bianco su un manifesto; accanto il profilo di una figura vola,  leggera, aerea, nella direzione opposta a quella dell’uomo come la proiezione del suo doppio,  vista al contrario e riflessa in quelle rifrangenze multiple d’acqua.
Tutta l’immagine è costruita su un gioco apparente di rinvii e rifrangenze. Piani si incrociano, stabiliscono segrete analogie, rinviano l’uno all’altro nel gioco d’eco e di risonanze: l’immagine e il suo doppio, la figura e l' ombra, la realtà e il suo rovescio.
Tale piano di surrealtà s’apre come uno squarcio dentro la realtà più ordinaria, tale, un uomo che s’affretta per prendere un treno in una giornata nebbiosa nei pressi di S. Lazare.


Paesaggi: Siphnos, Grecia,1963 ; Seville, Spagna, 1932.




La scalinata conduce al centro di un gruppo di case  bianche in calce dai tetti a vista. Costruzioni geometriche, rettangolari, epurate e prive di presenze umane. Porte chiuse, finestre serrate, la luce trapassa all'apice del mezzogiorno. Le forme bianche e assolute della città  si ripetono in schemi regolari convergendo,  verso un punto immaginario, invisibile o esterno alla fotografia.




Lo stesso accade nel gioco d’ombre, di porte e di cunicoli che si intravvedono, proiettandosi in controluce nell’immagine di “Siviglia” (1932.) Gioco misterioso, labirintico di passaggi sotterranei, il riflesso di un meridiano bagna al suolo con il suo cerchio d’ombra nell’ora più calda del giorno. Un ragazzo nascosto in penombra in primo piano contempla misteriosamente il senso di quello che sta accadendo, segretamente attraversando l’istante della fotografia, il punto in cui il meridiano tocca il suo zenit all’apice del mezzogiorno e il cerchio delle ore si chiude disegnandosi come una sfera perfetta al suolo. L’istante decisivo della fotografia. La sfera del tempo si chiude in cerchio trovando, qui, la sua completezza. In quel momento misterioso un gioco d’ombre si lascia intravvedere nei cunicoli vuoti delle strade all’attimo dello scatto fotografico.



Valentia, Spagna, 1933.

“Avanza, testa reclinata all’indietro, labbra semi-aperte, braccio destro leggermente scostato perché il corpo sia offerto senza la minima difesa; perché avanzare vuol dire per lui consegnarsi”. (Milan Kundera) Grazioso, in bianco, avanza. Cammina a ridosso della parete; parete nera, macchie nere, linee nere ovunque, tutto cancellato intorno. Intermittenze improvvise di frequenza, nero su bianco, incolore lo sfondo.
Occhi chiusi, la testa è leggermente reclinata all’indietro, la bocca socchiusa in una deflagrazione improvvisa nell’essere. Preso in questo stato d'estasi dolorosa, improvvisamente colto, saisi.
Tutta la realtà annullata intorno appare per intermittenze, frequenze interrotte nello specchio infranto della sua interna visione, della sua sola percezione.
A piedi nudi cammina, con la sua veste bianca. Deflagrazione improvvisa, dolorosa e inspiegata; resta lì inscritta sulla pelle, viso e occhi socchiusi, incisa come una iscrizione solitaria contro la superficie anonima dello sfondo.

domenica 10 gennaio 2010

Sulla fotografia, Henry Cartier Bresson (I) ,( recentemente rivisto alla Maison de la Photographie a Parigi)














































Un carnet da disegno, fogli vuoti d’ una serie di schizzi a venire:  frammenti di linee affiorano e grandi vuoti, bianchi spazi d’attesa, di sospensione li interrompono.

Un elettrone  gira all’impazzata nella mente, un bacio caldo e sensuale,
la simulazione d'una forma aperta, in divenire, che sfugge, nonostante tutto, al nostro controllo. 


Il simulacro di un lavoro rifatto apparentemente identico a uno già esistente, eco di voci vi si sovrappongono scorrendo tacite al di sotto.

"Mémoire": dissertazione letteraria, stesura, compilazione di frammenti, raccolta di note,
lo specchio deformante dei miei sensi, i giochi d’una memoria multipla e sfuggente.


Da "The decisive moment", di Henry Cartier-Bresson

"il soggetto non consiste a collezionare fatti perché gli avvenimenti in sé stessi non significano nulla. L'importante é scegliere, cogliere il fatto vero rispetto alla realtà profonda".E' l'avvenimento per la sua funzione propria che provoca il ritmo organico delle forme. Quanto al modo di esprimersi, ci sono mille e una maniera di distillare quello che ci seduce. Lasciamo all'ineffabile tutta la sua freschezza.”

"Che cosa c'é di più fugace dell'espressione di un volto? Molto spesso la prima impressione che ci lascia é la più giusta e, se si arricchisce della conoscenza della persona é molto più difficile esprimere la natura complessa del soggetto nella misura in cui la conosciamo più profondamente”.





Di tutti i mezzi d'espressione la fotografia é forse il solo che fissi l’istante”. Abbiamo a che fare con la più effimera delle esperienze, cio’ che scompare impercettibilmente nel tempo di uno sguardo, nel passaggio tra una parola e il respiro che permette alla nuova di costituirsi, tra la fine di un atto e quello che già si prepara. Tale sospensione non sapremo definirla se non come "entre" , visibile nell'assenza, una volta che il momento decisivo è sfuggito, dileguato e quando non sarà più possibile tornare indietro, farla rivivere, identica, allo stesso modo. 

"L'eternità dura il tempo di un istante, di qui l'angoscia ma anche l'originalità essenziale del lavoro del fotografo". La memoria é molto importante, memoria di ogni singolo scatto o atto fotografico andando alla stessa velocità dell'avvenimento. Si deve essere sicuri che non si è lasciato nulla indietro, non buchi né zone d'ombra, zone di vacuità, che tutto è stato detto, preso, rivoltato come un guanto, scavato, assorbito e restituito fino in fondo perché non ci sarà, poi, una seconda possibilità, non si potrà tornare indietro, ripetere l'avvenimento, allo stesso modo .

"Il solo aspetto della fotografia che mi ha sempre interessato é il suo lato intuitivo, folgorante, classificato sotto il nome di réportage. Quando lo si pratica in pubblico, nell'anonimato, si diviene spesso simili a un borseggiatore o un equilibra”, sempre sul filo del rasoio, con un'attenzione particolare, vagamente dissimulata, mobile e costante, come si volesse rubare in una sola immagine, in uno squarcio o un dettaglio l'essenziale di una scena che si presenta. Quando si tratta di fare un ritratto, é la connivenza segreta con il modello che si stabilisce guidati dalla curiosità del "faccia a faccia”.

"Farsi dimenticare, lasciare spazio perché l’accidentale, il caso, l’eventuale venga a noi"; nulla sapere, decidere ma intuire. Lasciare affiorare quello che si svela in modo fugace, approfittando dell'istante in cui la persona, presa nel suo ambito, sarà di fronte alla macchina sola con sé stessa, contro sé stessa.
“Quasi scivolando impercettibilmente tra la pelle e l'abito” eclissarsi, scomparire, avere spesso voglia di dire: "non sono là, fate quello che volete, siate voi stessi".


“La fotografia per me non é un lavoro ma un piacere, difficile, complesso da raggiungere” che domanda un impegno totale, un abnegazione fino al punto di perdersi nel suo fare.
Nulla voler asserire ma semplicemente essere là come sensibilità, come sguardo e percezione, pronti a cogliere il momento nel tempo e nello spazio, la cosa quando si presenta irreversibile.
Nulla chiedere o attendersi, ma aspettare, assorbire e trasmutare,

Alchemicamente darsi come superfici riflettenti,
come fonti di luce, ricettacoli di immagini,
placche in vibrazione sensibile.









“La fotografia é, per me, riconoscere nella realtà di un ritmo di superfici, di linee e di valori. Una foto la si percepisce in un solo sguardo nella sua totalità come un quadro. La composizione vi compare come una coordinazione organica di elementi visivi”. Non accade gratuitamente, in assenza di una necessità allo stesso modo in cui non si può separare il fondo dalla forma o l'avvenimento significante nell'ordine dell'umano dalla geometria di linee e superfici epurate, ricondotte al culmine del loro potenziale estetico e visivo. Emerge una plasticità nuova nata da una composizione di linee istantanee con una sorta di intuizione prima, costante sulla vita perché “é nel movimento che la fotografia trova, infine, il proprio equilibrio espressivo”.


Cartier-Bresson

“Fare un ritratto è una cosa molto difficile forse la cosa più difficile; come "porre un punto interrogativo" lasciare una domanda aperta su qualcuno, designando uno spazio di definizione nell’atto del suo manifestarsi.

“Fotografare: trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà convergono per catturare una verità sfuggente: in quel momento la cattura dell’immagine è una grande gioia fisica e intellettuale.”
“ Alcune immagini assomigliano a un racconto di Checkov o a un
Romanzo di Maupassant: tutto accade molto rapidamente ma è come se un mondo s’aprisse all’interno, un intero universo vi si disegna.”

“…La possibilità in una frazione di secondo dimenticando sé stessi e il mondo intorno di registrare l’emozione procurata da un soggetto o dalla bellezza d’una forma, vale a dire, una geometria di sensi risvegliata da quello che si presenta."
“…Un’operazione immediata dei sensi e della mente", il mondo tradotto in termini visivi, in lacrime visive, silenziosamente affermando e cancellando una propria intrinseca verità.

Appassionati della visione e, per questo, cercando una sorta di invisibilità o ritrazione dal soggetto. restando in uno stato di ascolto costante, con un’attenzione vigile, fluttuante, mobile ma apparentemente dissimulata dietro la presunta oggettività dell’atto fotografico.

Sapere di avere a che fare con qualcosa di estremamente delicato, effimero, precario come l’immagine di una realtà sfuggente che cambia di secondo in secondo, soggetta alle alterazioni del tempo, all’impermanenza della materia, al divenire dell’esistenza nella continuità del ciclo vitale. Retrocede per permettere a un punto sensibile di iscriversi, quello che emerge in una trasparenza o neutralità dello sguardo.



Il Kairos della fotografia: quel momento decisivo dove le cose si rivelano per loro stesse, si organizzano secondo un ordinamento proprio insieme estetico ed etico. Trovano una giustificazione a esistere e tutto si riempie di senso, diviene, d’un tratto, giusto, significante, dettato da una vera necessità interiore.

“E' in uno stesso istante, riconoscere un fatto e un’organizzazione rigorosa di forme percepite esprimendolo visivamente”.
Fotografare per Cartier-Bresson: un modo di gridare, di gridare e tacere insieme, di liberarsi, non di provare o affermare qualcosa, non di asserire o negare una verità. Un modo di vivere, d’essere dentro il momento totalmente, d’investire lo spazio, d’abitarlo con la propria sensibilità fino a svelarne la geometria segreta di linee e forme dettate dall’umano.


venerdì 1 gennaio 2010





























“Città bianca, esposta alla luce lunare con vie che girano su se stesse come in un labirinto di strade senza fine, città disabitata”

Tracciavano linee, disegnavano spazi per dare forma al luogo dove riconoscevano qualcosa delle vie del sogno, cambiando posti e nomi perché assomigliasse di più al tracciato dell'immagine inseguita.


Uno spazio ristretto, asfittico,ermeticamente chiuso all'esterno dove faticate a respirare ,
uno spazio che incomincia a muoversi in voi dove avete appena il tempo di restare con il vostro corpo, sempre più cercando una strada per uscire, un passaggio che vi porti fuori dall’altra parte
Vi dibattete invano, graffiate contro il cemento ruvido dei bordi, rotolate contro il suolo non potendo proteggervi;
vi dibattete, sollevate la testa, cercate l'aria fuori, la luce del giorno
Sentite un' irradiazione luminosa sul volto, ora siete contro una grande parete di vetro, una superficie o una porta non sapete, sapete che è li' e volete occuparne tutta l’estensione con il vostro corpo per riceverne il calore che passa attraverso;
la disegnate con le vostre mani, ne cancellate e riscrivete i contorni mille volte, disegnate il vostro contorno controluce poi lo vedete dissolvere, scivolare via,
al suolo come una macchia d'acqua,
Dileguate e sbattete ancora contro quella superficie come vorreste farla a pezzi, qualcosa che è dentro di voi o là all'esterno forse, e la sentite stringervi addosso, restringersi contro il vostro spazio vitale anche.
Ed è, forse, per questo che d'un tratto cercate quella tensione, quell'allungamento estremo della colonna vertebrale, del bacino e delle membra come attraversati da un’onda fluida, energetica e vitale che vi porta, ed è forse per questo forse che qualcosa si libera d'un tratto in voi come per un intervento, un’insorgenza del caso, un’ eclosione di fiori nel deserto.