venerdì 2 settembre 2016

"AWA'S JOURNEY" , al Shonibare Studio, London (regia di Danielle Urbas, con Union Dance, musiche di Mosi Conde e video di Dan Saul, testo di Beverly Andrews)

  



Due storie opposte e parallele si intrecciano 

in“Awa’s journey”, un viaggio multimediale attraverso il teatro, la danza, e la musica live africana messo in scena da Union Dance con la regia Danielle Urbas al Shoribare Studio di Londra nella combinazione sinestetica di diversi linguaggi: la parola e il corpo in primo luogo, poi il montaggio di immagini video del film-maker Dan Saul  estratte dall’attualità contemporanea dei conflitti internazionali e dei flussi migratori di massa verso l’Europa. Un’altra storia si intreccia a questa nello spettacolo e ci riporta molto più indietro nel tempo all’epoca di un Mali imperiale  nel XVI secolo per rivivere la stessa vicenda attraverso un’immagine uguale e contraria rinviata a specchio da un periodo d’oro della storia africana e da una corte inglese dilaniata da violenti conflitti religiosi. “Awa’s journey” è il viaggio di una giovane donna maliana in fuga dal proprio paese dopo l’occupazione del territorio da parte delle fazioni estremiste islamiche, viaggio dalla terra natale alle strade di Londra, ma anche, al contrario in una seconda storia, il racconto di una nobile principessa dallo stesso nome che giunge in visita presso la corte di James I in un’ Inghilterra lacerata da conflitti religiosi e violenti spargimenti di sangue .



Il racconto di Awa, gridato o sussurrato , intensamente imploso nello scorrere delle immagini video sul suo volto in primissimo piano o nell’eco della sue parole intercalate da immagini dei media, dagli intermezzi musicali di danza e canto dei griot, ci interpella o parla direttamente perché richiama alla memoria e fa appello a immagini o scene viste ogni giorno nella nostra attualità al quotidiano. Lei, uno dei tanti volti o storie di persone oggi profughe nel mondo: disperse, in fuga, in migrazione volontaria o obbligata dall’Africa o dal Medio -Oriente verso l’Europa in seguito a persecuzioni religiose, guerre civili o a crisi economiche che hanno investito tali territori. Nello specifico nel dramma qui, le milizie estremiste islamiche attaccano e occupano il nord del Mali dopo la caduta di Gheddafi rivendicando la fine  del governo e della costituzione fino a gettare il paese nel caos, nella guerra civile e in uno stato di instabilità politica determinante.  La fuga verso l’Europa diviene la sola via possibile per la donna: la sua traversata a nord, oltre il confine attraverso il deserto fino al mare e poi oltre imbarcandosi su una nave clandestina in condizioni miserevoli per arrivare in Europa insieme a tanti altri profughi illegali senza più identità né documenti, senza più volto ne passato. Solo un desiderio primo le è rimasto, come racconta nel monologo, l’impulso essenziale alla vita, la lotta estenuante per sopravvivere, il desiderio di lasciarsi alle spalle la violenza e l’orrore della guerra per ricominciare una nuova esistenza.
Nel prologo dello spettacolo Awa  è arrestata dalla polizia mentre vaga per le strade di Londra in preda a una parziale amnesia, vestita di stracci e senza più documenti; là incomincia a raccontarsi in un monologo sussurrato, intimo e auto-riflessivo di fronte all’ ufficiale di polizia che a sua volta diventerà un interlocutore privilegiato nello spettacolo,  colui che incarna la coscienza conflittuale dell’uomo occidentale, bianco e “civilizzato”di fronte all'incomprensibilità di un mondo e d’una crisi globale che sta investendo sempre più una realtà  fuori dal suo controllo.
Stralci di memoria e momenti della fuga si alternano nel monologo di Awa a repentini ritorni al passato in Mali e tratti di un presente disperante dove le vicende e i ruoli si sovrappongono sul filo degli eventi che l’hanno condotta lì e resa come tanti altri profuga, rifugiata o vittima della guerra, precipitata dal suo precedente status sociale: 
“Come ogni cosa è accaduto così rapidamente, quanto in fretta tutto è cambiato. La vita che conoscevo svanì semplicemente, sembrò come fosse scomparsa nel giro di un solo giorno e quello che era rimasto non mi apparteneva più. Era come se in una notte fossi diventata una specie di dipendente, ma non dalla droga o da qualche psicofarmaco bensì dalla vita. Tutto quello che volevo era sopravvivere perfino in quell’oscurità, in quell’inferno sulla terra dove ogni cosa che amavo era stato distrutto. Semplicemente volevo sopravvivere. Cominciai a sentire che non ero più molto umana ma simile a un animale sulla terra con un solo impulso dentro di sé, sopravvivere, continuare (..) E a poco a poco tutti i piani che mio padre aveva fatto per un viaggio sicuro cominciarono a incrinarsi. Era come se il suo amore non potesse più proteggermi, come se non fossi più in pieno controllo della mia vita ma spinta da eventi che apparivano fuori dalla mia volontà. ”


Awa attraversa il deserto in una fuga estenuante nel tentativo di raggiungere e imbarcarsi verso il vecchio continente. Nello spettacolo un gruppo di attori su scena avanza e retrocede nella totale oscurità, qualcuno cade a terra come avendo perso i sensi, crollano e si rialzano accompagnati dal canto dei griot mentre una giovane danzatrice appare in un movimento frenetico del corpo, nella simulazione d’una camminata immobile come attraverso sabbie mobili che la risucchiano al suolo. Avanza e retrocede in una marcia infinita senza potersi muovere dal punto iniziale; crolla al suolo, si rialza e inizia questo monologare infinito del corpo con sé stesso in una sequenza ripetitiva, sempre più veloce e esasperante, in un crescendo di tensione fino allo sfinimento, alla fuga finale dalla scena :
“ Non devo fermarmi, non devo fermarmi, se mi fermo mi troveranno, mi prenderanno. Non devo bere, non devo mangiare, non ho tempo per mangiare, devo continuare, correre e continuare, correre fino al confine, correre e correre più avanti fino alla fine, devo continuare, non devo fermarmi, non devo fermarmi.”

 Si imbarca su una nave clandestina al prezzo di ciò che possiede ma l’ l’imbarcazione affonda durante la traversata e Awa si salva per miracolo; viene portata sotto shock in un ospedale dal quale poi fugge per continuare il suo viaggio: “Era come se la mia vita all’improvviso fosse diventata qualcosa di molto piccolo e insignificante. Spazzata via da una grande marea sulla quale non avevo alcun controllo e tutto quello che potevo fare era tentare di restare con la testa sopra l’acqua per non annegare.”

Illegale e senza più documenti incorre nell’infausto destino di molti profughi : entra clandestinamente nel paese trasportata da un camion fino al confine, è assalita sessualmente e poi lasciata nelle mani di una donna che la sfrutta come schiava domestica per alcuni mesi fino a quando  non riesce a fuggire. Mentre la situazione politica deteriora ulteriormente in Mali navi di emigranti, di rifugiati fuggendo l’avanzata degli islamisti approdano sempre più frequentemente sulle coste del Mediterraneo là dove l’Europa reagisce lentamente, a fatica e quasi  paralizzata dalla crisi globale in atto dichiarando lo stato di emergenza, di allerta di fronte all'ondata migratoria dilagante. 


Tuttavia anche, un altro volto del Mali appare in questo dramma, l’immagine di un’altra epoca che affonda le proprie radici in un passato regale, in un impero prospero e influente fino al XVII secolo. Là la narrazione resta legata all’oralità, al canto, alla musica e alla parola poetica come storytelling, poesia e saggezza antica tramandata di generazione in generazione dai griot africani che, nello spettacolo, accompagnano con la loro musica, al vibrare della chora, la danza e la parola. L'arrivo d’una corte maliana regale giunta far visita a quella inglese del XVI secolo restituisce un’altra storia al continente africano, un altro punto di vista, il rovesciamento della prospettiva dove l’Africa non appare più  come quella parte del mondo privata oggi d’ogni mezzo o risorsa e tagliata fuori dall’asse di influenza della geo-politica mondiale ma come un luogo dalla cultura e la  storia ancestrale,  un paese quasi utopico di pace e prosperità dove si riconosce la coesistenza pacifica tra gli individui e il libero culto delle religioni, dove si vive nel rispetto dell’ altro, dell’ ordinamento esistente e della storia come del valore d’un passato condiviso e tramandato di generazione in generazione. Da tale punto di vista volutamente straniante uno sguardo critico è gettato sull’Europa occidentale del XVI secolo per mostrarne, nella tradizione di tutta una letteratura filosofica e di viaggio da  Montaigne in poi, le deformazioni politiche e di costume , le guerre fratricide o di successione, infine le persecuzioni religiose entro uno stesso credo.

Come l’avvocato bianco britannico di Awa afferma in una discussione serrata, introspettiva e critica con l’ufficiale nell’epilogo della storia “Ho sempre pensato che la storia segua una traiettoria diritta, lineare; crediamo di poter imparare dai nostri errori e di diventare migliori nel tempo ma continuiamo a ripeterli. Abbiamo scavato e estratto il nostro piccolo dominio prezioso di risorse da questo paese, instaurato regimi violenti e ingiusti e poi, quando tutto appare crollare, alziamo le mani nell’orrore e ci allontaniamo. E quando quei pochi disperati fortunati abbastanza per fuggire siedono di fronte a persone come voi e noi,voi date giudizi sulle loro vite, se i traumi che hanno appena avuto il coraggio di raccontare siamo genuini o meno (…)Noi non abbiamo assunto la responsabilità per l’orrore che abbiamo creato in questi paesi; mi chiedo se questa non è forse un test, una prova per l’occidente, e se lo è noi l’abbiamo sbagliato completamente.”


E’ , infine, lo sguardo auto-riflessivo di un impero britannico che a un secolo quasi di distanza  dalla fine della colonizzazione guarda al proprio passato di predominio sull’Africa e il sud-est asiatico, in un certo senso agli errori commessi dalla storia che costantemente si ripercuotono e si ripetono, o ricadono malgrado quanto se ne dica sull'attualità del presente. Quella coscienza occidentale cerca qui un modo nuovo di rapportarsi al proprio passato coloniale e, insieme, a un continente stigmatizzato, a lungo considerato “perduto”.  
Alla fine del dramma l’atto simbolico di un abbraccio, di un bacio condiviso tra la giovane principessa africana e l’ufficiale britannico appare come un modo di ripensare la relazione di potere tra colonizzatore e colonizzato mentre il vecchio continente tende la mano a questo altro nuovo ed emergente o riemergente in una stretta simbolica e pacifica tra i due quasi volesse rinegoziale la storia e dunque  le sue conseguenze sul presente a un secolo di distanza dalla fine dell’impero. Simbolicamente, lo scambio di un dono ancestrale che  Awa cede all’uomo - la collana preziosa che avrebbe garantito protezione alla persona che l’avesse portata e passata alle generazioni successive - sancisce tale abbraccio simbolico tra i due. La scena sembra implicitamente voler riconciliare le prospettive della storia, i due volti dello stesso personaggio proveniente da epoche diverse, i due destini opposti di prestigio e oppressione, lo iato tra passato e presente e farli confluire dentro un’immagine nuova per il continente africano, forse un modo nuovo di pensare la storia o il il corso di un destino.  



Nel finale  danzatori e attori su scena neri per la maggior parte e pochi bianchi in mezzo a loro accompagnati da un canto lento e avvolgente al suono malinconico della chora incominciano all’unisono il movimento d’una pulsazione simile a un respiro e a un battito comune, il loro costato sollevandosi in un moto condiviso, in uno stesso ritmo amplificato dal ritmo del gruppo. A poco a poco espandono questo battito, lo fanno proprio fino a diventare corpi che vibrano in un solo respiro, dentro un solo cuore, quello che batte per la loro terra, per il destino del loro continente,per una storia condivisa mentre le didascalie ci raccontano che il Mali fu in seguito invaso dall’impero Songhai perdendo il proprio predominio nella storia.
I corpi degli interpreti con le spalle al pubblico si allontanano camminando verso l’oscurità al fondo della scena, poi si volgono a noi all’improvviso e s’arrestano. Con movimenti lenti, appaiono chiamare verso di loro il volto, il corpo di un uomo bianco rimasto a lato in esterno a guardarli, a giudicarli senza comprendere. L’uomo si avvicina, diviene parte del gruppo, insieme a loro nel battito comune. I loro palmi ora sono volti verso l’alto, gli occhi socchiusi, la tensione palpabile sulla pelle mentre retrocedono, si allontanano definitivamente verso  le quinte.

Immagini video di volti, di ritratti in primo piano ovunque si proiettano attraverso i corpi degli attori e sui muri, limpide e meravigliose. Amplificate nel silenzio parlano, gridano o sussurrano a noi spettatori, quelle stesse immagini che avevano risposto visivamente in vari momenti alle parole nello spettacolo. Volti neri e bianchi, africani, europei e medio - orientali, grandi occhi limpidi o altri oscurati dalla rabbia o dalla disperazione,   gruppi di popoli, individui visti nella rivolta, nella sovversione, nel rovesciamento politico di un sistema o nel primo piano di sguardi d’una sorprendente bellezza. Uomini, donne e bambini, una miriade di immagini parlano della storia contemporanea, della nostra attualità di migrazioni, guerre e flussi di popoli in fuga da una parte all’ altra del mondo e si rivelano allo stesso tempo limpide, poetiche, riassumendo in loro stesse tutto il senso di questo teatro.