sabato 19 novembre 2011

Note su Diane Arbus, Retrospettiva, Jeu de Paume, Parigi







                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            




Indossare sé stessi come si indossa una maschera, e dietro questa un’altra e un’altra ancora, tale é entrare nel circolo decentrato dei ritratti , nella serialità divergente dei volti  di Diane Arbus.
Il suo lavoro rinvia all'interrogazione costante, alla fessura aperta tra l'essere, il dovere o voler essere e l’apparire altro.
La costruzione del sé, del volto come  identità, si rovescia nel cedimento della medesima di fronte alla non-concidenza, all’inadeguamento tra forma e anima.
La costruzione fittizia d'un volto femminile, nascosto da una cortina nera e coperto da uno spesso strato di trucco, é colto giustamente in  questa impostazione o impostura di presenza.  Volto-maschera, simulazione, facciata, simulacro in variazione eccentrica di sé stesso nell’assenza di  un modello originario.

Giovane famiglia a Brooklyn": l’impalcatura dell'essere sociale, della figura in quanto costruzione rispondente alla norma della società americana é confrontata al punto della sua incrinatura o non-tenuta, tali le crepe che s'aprono, che si intravvedono sulla realtà costituita per il solo fatto d'essere  messe “in quadro”, portate in superficie dal processo fotografico.  Cosi’, la semplice smorfia di un bambinetto preso per mano dal padre va a infrangere il quadro glorioso, idealizzato  della visione famigliare in America.   

Fotografare il cedimento della figura in quanto realtà sociale apparente e costituita significa in Arbus fotografare la differenza compresa come ogni forma d' anomalia, d'anormalità, di marginalità, di follia, di deviazione o devianza rispetto al quadro del giudizio normativo , al modello identitario dominante. A un certo livello cio’ si traduce nella scelta di soggetti eccezionali, extra-ordinari dalla singolarità affascinante o mostruosa, il lungo corteo di personaggi “mostri”che popolano negli anni il suo universo fotografico; ma, a un altro livello, é la superficie più “normale” , più conforme della realtà quotidiana ad essere smascherata come impalcatura fittizia, tanto più costruita, abnorme, anormale che l'altra.

La demistificazione di realtà va di pari passo con la sua iconoclastia suggerita, non apertamente convocata, insinuata al limite della fessura, della crepa, nello spostamento sottile del binomio verità-realtà, al limite della sua piena credibilità o autenticità come tale, dunque nella destituzione della medesima da una posizione di sacralità. L'iconoclastia suggerita non é cancellazione o assenza d'immagine ma  immagine-ritratto che si mostra in questa rottura voluta, inevitabile, prodotta dalla mediazione fotografica. La visione, per esempio, del giovane americano,  con abito impeccabile sventolando una bandierina patriottica, celebrazione dell'ideale nazionale, é messa sullo stesso piano della deformità, dell'esposizione del corpo senza maschere, nudo, “nudista”, informe nell' abbondanza liquescente della carne.
Difficile trovare in queste fotografie  momenti di autenticità epifanica, di vero trasporto o riconciliazione con la realtà. Più spesso quello che vi appare è la cesura, il meccanismo contrario di scollamento dell’immagine, della figura che, messa alla prova di verità, senza concessioni né intercessioni, sembra d’un tratto cedere, non reggere il confronto con la critica della realtà.

Nuvole re-inquadrate in schermo fittizio di gigantesco drive-in, un mangiatore di fuoco in una fiera paesana, bambinetti al parco facendo smorfie all’obbiettivo,
l’ uomo senza testa in un’ installazione da circo, clown, funambuli, equilibristi e trasformisti.
Volti-maschere, volti in travestimento carnevalesco, dettagli di torsi nudi in gioco di multiple inquadrature  tra vetri e specchi, ragazzina gitana  a piedi nudi su un sentiero di terra battuta, vecchia signora borghese in strada;
volto-cortina, occhi socchiusi, calco di cera museale ma attraversato da grinze, rughe, stirature di pelle.
Tale rifacimento plastico della figura é volutamente colto in un' eccesso di forma, nell' estremo di un fittizio-iconico simulato che ne denuncia implicitamente la credibilità. La chiarificazione ossessiva nella scelta stilistica del ritratto passa attraverso forme volutamente colte nell’immobilità della loro identità sociale e poi il punto dove questa cede, si scolla o lascia intravvedere linee di sutura, di sovra-cucitura e insieme minuscole fessure di superficie.
Ritratti iconici di giovani ragazze benpensanti in strada, “il folle uomo nudo”
completamente tatuato sul torso con un solo occhio, figura di doppio in “mezzo uomo, mezza donna”, ragazzini con maschere del “fan club dei mostri” sui gradini d'una casa in America. “L’uomo che ingoiava lame di rasoio”, un bambino con il viso coperto di carbone, la ragazza con il cappello e i guanti, l'uomo dagli aghi piantati sul viso in diversi punti.
Gemelle siamesi su una spiaggia, neonati siamesi in scatola di plexiglass, coppie, doppi, sdoppiamenti, ripetizione in serie della stesso, serialità messa alla prova;
nella ripetizione qualcosa accade.

Quadri, specchi, schermi, gioco di inquadrature e rinvii di immagine. Il mondo è inquadrato, messo in cornice, “in  scena”  attraverso le sue individualità e, insieme, leggermente spostato  dalla cornice della sua presunta apparenza o veridicità.  
Una casa a Hollywood nel 1962: facciata apparente,  visibile in primo piano e messa a nudo della medesima come semplice impalcatura svuotata alle spalle,  dissecata, lasciata alle sole assi portanti, sottoposta al processo fotografico che,  inevitabilmente, ne mette in scena la demistificazione. 








Da un frammento dei suoi diari...riscrittura

“Hotel magnifico, immenso, bianco, sconfinato. Hotel a fuoco ma l’incendio si consuma lentamente", talmente lentamente che quasi non se ne ha la certezza,
la certezza della sua presenza e la gente  continua a entrare e uscire liberamente dal luogo come se nulla fosse. Non riuscire a vedere il fuoco ma sentire solo un fluire leggero, un flusso appena percettibile nell'aria come una nebbia sottile, vellutata, aleggiare, diffondersi, posarsi più densa intorno alle luci.
Spaventosamente bella, lieve, quasi impalpabile allo sguardo addensarsi a tratti in qualche punto come una cortina densa, immobile sui volti, tanto più invisibile.

Non avere molto tempo e sapere di dover fare qualcosa, qualcosa di  importante prima che la situazione precipiti e il panico esploda nell’edificio, prima che l’allarme cominci a risuonare  e la fuga, la lotta feroce, la gente precipitarsi, disperdersi, correre  in tutte le direzioni. Entrare in una stanza per recuperare qualcosa,  oggetti personali, cose che vorreste portare con voi, salvare dalla distruzione ma non riuscire a trovarli; non sapere esattamente dove, quanto tempo vi resti, cosa fare, da dove cominciare, fotografare, quanto tempo ancora, in quanto tempo la cosa esploderà, quali immagini salvare.

Forse che non hai abbastanza sangue freddo e non riesci a fare spazio, fare il vuoto nel pensiero e nel corpo per concentrarti solo su quello che vedi, trovare l’inquadratura giusta, il punto esatto della luce, forse che non hai abbastanza tempo per riflettere, scegliere il soggetto senza esitazione e sei costantemente interrotto. Forse che la pellicola é terminata e non  ne hai altra per continuare, forse che anche volendo sarebbe impossibile, forse che ci sono troppe voci intorno e la gente comincia a affollarsi, attraversare, correre lungo i corridoi, discendere le scale frettolosamente, riempire la hall dell’hotel. Precipitarsi senza una meta e tutto sommuovere, muovere intorno, volgere all’infinito, in un indefinito illimitato,
in un continuo ma quasi al rallentatore, in un movimento attenuato, trattenuto, a metà arrestato. Senso di rapimento, di stasi non voluta, forse l’angoscia di non poter continuare. “Una specie di estasi calma e dolorosa”, bloccata come quando si vuole correre fuori, uscire a tutti i costi  ma qualcuno vi trattiene perché l’orario non é ancora passato e la sirena non ha ancora suonato per annunciare l’ora dell’uscita. 
Senso di rapimento attonito, incantato, tuttavia disturbato da quello che viene a interromperlo, a importunarlo, come il senso di non poter procedere e salvare sé stessi, le cose intorno, le immagini anche.
Stranamente soli nonostante tutto, nonostante un mondo esploso intorno. La gente non smette di irrompere. Arrestati in questa sorta urgenza estatica, al rallentatore, assopita anch’essa sotto l’occhio d'un ciclone.






Diane Arbus, intervista immaginaria






"Quello che amo soprattutto é andare dove non sono mai stata prima". Per me c’é qualcosa di  straordinario nel fatto di entrare nella casa di qualcun’altro, nel vedere le cose che gli appartengono come si penetrasse nel suo mondo, in un universo a lui solo,  perché le cose partecipano della nostra irradiazione intima, e si impregnano della nostra natura.  Guardandole, é come entrassimo con discrezione nel mondo di qualcun’altro, rubando qualcosa del suo essere per farne un’immagine, portarne in superficie un’essenza.  “Quando il momento arriva, é come si andasse a un appuntamento con il destino, l’appuntamento con uno sconosciuto. Accade sempre qualcosa, un’impressione di familiarità e poi, la sensazione strana, manifesta che sia assolutamente inevitabile.”


“Tutti hanno il desiderio di voler dare di sé una certa immagine, di voler essere qualcosa di fronte al mondo, ma spesso altro appare nella realtà ed é in questo scarto, in questa fessura sottile, appena percettibile a occhio nudo che si situa la fotografia. Vedete qualcuno per strada e, quello che notate essenzialmente é la sua particolarità, l’eccezione, se vogliamo lo scarto dalla norma”.
Costruire un’identità ancorata a una certezza del sé puramente intellettuale, vivere in questa sfera dell'individuo principalmente mentale; eppure, spesso, altro appare nell'ordine della percezione, nei mondi sottili della realtà  più complessa del corpo energetico, eterico, sensibile o sovra-sensibile che pure compongono il campo espanso, la sfera più ampia della nostra totalità d'esseri umani.  Gran parte della nostra vita la spendiamo in investimento di forze ed energie per mantenere di noi una certa immagine intatta, plausibile, rassicurante nella quale andare a pararsi,  della quale vestirsi, rivestirsi per assicurare l’apparato costruito con tanta cura del nostro vivere sociale . Eppure al di là delle etichette ,  delle categorie e dei giudizi che adottiamo per ricondurre le differenze al sistema di analogie o somiglianze, per far convergere  lo sconosciuto nel conosciuto, la molteplicità disordinata, il continuo delle nostre fluttuazioni interiori al piano ordinato delle nostre rappresentazioni, non possiamo impedire tali passaggi repentini di coscienza, tali scivolamenti fulminei, non voluti dei sensi, al limite non possiamo impedire al pensiero di pensare altro, ai sensi di sentire altro, allo sguardo di vedere altro: il punto di rottura, l’incrinatura, la non coincidenza esatta tra l’intenzione e l’effetto. Voglio dire, se osservate la realtà da molto vicino può apparirvi qualche volta assurda, inverosimile, surreale. C’é qualcosa di molto ironico nel fatto che l’effetto che volevate creare nella realtà non é mai quello che avevate desiderato. Cio’ tende a dire l’impossibilità di uscire dalla propria pelle per entrare in quella degli altri, che l' oggetto là fuori del vostro sguardo  non é mai dato, neutrale, scontato, facilmente assimilabile e che, nel gioco di rispecchiamenti, di sovrapposizioni e scarti tra sé e l’altro si situa tanta parte del problema.

 “Una fotografia deve essere specifica”, più riesce ad essere specifica, più entra nella singolarità, nell’eccezione, nel dettaglio, nella differenza irriducibile  che ogni cosa porta in sé, più toccherà qualcosa di universale, una verità, un’evidenza sottotaciuta passando per questo sentiero esiguo della sensazione, d’una sensazione singolare, unica, irriducibile legata allo spazio-tempo d'un momento, solo in questo modo essa riuscirà ad essere universale, a toccare una verità dove altri potranno riconoscersi passando attraverso il loro  singolo micro-cosmo d'appercezione.

“ Il processo fotografico stesso ha una sorta di rigore, d’esattezza infinitesimale alla quale dobbiamo sottometterci. La macchina non ha l’indulgenza dell’essere umano, in quanto macchina ha il potere d’essere più fredda, più dura, più distaccata. Non che debba essere spietata ma non deve passare "accanto" alle cose, a lato della realtà, evitare di guardarle in faccia o guardarle solo a metà. Non deve indugiare sul politicamente corretto, sul conveniente del senso comune, sul forzatamente bello, esteticamente apprezzabile o commercialmente richiesto. ”

 “Ho molto fotografato i fenomeni di fiera, i primi soggetti che ho scelto, li trovavo esaltanti. C’é questa qualità straordinaria dei “mostri”, come i personaggi dei racconti fantastici, gli esseri abnormi, minuscoli, giganteschi, solo a metà umani, non celesti né infernali,  in parte investiti d'attributi primordiali, bestiali; poi gli esseri con qualche deformità, fisica o d’altra natura, deviazione, devianza, errore rispetto alla norma e, ancora, i marginali, i margini, le scorie , i rigetti, i lasciti del sistema. Infine, i personaggi da circo, i clown, i mangiatori di fuoco, i divoratori di coltelli, i funambuli, gli equilibristi, i trasformisti e più in generale ogni qualità d' esseri umani che espongono apertamente una differenza tangibile, manifesta come segno costitutivo, difensivo della propria identità, d’una identità innegabilmente iscritta disseminata negli angoli, le pieghe, sulla superficie "estensa" o i risvolti interni del proprio divenire-altro. “La maggior parte della gente vive con la paura d’essere sottomessa a tale differenza, che é anche la paura di un’esperienza traumatica. Loro, i mostri, hanno già superato la prova per la vita, per questo sono divenuti degli esseri altri, degli aristocratici forse.”

“ Qualche volta guardo una fotografia, una pittura e mi dico, é molto bella ma non é questo”, anzi qualcosa mi disturba della sua eccessiva perfezione come trovandosi in un sogno, in un mondo fittizio, simulato, costruito e non essere sicuri che sia il vostro, che vi appartenga veramente. “So in un modo che mi é completamente personale che la verità é veramente altra”, e forse non é possibile avvicinarla se non nella consapevolezza del suo inganno, del suo mascheramento, toccarla se non nella misura della sua incrinatura, del suo "errore".:p>

“All’inizio prediligevo immagini molto granulose", ero affascinata da tutti i piccoli punti che componevano una specie di tessuto, tessitura o trama e si traducevano in un reticolo stellare di forme. La pelle diveniva simile all’acqua che diveniva simile al cielo e non ci si preoccupava troppo della luce e dell’ombra, molto poco della carne e del sangue. Ma, dopo un certo periodo lavorando su questi punti minuscoli ho avuto voglia di uscire, di vedere la vera differenza tra le cose. Non parlo delle qualità tecniche dell’immagine, volevo sentire la differenza intrinseca, minimale al contatto, nel continuo insondabile tra la pelle e il tessuto, la densità di diverse materie, l’aria, l’acqua, l’opaco e il brillante. Poi ho cominciato a diventare estremamente ossessionata dalla chiarezza”, dalla necessità di ordinare, fissare ogni cosa al proprio posto sulla superficie. Fare chiarezza, domandare, ordinare chiarezza ai volti,  dentro i volti stessi di individualità sociali o marginali, fin dentro i volti dell’essere esigere questa chiarezza d’una maschera esposta, messa a nudo, scarnificata, direttamente scardinata dalla superficie del dover essere, imponendo uno stile, un disseccamento rigoroso all’immagine per raggiungere tale stadio ultimo di figurazione. 


“ Fotografare: in passato era l’impressione di intervenire tra due azioni, tra un’azione e il suo silenzio, il suo arresto, era come una pausa di sospensione, lasciare un’impronta ad occhi chiusi, era come essere completamente ciechi al momento dello scatto, perché il flash fotografico altera enormemente la luce e rivela cose che non vedreste o non vorreste vedere ad occhio nudo”. Scoprire con stupore a che punto si puo’ amare quello che non si vede in una fotografia, un’oscurità quasi fisica, tangibile, quello che non sai del tuo corpo come  fosse la tua pelle, attraverso quella d'altri, ad essere implicata in primo luogo nel processo.
 Esaltante ogni volta ritrovare tale oscurità nelle forme, nei volti o nei segni degli oggetti  che traspaiono attraverso il tuo lavoro quotidiano.

“Quello che mi appassiona nella scelta del soggetto, é che essa sembra venire da un luogo molto lontano”, da uno spazio inconoscibile, molto più indietro nel tempo come se la scelta effettuata attraverso il vetro riflesso fosse stata fatta molto prima sotto il segno del segreto, il segreto del suo segreto che la foto ancora continua a emanare senza saper svelare.

“Questo genere di cose sottili e inevitabili: la tendenza ad avvicinarsi sempre di più alla bellezza delle proprie invenzioni. La luce che emana ogni essere, una qualità dell’immagine, la scelta del soggetto, tutto questo gioca un ruolo fondamentale nella nostra ricreazione di realtà. Ci sono un milione di micro-scelte da fare, complesse o evidenti, banali o imprescindibili, ma nessuna di queste é veramente intenzionale.  Infiniti minimali spostamenti, riaggiustamenti di prospettiva, riconciliazioni, deviazioni, rovesciamenti di spazi o angoli di visione: mosso, immobile, fluttuante, vicino, lontano, tagliato o re-inquadrato, fuori campo, fuori quadro,
uno multiplo, doppio, in serie, a catena a ripetizione,
rimpicciolito, in dettaglio, espanso.

“Cio’ che resta quando tutto il resto é tolto”. Credo che le più belle invenzioni siano quelle alle quali non si é mai pensato. Alcune immagini sono lampi  di conoscenza diretta, limpide intuizioni, apparizioni fugaci, corto circuiti tra sensi e intelletto,  folgoranti messaggi in bottiglia, criptati, i cui codici segreti, senza che li conosciate, divengono per un istante leggibili, anche a voi manifesti.  Fotografie apparentemente venute male, “non riuscite”,  possono farvi vedere cio’ che manca, l’assenza di quello che non avevate visto, la percezione di tale 'non presenza', la cosa che in negativo riconoscete non vedendola o non avendola trovata.

“ Una cosa curiosa: non ho mai paura quando guardo attraverso la lente dell’obbiettivo. Qualcuno potrebbe avanzare verso di me con un revolver, avrei i miei occhi incollati al vetro ed é come se diventassi invulnerabile. Anche se ci sono limiti é come se non né esistessero in quel momento. C’é una sorta di potere misterioso che emana la macchina fotografica, tutti se ne rendono conto. C’é in questa cosa segreta che portate  in voi, una certa magia che agisce sulle persone, che li impressiona in un certo modo.”

“La cosa importante é sapere che nulla si puo' sapere”, che si va alla cieca dall’inizio gettando le mani avanti nel vuoto, si cammina rotolando sul suolo,  si tasta nel buio per trovare il cammino. Una cosa che m’a colpito da subito é che non mettete mai in una fotografia quello che ne verrà fuori. O viceversa, quello che appare non é mai quello che volevate farne, l'idea che avevate all’inizio. Non ho mai preso le foto che avevo intenzione di prendere.
Per me il soggetto é più complicato dell’immagine, più complesso, più sottile, in qualche modo più intransigente.

Penso veramente che quello che appare, si dà o si lascia intravvedere in un preciso momento spazio-temporale viene alla superficie auto-rappresentandosi. E tale  bisogna che sia.

“Ci sono cose che nessuno vedrebbe veramente se non fossero fotografate, se non passassero per un processo sottile di “messa in scena”, “in superficie”, “in atto,”
in quadro o meglio nella loro squadratura, se non fossero sottoposte a questo processo di spostamento sottile, di rinvio attraverso una visione differita, se non fossero inquadrate, guardate, rovesciate fino a rovesciarsi a loro volta come oggetti d’una loro propria verità, a darsi nel loro rovescio, nella loro linea di sutura, di cucitura e scollamento, se non pesassero, pensassero, passassero attraverso questa lente di ingrandimento, di messa a distanza, di rovesciamento dell’obbiettivo;
nella portata impersonale, spietata, nel rigore preciso, esatto della macchina, nel punto ineluttabile di sospensione dove la cosa non può passare inosservata, sottrarsi, passare a lato della realtà inquadrandola. La fotografia é tutto il mistero di questo passaggio.  





mercoledì 2 novembre 2011

A proposito di Romeo Castellucci, " Sul concetto di volto nel figlio di Dio", Théâtre de la ville, Parigi



“Ogni spettacolo ha bisogno di un’idea, un asse portante, una spina dorsale”, afferma Castellucci, idea filosofica o plastica che sottende il movimento scenico, la messa in atto del meccanismo drammatico . “Mi sono voluto soffermare su questo volto dipinto da Antonello da Messina, il Cristo Salvator mundi  che guarda noi spettatori dritto negli occhi prima di offrirsi al nostro sguardo”, e, allo stesso tempo si dà, si espone come specchio riflettente, schermo, fondale o immagine trasparente contro la quale si infrange e si trasforma la portata emozionale della nostra visione. Questo viso totalmente presente entra in un incontro intimo, individuale con lo spettatore; é come una luce divina che chiarifica e irradia, un’emanazione dal volto, immagine dalla portata messianica, sacrificale. Testimone silenzioso al centro della scena assiste alla bassezza triviale della situazione vestendosi d’una trasparenza o pietas universale, amore- comprensione, compassione in assenza di giudizio, luce benefica che eleva dal fondo dell'essere, silenziosa, astratta data in un rapporto di estraneità all’uomo e, dunque, destinata alla sua definitiva liquidazione in quanto volto.

                                                                                                                                  

Il termine greco “kenosis” citato dal regista é svuotamento, perdita di sé,  perdita di sostanza, liquefazione dell’essere ricondotto alla propria fecalità ma anche la divinità uscita dalla propria dimensione “divina” per incarnarsi nella sofferenza della carne, della vita sulla terra, il dio che si mostra all’uomo con un volto del tutto umano, illuminando dall’interno la divinità presente in lui, dentro l’uomo stesso, in questo infinito di reincarnazione, di discesa nella condizione terrestre, miserabile, impermanente come il suo passaggio obbligato sulla via sacrificale. “Kenosis”, dunque, il corpo svuotato dell’uomo e, insieme,  il corpo di attraversamento del Cristo.

 La scena degrada da un inizio iper-realista in un interno borghese, di un appartamento ultra-moderno, assolutamente asettico, rischiarato da una luce fredda, bianca neutrale, “senza macchia”, a una deriva progressiva del medesimo, intaccato, degradato dall’incontinenza che comincia a invadere lo sfondo  impersonale dato, incontinenza nel disfacimento organico del corpo, protratta a ripetizione sotto i nostri occhi mentre il figlio non smette di pulire, ripulire e lavare le feci lasciate dal padre, liquescenza incontenibile della carne fino a minare, soppiantare, distruggere l’apparenza asettica, lo sfondo realista dell’ambientazione.  
Deriva progressiva fino a far emergere il caos, la collera, il pianto dell’uno,  la reazione paradossale, disperata, disperante dell’altro.

Da un lato assistiamo all’umiliazione del vecchio mostrato in uno stadio di impotenza, disarmato, inerme di fronte alla propria animalità, al di qua della vita lo svuotamento del suo essere corporeo nell’ incontinenza, la liquidazione del sé in un liquame di materia putrida colante ai suoi piedi.  Lui, esposto, messo a nudo, letteralmente denudato e lavato sotto ai nostri occhi. Tuttavia, nel gioco di rispecchiamento,  noi stessi siamo guardati, messi a nudo da quest’altro sguardo, l’umiliazione del padre e la pietà sottomessa del figlio anch’ esse sono poste sotto la luce d’un volto altro, divino,
la figura cristica, sguardo che illumina la scena d’ una luce altra, smisurata, astratta come una vera e propria irradiazione per riscattare la realtà scatologica più bassa della miseria sulla terra. Il figlio di Dio è volto, il volto del sacro per eccellenza, colui che si svuota della sostanza divina per divenire sguardo che guarda all’ infinito, pathos, patire con, assistere al patimento senza giudizio.



In questa idea di teatro gli attori non sono personaggi o ruoli predefiniti ma invece “portatori di segni viventi”, portatori d’immagine, immagini loro stessi non per la portata discorsiva  che trasmettono su scena ma come forme plastiche che si impongono nell’opacità del loro esserci,
figuralità che nasce dal fondo del linguaggio, nella violenza che lega il visivo al desiderio prima che alla volontà di rappresentazione.


L’idea di volto che crea lo spettacolo , intorno al quale ruota tutto la messa in scena, si fa schermo riflettente dello svuotamento del corpo in atto, della liquescenza della carne che a sua volta ritorna alla figura  cristica come lacerazione dell’immagine, strappo sulla tela, colata di nero che cancella quello stesso volto. La dimensione scenica assume qui proporzioni escatologiche, diviene metafora dal valore universale, vestendosi d’una portata ontologica, esistenziale. Un uomo é solo di fronte a un volto immenso, dalle proporzioni, smisurate, questo volto d’una purezza inavvicinabile che lo sovrasta e tuttavia non riesce a riconoscere, a raggiungere restando per lui estraneo, fuori della portata umana, sussurrando parole nel vuoto contro la sua bocca, contro una parete rifrangente di suoni appena mormorati, senza ritorno, volgendo le spalle a chi guarda.

Sulla scena vuota preda della dispersione, del caos, delle scorie lasciate dal disfacimento precedente, il “Volto” resta immerso nell’oscurità d’uno spazio senza fondo ormai disertato d’ogni presenza umana. La sua potenza  d’una purezza folgorante sembra, tuttavia, non poter rispondere all’appello, al grido disperante dell’individuo. La superficie tenue della tela, la membrana sottile che ancora la separa e la preserva nel suo essere figurale appare a poco a poco tendersi, assottigliarsi, attraversata da una miriade di micro- forze, zone d’ombra, macchie di nero che cominciano a espandersi, impossessarsi di parti del volto, avanzare in un oscuramento progressivo del medesimo, creare zone d’insondabilità che poi divengono colate di colore a fiotti, liquido sull’epidermide-tela, colare, colore, far colare il nero, liquefare come lacrime o sangue, liquidare letteralmente il volto. Il nero scivola a fiotti, rigature, rigagnoli di vernice, in colature di sangue o acqua lasciando trasparire tramature lunghe, informi e oleose. L’immagine é progressivamente soggetta a un processo di rigatura, di cancellazione definitiva, graffiata, coperta, fatta scomparire a poco a poco nella lacerazione della tela che comincia a a partire in brandelli  ai margini della scena sul fondo di sonorità infernali.
La terra é immersa nell’oscurità della morte e passione di Cristo, la sindone lacerata impressa dei segni del corpo vivente, deposta come la medesima sul fondo della scena lascia posto a una parete gelida, irta,  purgatoriale di uomini intenti alla sua scalata nel freddo dell’esistenza terrestre sul fondo d’una frase, asserita e negata insieme, come l’infinito della sua non risolta contraddizione:  “you are (not) my shepard”.