venerdì 28 dicembre 2012

su "Apocalisse e Rinascita", Felice Nittolo, (galleria Niart, Ravenna)







Bufera di rosso, turbinio di colpi, colate di rosso colore intenso, condensato o disteso a spanne, a pennellate irregolari per questa serie pittorica astratta e informale ispirata al tema Apocalittico della fine del mondo ( secondo il popolo maya fissato nella data del 22 dicembre '12). Nel testo biblico l' Apocalisse di Giovanni coincide con la venuta messianica del nuovo regno dello Spirito portato dal Cristo dopo il giudizio finale, alla fine della lotta escatologica tra la forze di luce e di tenebre, con la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme celeste come l’avvento di un mondo nuovo, d’una nuova terra illuminata dalla fiamma divina perché il cielo e la terra precedenti erano affondati sotto il peso dell’iniquità degli uomini. Tale dimensione metafisica, profetica di “fine del mondo e “rinnovamento” del medesimo ispirata al tema apocalittico appare immediatamente riassorbita e infusa, fatta passare direttamente nel sostrato d'una pittura colore e sostanza di Felice Nittolo, filtrata nella sua più pura vibrazione cromatica –dalla vitalità violenta del rosso all’energia rigenerante del verde- tale, il gesto inconscio, istintivo che si unisce al supporto materico nel tracciato astratto d'un segno per dare vita all'avvenimento pittorico.


Nella prima parte del testo biblico di Giovanni dopo l’apertura del settimo sigillo seguono i suoni di sette trombe aprendo i quadri dei diversi flagelli in cui è gettata l’umanità per esecuzione del decreto divino, monito e castigo insieme di fronte al dilagare del male, della crescente empietà degli uomini su terra. “La terra profanata dai suoi abitanti che hanno trasgredito le leggi, disobbedito al decreto, infranto l’alleanza eterna”(Isaia). Per questo il cosmo a tutti i livelli è colpito, per questo fuoco o fiamme ardenti insieme ad altre catastrofi sono gettate sulla terra, sui mari, nei fiumi o nelle sorgenti. I flagelli scatenati da sette trombe prodotti dal fuoco celeste arrivano su terra insieme a scoppi di tuoni, clamori, fulmini e scosse di terremoto. “Appena il primo suonò la tromba grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra, un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.” (Apocalisse . 7)

E’ grandine di fulmini a cui si somma una pioggia di sangue il flagello annunciata dalla prima tromba cui seguono nel testo di Giovanni “una montagna di fuoco scagliata in mare”, il mare trasformato in sangue”, i fiumi, le sorgenti delle acque contaminati da un veleno mortale, gli uomini morti a causa di quelle acque amare, infine la venuta dell'oscurità sulla terra, lo spegnersi del sole, della luna e degli astri nella perdita della luce divina.



“Apocalisse” nell’omonima serie pittorica è distruzione, fuoco devastante, caotico e inesausto rovesciamento di ogni fine del mondo.

Pittura-sostanza, pittura materia e traccia, l’energia particolare di un colore.

Bruciante il rosso è vibrazione vitale, violenta, discontinua salendo a vortice fino alla propria estinzione.

Rosso è sangue, infernale divorarsi o bruciare degli uomini ai demoni della propria iniquità , pennellata materica, fiamma ardente, viva.

Rosso sono queste tracce spesse, corpose, ampie, colate di colore o sangue, grumi di materia, impronte di dita, turbinio nel quale l’energia fluisce, confluisce in una sorta di bufera di tracce, punti o coaguli irregolari.

Turbinio è energia di un tracciato che si propaga intercalato da zone di bianco vuoto, poi concentrazione del medesimo come vorticante in un magma inclusivo, destrutturante o distruttivo per le forme; è sostanza-colore che rapisce e travolge generando il caos contro la vacuità apparente dei bordi, il propagarsi di bianchi interstizi, lo spaventoso aprirsi di margini dilaganti.

Nei manichini deposti al suolo “Apocalisse” sono queste teste recise dal corpo, cadute come meteoriti dal cielo sulla terra, schiacciate al suolo, implose e pietrificate, lasciate colare di rosse tracce laviche, prese a colpi di puntello o d’ascia sulla testa, aperte in varchi irregolari lungo la figura, frastagliate , trafitte, prese a colpi di scure, fatte colare in sangue che poi condensa in aggrumi , in pigmenti di vernice purpurea sulla nuca, la fronte o lungo le spalle.

La cromia del rosso nel suo potere distruttivo è vortice che investe, travolge e rovescia, vortice infernale, turbine d’energia percuotente accumulandosi in sedimenti, grumi o impronte di dita, impronte d’un tracciato-magma con punte di addensamento in tracce e bianchi varchi vuoti intorno.




“Rinascita” spunta come un verde prato dalla terra la mattina del 23 dicembre nell’istallazione in loco, un prato impiantato temporaneamente sul suolo della galleria dopo l’attraversamento della data fissata, reale o simbolica, stabilita o virtualmente indicata come spartiacque, limite, mot de passe, parola di passaggio o varco d’attraversamento d’una presunta fine , tale il rovesciamento dello status quo dell’era precedente, del regno del caos e delle tenebre in cui era precipitato il cosmo. L’impulso luminoso, leggero, lieve e rigenerante del verde si irriga e si nutre della trasformazione del turbinio distruttivo e vorticante del prima su questo suolo regolare e uniforme che sorge dalle profondità della terra, dall’humus freddo, umido della medesima in un'infinità di filamenti d'erba su cui si è invitati a camminare a piedi nudi. Nasce questo prato irrigato della freschezza umida di primule e steli verdi la mattina del nuovo anno come l'energia verdeggiante, rigeneratrice d’ una nuova ecologia dell'anima e del pianeta insieme, e lo si ritrova come un'unità armoniosa, come un'asserzione poetica contro il passaggio distruttivo della bufera, del caos vorticante e apocalittico d'ogni fine del mondo.

Dentro tale bagno cromatico di verde la natura ritorna come una superficie mosaicata a vivo, fili e tasselli regolari impiantati su un selciato d'erba dove poter riposare, rigenerarsi, rinascere in una prospettiva più serena e luminosa. Sullo sfondo, sui muri restano i lasciti, le tracce, i frammenti della rossa bufera, d'un mondo esploso e violentemente partito a pezzi, in mine vaganti, il magma violento di impronte di dita, di mani, di colpi e pennellate materiche, ai margini del suolo i manichini tronchi del terreno bombardato dalle mine esplose, delle meteoriti cadute, dalle teste schiacciate al suolo, i corpi aperti da lato a lato da pezzi d’ascia. Mentre le pennellate, i colpi del rosso si smorzano nella seconda sala si è lentamente immersi nella metamorfosi del verde. Il tracciato performativo dell'istallazione si attraversa come a piedi nudi un prato passando da una spazialità a un'altra, da una temporalità a un'altra, da un immaginario apocalittico e infernale di fine del mondo, dalla vibrazione d'un rosso bruciante, sanguigno e violento che come traccia invade e imbratta le superfici, divora e corrode i corpi, da questa violenza insita in una sorta di devastazione provocata dagli errori e le follie dell'umanità a una sorta di visualizzazione creatrice, di nuova ecologia dell'anima individuale e planetaria; una poetica che lega inscindibilmente in binomio il campo vitale dell’uomo a quello di un cosmo visto come pianeta rinnovato.




sabato 15 dicembre 2012

A proposito di "Psicosi delle 4 e 48" di Sara Kane, ( messo in scena da Nerval Teatro contemporaneo, Ravenna)














La messa in scena è minimalista, volutamente lasciata all’immersione nella più totale oscurità dello spazio scenico, una stanza, una sedia, finestre e porte oscurate, la figura, sola nella più assoluta sobrietà di pantaloni e maglione scuro, semi-immobile, irriflessa nel cerchio di luce pallido, visibile appena a rischiararla. Un corpo femminile solo su una sedia persegue un monologo fatto di frasi spezzate, di ripetizioni seriali, di frammenti violentemente, angosciosamente gettati fuori in un raccontarsi al limite di sé, del proprio stato d’urgenza, di disperazione e scivolamento patologico verso la soglia d’una morte annunciata, auto-imposta e auto-agita. E’ la forza della parola che si impone , nuda, assoluta, isolata e brutale sulla pagina come nella voce di Elisa Pol, in questa versione di “Psicosi delle 4 e 48” di Sara Kane restituita in una sorta di neutralità asettica, distaccata, depersonalizzante (“un attimo di chiarezza prima della notte eterna”) nel portare alla luce il decorso d’una malattia, giorno dopo giorno, ora dopo ora sondandone vertigini di lucidità, in altri momenti l’esplodere improvviso d’una rabbia disperante, ora l’apertura estatica alla totalità di un desiderio irrealizzabile poi la strettoia agonizzante del cammino a un passo dalla morte.

Stati di sofferenza patologica emergono nel “frammentarsi progressivo della mente” del personaggio attraverso il monologo; una mente irriconoscibile a sé stessa, senza forma, preda di questa vertigine deraglia in continuazione, una mente come “diecimila scarafaggi su un suolo” quando un raggio di luce vi entra a rivelare, fare chiarezza su una verità che pochi osano avvicinare.
“Una coscienza antica abita dentro una buia sala da banchetto accanto al soffitto d’una mente il cui pavimento si muove come diecimila scarafaggi quando entra un raggio di luce non appena tutti i pensieri riuniscono in un attimo di accordo un corpo che non espelle più nulla, gli scarafaggi comprendono una verità che nessuno osa nominare”.

 Vive la perdita del sé, la fessura, lo scivolamento verso un territorio-limite oltre i confini dell’io dove la parola scivola, dilaga, dialoga con un sé irriconoscibile, inconciliabile con diversi altri sé, (“ questa follia che mi divora, marionetta in pezzi, ridicola, folle contro la “realtà”); entra in questa frammentazione del linguaggio perdendo la nozione, i confini del proprio corpo, dove inizia, dove finisce sé stesso, gli altri, il mondo, la distanza reale tra la sua vita e la sua morte. Evoca la sofferenza dello “scrivere per i morti, per i non-nati”, questa sofferenza del morire di un non-ritorno a uno stato primario d’amore assoluto, ineguagliabile, inesistente come “ amare una persona che non esiste, sentire la mancanza di quella lei che non ho mai sfiorato, che non è mai nata, nata per essere sola, per amare chi non c’è” e, dunque, contro quell’impossibilità di sanare un vuoto ineguagliabile la carcassa estranea del suo corpo: “ nata in un corpo sbagliato, in un’era sbagliata”.

“Un’eclissi d’argento che cambierebbe il mondo” si oppone all’eterna distruzione nella quale ripiomba il personaggio come un vedere “ora neve ora nera disperazione”, mentre il corpo si scompone, cade a pezzi, scompensa, scompare in “quest’acqua nera, profonda come sempre, fredda come il cielo”. Se la lucidità si affaccia di tanto in tanto come il bisogno vitale d’essere amata è poi lo scomparire, il rapimento e la rottura d’una psiche che conduce inevitabilmente alla sua auto-distruzione a prendere il sopravvento nelle ultime parole del testo, questo “scomparire e lasciarsi guardare scomparire”. Li’ è la fine della piè-ce, la morte annunciata.



 










La forza della parola, del testo scritto è lasciata al massimo grado di impersonalità nella voce attoriale di Nerval Teatro; segue il disordine mentale del personaggio, la cronaca dei suoi sintomi psicotici, poi lasciandosi trasportare in momenti di verità illuminante, estatica, di superamento e espansione illimitata del sé alla ricerca di un assoluto di amore, di salvezza, infine ancora ripiombando dentro l’oscurarsi agonizzante della malattia a ridosso della morte. La forza della parola emerge, dunque, qui unica dall’oscurità immersiva e contro l’immobilità agonizzante del corpo visto immobile in pochi cambiamenti di stato su scena. Il volto solo appare semi-visibile, rischiarato entro un circolo di luce come maschera lapidare, sovrapposizione di strati di pelle per questo volto-maschera che si rivela “dall’interno della psiche”, contro l’oscurità più totale dell’esterno: “volto mai conosciuto, impresso sul rovescio della mia mente”, disegnato da un riflesso di luce marmorea e ugualmente ricoperto da un tessuto di maglia all’apice distruttivo del monologo.

Costantemente su questa linea di demarcazione infranta, su questa crepa sottile tracciata e percorsa tra il cosciente e l’inconscio, il corpo seduto freddamente si racconta, con distacco prima, con neutralità totale, poi allungato sulla sedia agonizzante, ora in piedi nell’urlo, nel grido estatico e disperante insieme, ora ricentrato sul volto coperto e illuminato come maschera granitica, infine, ripiegato su sé stesso assistendo al suo scomparire, spegnersi e poi guardarsi morire insieme alle sue parole .



Siamo dentro la mente, dentro l’universo psicotico del personaggio che diventa l’universo della scena, il nero d’una scena vuota da cui solo una voce emerge, si solleva, si racconta, grida, tace e riprende a tratti, per parti disconnesse, per meteore di parole gettate violentemente fuori infrangendosi feroci, libere nello spazio, a tratti violentemente oscene, graffianti, rabbiose contro il male, contro lo sguardo del mondo come “il fantasma maligno della morale comune”; parole dolorose, a ripetizione simile a lamento sul cammino che conduce inevitabilmente verso la fine, la sua fine.

E’ un universo in cui non esistono più confini, barriere nette tra sé stesso e l’altro, la soggettività e l’esterno d’una realtà oggettiva dove il corpo e la mente sarebbero una cosa sola ; per questo il monologo si frammenta in un dialogo di sdoppiamento tra vittima e carnefice, inquisitore e inquisito divenendo indagine sottile, grido ultimo dal fondo di un non-io, sonda fatta discendere nella “la polvere dei suoi pensieri” attraverso la malattia che cresce nelle “pieghe della sua mente”.








giovedì 6 dicembre 2012

Giuseppe Penone, "Alpi Marittime" (fotografie e altro, Mambo, Bologna)




Giuseppe Penone, (Scritti, 1968-2008)

“Il fiume trasporta la montagna, è il veicolo della montagna. I colpi, gli urti, le violente mutilazioni prodotte dal fiume sulle pietre più grandi con l’urto di quelle più piccole, l’insinuarsi dell’acqua nelle sottili congiunzioni, nelle crepe staccano delle parti di pietra e sbozzano quella forma che con un continuo lavoro di piccoli e grandi colpi si va lentamente formando perché il senso del fiume è quello di rivelare l’essenza, la qualità più pura, più segreta, la maggiore compattezza di ogni singola parte, forma che preesiste, è presente in tutte le pietre ed è la qualità d’ogni singola pietra. (..)E’ l’essere fiume la vera scultura di pietra.”

“Secondo me gli elementi sono fluidi, anche la pietra è fluida, una montagna si sgretola e diventa sabbia, è solo una questione di tempo. La nostra durata di vita permette di dare valori di “duro” e di “molle” ad alcune cose mentre il tempo le annulla. Facendo il lavoro della scultura, che è basato su un elemento duro che si avvicina a uno morbido, come lo scalpello al legno, sono costretto a riconsiderare molti di questi aspetti.”

 



Alpi marittime: La mia altezza, la lunghezza delle mie braccia, il mio spessore in un ruscello” (1968, serie fotografica)


Dentro uno stagno vuoto, dentro una cornice-quadro rettangolare con impresse le estremità del suo corpo, misura i suoi lati, i suoi limiti, l’estensione delle sue braccia, mani e gambe come matrice lasciata, impressa dal suo corpo sul letto di pietre del torrente. Più tardi, l’acqua scorrerà fino a colmare il vuoto dell’impronta della figura ora scomparsa proseguendo il suo cammino nell’infinità del proprio corso.
Immagine d’immobilità e di movimento insieme, la scultura secondo Penone è “l’essere fiume” della pietra, fatta della stessa materia di cui è fatto il fiume, della stessa acqua con i suoi detriti, pietre e scaglie, pulviscoli di terra e d’ossi, minerali, polveri e sassi che trasporta partendo dalla sensazione della materia prima della nostra “separatezza” d’essa, prima della figura, dell’invenzione della forma e del linguaggio . Esiste, secondo l'artista, un rapporto particolare della materia al tempo che “rende fluido il solido e solido il fluido”; la scultura è già là, prima d’ogni azione volontaria esercitata sulla materia per quello che d’essa emerge in questo suo contatto inesausto con il mondo, con le forze dell’esistente, lavorata dalla luce, dal passaggio delle stagioni, dalla corruzione degli agenti del tempo sulle forme. Si tratta, in primo luogo,di cercare una via d’accesso verso questa qualità fluida, mutevole e universale di cui tutti noi siamo fatti in qualche misura, da qualche parte come condizione primaria per iniziare a trattare la materia.





E’ dentro una vuota scatola rettangolare simile a cornice scavata nella terra e ricoperta di sabbia ; la stessa è ora sommersa a raso d'acqua e attraversata da piccoli flutti, guizzi e getti fino a ricomporsi in una superficie riflettente, specchio semi-immobile  tutt’uno con la linea di vita della vegetazione esterna di cui si fa riflesso.
Palate di terra sui bordi per togliere, scavare, portare via, realizzare l’incavo d’una forma dalla quale far emergere l’impronta primordiale del fiume e poi questa traccia lasciata dal corpo nel luogo del suo esistere come lo scavo, il solco del suo destino riassorbito qui da un’apertura più grande, più vasta di forze in gioco risvegliate dall'immanenza della natura.

Cosi’ l’artista inizia a portare via, spalare lontano cumuli di terra e fango impregnati d’acqua, melma densa e fangosa, impasto di terra e foglie, sassi e schegge di legno per lasciare libero corso “all’essere fiume” della scultura, allo scorrere delle acque: ruscello e torrente, ciottoli sul suo letto, lungo il suo corso, nel suo giaciglio naturale, li’ dove si era temporaneamente fatto una dimora, scelto un luogo per riposare con i suoi quattro arti estesi, espansi, misurati dalla lunghezza delle sue braccia.
Sopra la cornice del quadro tutto è lavato via, portato dallo scorrere infinito delle acque, dalla corrente naturale del suo corso.





Giuseppe Penone, “Alpi marittime: albero, filo di zinco e piombo”, (1968).
“I miei anni legati a un filo di rame in attesa di un fulmine”. Sono Impronte di mani su un tronco inciso, stretto, circondato da un filo di rame, su un fondo ghiacciato di montagne e neve intorno in attesa di un fulmineo risvegliato, folgore o folgorazione di luce, trapasso verso un’alterità d’esistere.




Alighiero Boetti, “Non parto, non resto”, (1984); sono in questo stato di non-essere, in questo stato di non essere mai partito, di non essere mai rimasto, in questo diagramma irrisolto tra due metà seriali inconciliabili, quasi identiche, non-vere, non-false, in questo stato di due metà logiche che confutano l’un'altra senza mai essere totalmente una, completamente l’altra. Sono su questi guizzi di nero inchiostro, sul diagramma di fondo della mia esistenza, testura simile a sabbia dipinta di nere onde, diagramma cartesiano con ascissa di lettere d’alfabeto e ordinata di variante libera lasciata alla tessitura possibile della mia esistenza.




Hidetoshi Nagasawa, “Il muro”, Come secchio di colore limpido, tenue, pastello buttato lì contro quella barriera a zig-zag di muro irto come sbarramento, limite, linea ultima d’arresto della parete per renderla umana, avvolgente, d’una vibrazione che calma e rassicura, distesa con spatola e pennellate ampie su campiture irregolare, gettate con foga contro una barriera piatta, bianca fatta di assi di legno a indelebile incastro e sottili lamelle, lamine dorate a ricoprirla; li’ gettata e rimasta in spazzi vivi, in colpi di spugna gioiosi e irregolari per ridare vita, a quel limite ultimo d’uno spazio, d’una atrio, d’una parete troppo immobile, bianca e regolare.










     

martedì 27 novembre 2012

Bridget Baker dal video : “The remains of the father, fragments of a trilogy” (Mambo, Bologna, ottobre-gennaio 2013)











Una donna eritrea seduta al tavolo d’una scrivania in una casa disabitata d’un anonima periferia urbana traduce documenti d'un etnologo bianco vissuto durante il periodo coloniale dal '36 al '41 come funzionario del ministero d'Africa italiana in Eritrea. Alla radio voci fuori campo udibili a distanza ricordano vecchi proverbi africani trascritti da Giovanni Ellero, nelle mani della ragazza scorrono progetti architettonici di ville in stile coloniale, simboli grafici forse appartenenti a antiche famiglie africane, lettere manoscritte.

Riesumare archivi, riaffondare nella memoria dissepolta della storia coloniale italiana in Eritrea e quando i documenti non sono sufficienti, qui lo studio etnografico di Giovanni Ellero, inventarli, ri-appropriarne parte di quelli storici esistenti e confonderli con falsi indizi, materiali aggiunti successivamente o d’ altre fonti, immagini d’Africa dello stesso periodo fino a creare narrative fittizie intessute a partire da una ricostruzione per frammenti nel video.

Bridget Baker: “Andare indietro nel tempo serve a guardare di nuovo la storia. E’ una storia spezzata in cui è mancato l’accesso alla verità. Si è creata una sorta di schizofrenia tra le tradizioni di famiglia e le leggi d’una società che rispetta altre regole. Questo progetto è sul valore dell’identità (..) non è tanto sul lavoro del passato ma su ciò che siamo, un tema che mi riguarda molto per la mia storia di colona britannica arrivata in sud-Africa e con cui non ho ancora fatto i conti.” Diventa un inventare, creare finzioni attraverso un montaggio di frammenti visivi, documenti d'archivio, lettere, fotografie o altri oggetti tenuti insieme secondo una logica non lineare perché come afferma l’artista “non volevo avere il controllo sul processo narrativo, ma imparare da quello con un punto di vista aperto sul tempo e sullo spazio, un punto di vista femminile che intendeva includere me stessa come parte del processo”. Lasciare affiorare nella costruzione stessa del video, il non-detto della narrazione visiva affidata al montaggio fittizio di manoscritti filmati, documenti d’archivio, lettere e fotografie come a ciò che scorre, scivola o si lascia percepire, paesaggio mentale leggibile tra gli interstizi dell’iscrizione filmica .





Spighe di giallo e oro come cannucce al vento in un soffice groviglio di forme indistinte riprese nel pieno d’una campagna verdeggiante; poi un sobborgo urbano di case d'una periferia popolare in abbandono ricordando vagamente i quartieri disabitati di Johannesburg in Sud-Africa.
Colori ocra opachi, spenti, slavati e come ricoperti d’una diffusa patina di nero-fumo o grigio-denso.
Il primo piano d’un cancello chiuso, una porta in cemento blindata, l’oscurità dell'interno dilagante.

L'immagine iniziale d' una distesa di spighe dorate è seguita, in un cambio repentino di scena, da un cancellata in ferro in un sobborgo urbano, il paesaggio d’una sordida periferia all’apparenza deserta;
una porta blindata, una camera oscura, l'atto di entrare in un antro lasciato per qualche secondo all’oscurità più totale dell’immagine, poi il gesto semplice del sollevare una saracinesca, lasciare filtrare la luce, il riverbero d’una luminosità opaca, riflessa, vagamente espansa attraverso la densità immobile dell’aria .

E' questo lasciar entrare la luce, come un rendere visibile nel rituale proprio dell'aprire una breccia, come la necessità prima di “dare a vedere”, entrare in un luogo che appare chiaramente simbolico, lasciato fuori da una reale identificazione spazio-temporale, indagato come un paesaggio mentale, i recessi d'una memoria storica o personale, un insieme di tracce che si esprimono dall’interno d’un pensiero mai completamente cosciente come da una scatola di proiezioni attraversata da suggestioni tattili, visive, cinestetiche e sonore. Creano il tracciato d’ uno spazio fisico e psichico dove sono avvolto, un luogo fatto di indizi da indagare, rivoltare o scavare, interno e esterno insieme, il terreno d’una storia d’altri che potrebbe essere mia, d’un tempo che mi scolpisce, d’una dimora che è insieme quella della storia in corso, della mia storia, della mente di qualcun altro, di me stesso nell'atto del guardare.

Si passa attraverso il rituale dell'estrarre oggetti da una borsa uno a uno: un computer, i fogli di lavoro manoscritti, sullo sfondo i battiti d'una pendola, ticchettio ritmico inquadrato da una scrivania, sul tavolo di lavoro il modellino d'una casa coloniale bianca in miniatura. Accendere una lampada sul tavolo ritorna come l'atto di rischiarare, cominciare a tracciare un cerchio di luce, una sfera luminosa dentro la totale, pervasiva oscurità del luogo. La giovane donna eritrea siede al tavolo, il doppio schermo ingrandisce ora allontana il suo volto, la stanza, parte della figura attraverso immagini date su video paralleli. Sul tavolo compaiono carte geografiche, una foto in bianco e nero di funzionari bianchi nell'Africa coloniale negli anni '30. Digita lettere sulla tastiera, legge, trascrive, traduce parti di frasi del manoscritto di Ellero; ricopia sullo schermo caratteri indecifrabili per noi, prettamente grafici, dall’apparenza incomprensibile come fossero simboli ermetici, mantra da un altro linguaggio, dall'alfabeto amarico . Pagine riempite di segni, di frasi manoscritte si susseguono l’una all’altra su tutta l’estensione dello schermo. Sfogliate si consumano di fronte ai nostri occhi come fossero messaggi cifrati nel lento lavorio di trasposizione, di traduzione dei medesimi, frase dopo frase, parola dopo parola; come si dovesse attribuirgli un senso, allo stesso tempo una chiave di lettura, di comprensione, di ricostruzione di quella realtà o memoria storica al di là del loro essere "stato nascente di segni" nel linguaggio, del loro aver luogo dentro la parola, nella tessitura poetica del segno.



Voci fuori campo ma lontane, non tanto importanti per quello che dicono ma per la traccia sonora che lasciano sul fondo, riportano vecchi proverbi africani d’una semplicità disarmante, proverbi di saggezza popolare detti da voci anonime di uomini e donne eritrei d’oggi. Passare il fluido, il flusso di parole e segni quando ancora sono antri, ipotetici ingressi verso un altrove della parola allo stato nascente, farli divenire dentro un sistema di senso. Voci fuori campo a metà distanti, non completamente distinguibili, segni grafici, caratteri, lettere manoscritte scorrono e si esauriscono sul video, poi disegni architettonici di ville in stile impero, carte geografiche, mappature approssimative di territori occupati.

Compare ora una parete grigia con segni di quadri staccati dal muro, poi uno scaffale riempito di libri, vecchi annuari dell’epoca imperiale, la parete nuda d’un muro spoglio, ripreso angolo dopo angolo nei suoi spigoli ingrigiti. I due estremi d’una linea retta tracciata e cancellata, segmentata, discontinua e frammentaria: la storia coloniale e il suo rovescio, il suo lascito e il suo non-detto; scavare, aprire una breccia verso l’interno, affondare, estrarre, portare alla luce, rimandi tra passato e presente.





Alberi, cannucce al vento, spighe di campo fuori; muri d’interno scrostati, scassi di vecchi tubi estratti dalla parete, scanalature vuote aperte sulla medesima.
Manometro, misuratore di pressione immobile.
L’oscurità totale dell’immagine è sospensione alla ricerca di indizi per ricostruire la mappa, le parti mancanti del quadro. La casa di qualcun altro, cercare indizi.
Da un involucro di carta postale ingiallita vengono estratti un papiro pieno di geroglifici incomprensibili scorrendo di fronte ai nostri occhi verticalmente, riproduzioni di monete, sfere simboliche riproducendo emblemi di famiglie regali africane, stralci di lettere manoscritte, appunti di coloro che abitavano in quella casa.
Si odono captazioni di voci in emissione radio; il ticchettio del tempo che passa, lento scorrendo attraverso le ore di lavoro silenziose nella stanza. Tra gli angoli ingrigiti d’una casa, tra i suoi spigoli rabbuiati di nero-fumo udiamo il ticchettio ritmico di dita sulla tastiera, un battito alla porta.

Un volto fuori. Oscurità, reclusione dell’interno, aprire una porta verso l’esterno, far entrare la luce.
Aprire una cassetta di lettere, svuotare una busta contenente documenti, estrarli uno a uno e poi ingrandirli sui margini, nelle intestazioni, nella data con l’aiuto d’una lente. Aprire un cassetto, frugare tra gli oggetti rimasti, lì lasciati o dimenticati, osservare gli indizi disposti sui mobili nella stanza, scavare dentro gli archivi d’una memoria li' deposta da qualcun’ altro. Visualizzare quelle tracce come fossero proprie, impronte d’un paesaggio mentale, d’una storia personale, ripercorrerle coi propri sensi, riconoscerle al tatto, ricostruirle in una possibile finzione d'un vedere che diviene anche un toccare, immergersi, lasciarsene avvolgere come dall’impronta d’una presenza li' deposta nel luogo della propria interna dimora .

Le viene consegnato un plico, ne toglie lentamente i sigilli, apre la busta con un coltellino seghettando l’involucro esterno lentamente, con cura. Vi estrae un accumulo di materiale. Una lente di ingrandimento sul tavolo le permette di osservare, guardare da vicino le vecchie fotografie d’epoca coloniale: l’esercito italiano in Eritrea, paesaggi desertici, nugoli di bambini indigeni, una coppia di bianchi funzionari, lui vestito in divisa ufficiale, lei con un abito lungo e sobrio degli anni trenta. Lo spazio esterno proiezione dello spazio interno d’una psiche, la sua estensione in uno spazio-tempo duttile, malleabile, plastico, abitato di presenze prende forma attraverso gli oggetti, le cose e la loro disposizione in rapporto a una particolare distribuzione della luce. La disposizione interna delle diverse parti d’una stanza, i dettagli che ne compongono il suo aver luogo rispondono allo spazio di intimità d’un essere, agli spiragli o ai recessi della sua psiche. La metafora di questo entrare in una sorta di archivio o stanza chiusa, come aprire una breccia dentro un luogo interno, passaggio verso un vedere, alla ricerca di non si sa bene cosa partendo da un’iniziale e inequivocabile condizione di cecità. Allo stesso modo al momento di partire gli oggetti sono riposti meticolosamente e attraverso lo stesso rituale uno a uno nella borsa, il computer staccato, i fogli fatti sparire, le lettere riposte nel cassetto, la saracinesca riabbassata completamente, la luce spenta, la casa lasciata nell’oscurità, la porta della casa di Alleri chiusa, la griglia in ferro tirata accuratamente dietro di sé.
La donna si allontana, lasciando tutto lì in quell’antro segreto, in quel buco nero, fuori la strada è deserta, nessun passante nella periferia urbana sordida e desolante della città.











martedì 6 novembre 2012

Picasso, un universo di pittura ( Palazzo Reale, Milano, Retrospettiva, settembre- gennaio 2012)







“Il ricercare non significa nulla. Trovare, questo è il vero problema. Chi trova qualcosa, non imposta cosa, anche se la sua intenzione non era di cercarla suscita in noi curiosità se non ammirazione. Quello che dipingo è il mostrare quello che ho trovato, non quello che stavo cercando. In arte le intenzioni non sono sufficienti, conta quel che si fa, non quello che si ha intenzione di fare.” (Picasso, Scritti)







Guernica, 1937 (attraverso le fasi fotografiche del suo sviluppo)


Picasso: “Potrebbe risultare interessante fissare fotograficamente non le fasi d’un quadro ma le sue metamorfosi. Forse ci si renderebbe conto delle strade che segue il cervello per realizzare il proprio sogno. La visione iniziale rimane quasi intatta nonostante le apparenze".

"Penso spesso a una luce e a un’ombra. Quando le ho messe in un quadro mi esercito a “romperle” aggiungendo un colore che crei l’effetto contrario, quando poi il quadro viene fotografato mi rendo conto che in fondo l’immagine ottenuta dalla fotografia corrisponde alla mia prima visione, precedente le trasformazioni apportate dalla mia volontà."

“Un quadro non è mai pensato o deciso anticipatamente, segue il mutamento d’un pensiero, quando è finito continua a cambiare secondo il sentimento di chi lo guarda. Vive una propria vita come una persona, subisce i mutamenti di cui la vita quotidiana ci sottopone."1



Il bombardamento del piccolo paese basco di Guernica raso al suolo durante uno degli episodi più sanguinari e violenti della guerra civile spagnola all’opera di forze d’aviazione nazista alleate al nascente regime di Franco si trova alla genesi dell’immenso murale dipinto dall’artista nel 1937 per l’Esposizione internazionale di Parigi. Dora Maar, fotografa e compagna di Picasso all’epoca, segue attraverso una serie di stampe fotografiche l’evolvere progressivo dell’opera nel corso dei mesi, l’imposi dei suoi crescenti valori cromatici cupi, dei forti contrasti chiaroscurali, il raggiungimento della sua piena intensità drammatica. Lo sguardo incrociato tra elaborazione pittorica e trasposizione fotografica, il dialogo ininterrotto tra i due medium sancisce chiaramente la genesi picto-fotografica dell’opera.

Grigio, bianco e nero in forti contrasti chiaroscurali è scelta cromatica essenziale per tradurre in pittura lo shock emotivo sollevato dalla violenza del bombardamento nonché il panorama cupo che si profila all’orizzonte in Europa all’avvento dei nuovi fascismi. Linguaggio post-cubista, astratto, analitico, restituisce l’ equivalente plastico dell’evento, la sua violenza non direttamente rappresentabile trasposta a livello simbolico- qui poche figure scelte e ripetute in variazione multipla sull’estensione del murale: il toro, il cavallo agonizzante, le abbaglianti lampadine, la furia del sacrificio e del sole, “la donna che piange”. Dunque tutta la mitologia personale picassiana abitata da eros e thanatos, attraversata da pulsioni violente, erotiche e distruttive riportata sul piano del politico e del collettivo, ritualizza e insieme traspone uno degli episodi più violenti della guerra civile spagnola in un registro del tragico moderno.

“La pittura: un’azione drammatica durante la quale la realtà si trova disintegrata”.
“Non esiste neanche più un’arte figurativa e non figurativa, tutte le cose appaiono sotto forma di segno, nella somiglianza più profonda all’oggetto, più reale del reale che raggiunge il surreale”.

Stadio 1
Contorni di figure appena delineate, incisioni di bianco su fondo nero, la simbologia essenziale dell’opera è già là: “la donna che piange”, occhi stilizzati nell’atto del guardare , pezzi di braccia e mani irti al cielo, l’animalità brutale del toro, il cavallo agonizzante, la lampada ad olio ,l’alternarsi di campi grigi, bianchi e neri per intensificare i contrasti. Nella versione successiva i contorni bianchi affiorano gradualmente, sempre più netti stagliandosi dal fondo nero come incisioni di gesso su lucido alabastro. Le teste reclinate, rovesciate all’indietro evolvono in un lascito violento, lancinante grido che arriva dal fondo, dall’oscurità di corpi recisi e si eleva all’unisono in bocche aperte, urlanti, in gole intagliate, paurosamente scavate all’esterno nei tratti incisi, svuotati dall’interna voragine di quel grido. Si impongono a noi come una verità gettata fuori, brutalmente impressa sulla tela, riassorbita nella sintesi violenta di pochi segni scaturiti da un linguaggio primordiale, nell’oscurità d’un non-sapere, dal fondo di paure ancestrali, nella memoria latente d’un terrore rinnovato nel presente dell’atto.
Nel secondo stadio cominciano a comparire ritagli in collage andando a dare volume a quelli che erano ancora, solo, contorni delineati come l' imporsi di masse aggiunte sempre più visibili in una profondità spaziale che consolida il contrasto tra bianco, nero e grigio.
Stadio 3: Il nero fondo è riassorbito dal grigio invasivo, qui l’estensione del grigio delle figure dove le parti, gli intagli, i ritagli delle medesime appaiono sempre più definite, espanse, delineate avendo compiuto questo processo di riassorbimento ed eliminazione progressiva dell’esubero di linee tracciate per giungere a definirsi in una visione dalla forma essenziale, dai volumi netti, dal rovesciamento chiaro tra fondo e figura.

Stadi 5/6: prosegue il processo di definizione di nuclei espressivi essenziali drammatizzati al massimo grado, spostati nel registro di un tragico moderno, tali la supplice testimone, le forze distruttive incarnate da fauci aperte di feroci fiere, le teste reclinate all’indietro nel grido, gli arti, i pezzi di mani e braccia spezzati ergendosi in singole parti discontinue.
Da una parte il lavoro picassiano evolve nel senso dell’accrescere, dare densità, intensità drammatica alle figure nel disegno; dall’altra, si tratta di riassorbire, procedere per sintesi e riduzioni rispetto alla distribuzione di linee e forme, infine di reiterare le medesime in una messa in movimento drammatica del disegno, dell’azione plastica delle figure sul murale . Qualcosa d’inumano, di mostruoso, di indicibile accade, si presenta, e presente si ripete, si ripercuote sotto i nostri occhi nell’immensità pitturale del quadro. E’ la detonazione violenta di un’esplosione nel momento in cui provoca e fa insorgere forze distruttive, infernali, impulsi devastanti incarnati da fauci o bocche d’animali aperte, ma anche il compianto degli sguardi, la presenza di occhi disseminati un po’ ovunque dalla “ donna che piange” alle teste reclinate del grido e del terrore.






Cubismo

Picasso: “E’ uno stadio di forme primarie, la forma realizzata lì per vivere di vita propria”.
“Abbiamo introdotto nella pittura oggetti e forme prima ignorate, abbiamo aperto gli occhi su quello che ci circonda, e anche la mente”2

Forme e colori sono riportate nella sperimentazione cubista al loro valore proprio di segni al di là della rappresentazione reale degli oggetti. Partire dall’idea intrinseca della cosa in quanto percepita come essenza eidetica, dettata, imposta dalla mente dell’individuo, scomposta e ricomposta per solidi geometrici, strutture essenziali, compresa, analizzata in multiple prospettive, visualizzata su molteplici piani di realtà, (un viso visto insieme frontalmente e obliquamente); essa sarà infine modificata non solo apportando una propria correzione retinica alla visione ‘dal vero’ come voleva Cezanne ma, qui, completamente uscendo dall’ottica dell’imitazione e della rappresentazione realista.
“L’arte per esprimere la nostra concezione e intelligenza di cio’ che la natura non da mai in forma assoluta. Una tappa nello sviluppo di forme pittoriche dall’esistenza autonoma.”3




“Les demoiselles d’Avignon” (1907) prima opera cubista e forse la più nota di Picasso che come uno spartiacque segna l’inizio dell’arte moderna, stravolge la visione retinica, fenomenica dell’oggetto, l’apparenza immutabile delle cose ora comprese utilizzando strutture interne alla mente dell’uomo per restituire la realtà in quanto visione dialettica, complessa, imprevedibile nelle sue sfaccettature, inevitabilmente conflittuale. Eppure, riguardando il quadro oggi a distanza d’un secolo dalla nascita delle avanguardie storiche, al di là dell’applicazione dei principi di scomposizione cubista, tali figure, all’origine prostitute in un bordello avignonese, si impongono a noi immense, geometrizzate, quasi avanzando massicce e insieme multiple e frammentate in tridimensionalità oltre i limiti piani della tela.
Simili a maschere inumane, gli occhi svuotati, a tratti aperti ora chiusi, esse appaiono fortemente improntate a sculture o maschere dell'arte africana, dal segno bruto, brutalmente dato, nella volumetria di linee e scorci insieme frontali e obliqui. Ricondotte a forme geometriche complesse, sprovviste d’ogni tangibile soggettività, esse divengono anche nella scelta dei colori neutrali, rosati o beige, il prototipi d’un diverso modo di vedere, comprendere e restituire la realtà, di scomporre e ribaltare l’apparenza univoca dell’oggetto sostituendolo al modo in cui le cose si rappresentano a noi, secondo le nostre interne strutture, subcoscienti e insieme cognitive di visione.

  Collage: “ Si puo’ dipingere con tutto cio’ che si vuole, con pipe, francobolli, cartoline, carte da gioco, pezzi di tela cerata, colletti, carta da parati, giornali”. Tutto si può, si deve utilizzare nei collage, qualsiasi materiale è ammesso confondendo, mischiando pittura con effetti trompe-l’oeil, collage d’ oggetti eterocliti, ritagli di giornali, stoffe, carta da parati o caratteri di stampa. Questa una delle grandi intuizioni del cubismo geometrico attraverso la creazione dei papier-collées, commistione e di tecniche e stili, collage di forme astratte, dipinte o incollate, e d’ oggetti trovati, presi dal quotidiano. La loro totale libertà nell’uso dei materiali, nella composizione o casuale assemblaggio dei medesimi sulla tela ci porta direttamente alle soglie dell’arte contemporanea.





“Donne correndo sulla sabbia”(1922)

Sono ingresiane, espanse, sensuali, volumetriche, carnali, ancorate alla terra con volto gioioso rivolto in aria; nella corsa sul fondo sabbioso contro un cielo blu limpido, svuotato d’ogni inquietudini i loro piedi sono sollevati, sospesi a mezz’aria nell’atto d’avanzare correndo, in questa sospensione gioiosa, aerea, a metà surreale tra cielo e terra, su sfondo staccato da riferimenti spaziali concreti. Appaiono in questo gigantismo e carnalità di figure classiche, volutamente destinate alla staticità della loro espansione volumetrica eppure riprese, ugualmente in un moto aereo, nel sollevamento gioioso del salto o della danza, senza limiti o inibizioni nelle vesti discinte, slacciate sulle spalle, in una carnalità palese negli abiti svolazzanti che ne scoprono a metà i seni_  le chiome libere, i piedi nudi.
Statiche e aeree insieme nel gigantismo delle loro forme, restano ancora perfettamente riconoscibili nel limite del loro essere figura eppure sono già in questa sinuosità ricercata a ogni costo, lasciata al tratto perlopiù curvilineo, in questa disproporzione o espansione immaginifica delle loro forme.



  Su Picasso e Surrealismo (1924-35)




 

“ Un quadro viene da molto lontano, chissà da quale lontananza l’ho sentito, l’ho visto, l’ho dipinto, eppure il giorno dopo nemmeno io riconosco quanto ho fatto. E’ possibile penetrare nei miei sogni, nei miei istinti, nei miei desideri, in pensieri, che hanno impiegato tanto tempo a uscire alla luce, in quanto vi ho messo di me stesso forse contro la mia volontà?”

“Osservare la natura ma non confonderla mai con la pittura. La natura si può tradurla in pittura attraverso segni, segni che s’inventano. La surrealtà non è altro che questa profonda somiglianza al di là delle forme e de colori con cui le cose si rappresentano”4.

Eppure Picasso disconosce una filiazione diretta al surrealismo affermando di non aver mai voluto posizionarsi al di fuori dalla realtà o di una sua essenza, perché “ si deve partire sempre da qualcosa anche se poi si andrà a stravolgere quella sua apparenza, ma” l’idea dell’oggetto avrà lasciato un segno inconfondibile”, toccato l’artista, risvegliato le sue idee, scosso le sue emozioni.

Negli anni 1924-35, quelli della pittura Picassiana a più diretto contatto con le suggestioni surrealiste, la figura scompare di scena lasciando il posto a nude anatomie di segni che espansi, immaginifici, propulsivi dettano legge con le loro forme onnipresenti, perturbano e saturano lo spazio della tela. Le figure dunque appaiono a poco a poco divorate, fatte a pezzi e riassorbite da tale alfabeto di forme e segni primordiali spesso fortemente erotizzati, altre volte investite da pulsioni distruttive, forze di smembramento o di de-composizione. Divengono forme vigorose e vitali, sferiche, contorte o allungate, impresse di forze libidinali, dell’energia prima dell’eros.
Curve sinuose e volumi imponenti in linee e contorni primari, gli oggetti, le figure sembrano doversi ricondurre a tali masse prime e essenziali, ora sferiche, curvilinee ora snodandosi in linee ininterrotte, qualche volta dal tratto brutale fino a colmare ogni angolo della superficie.

Nudo disteso” nasce ancora da una griglia di scomposizione cubista della figura ma essa è portata qui dal piano puramente geometrico, astratto e strutturale della prima avanguardia a un piano di forze pulsive, insieme d’animalità e d’eros che la fanno a pezzi, la divorano e poi la restituiscono differentemente per masse e curve secondo una “vera somiglianza surrealista alla cosa”.

Nudo in giardino” espande, metaforizza, scompone la figura per ricondurla a una forma vitale, curvilinea, ininterrotta, per ricondurla a un corpo massa, sinuoso, primordiale, senza interruzioni né angoli dalla colorazione rosa anti-naturalista. Erotizzato, vitale, estratto dall’oggetto reale in una sua intrinseca essenza è impresso a colore dentro un contorno nero, grossolano e primitivo, stagliandosi come collage sul fondo grigio.



“Figure in riva al mare” (1932)

Sono forme neolitiche, masse angolose ocra, beige o rossicce come la terra scomposte e ricondotte a blocchi massicci tagliati e ricomposti in composizione libera. L’animalità congenita alla visione si traduce nell’ astrazione di un’essenza vitale, erotica, ritagliata dalla possente massa primitiva in figure scomposte, in segni plastici, volumetrici, violentemente dati nello spazio.

“L’acrobata” è un corpo enorme, espanso, sinuoso che plasticamente si allunga, si piega, s'amplifica, si estende e si distende, si comprime infine dentro lo spazio della tela come fosse una forma unica, una linea continua di movimento tracciato dal tratto denso, brutale d’un gessetto nero come attraverso un movimento istintivo, ininterrotto, la testa rovesciata al posto del sesso, le braccia al posto delle gambe, corpo-contorno rivoltato, plastico quasi non-umano.




 
“Ragazza d’avanti allo specchio” (1932)

Solare e lunare insieme , di blu e giallo espansa, due ritratti forse ispirati a donne diverse sono ricompresi nel gioco di sdoppiamenti d’una stessa figura vista per parti asimmetriche allo specchio: volto solare su corpo spigoloso di profilo o viceversa profilo oscurato su corpo luminoso e curvilineo.

Volto malinconico, blu indaco spento, ora immerso nella solarità piena del giallo e del bianco ispirati dalla vitalità e alla freschezza di Marie-Therèse Walter. Da un lato forme tondeggianti e sinuose del corpo riportano alla linea continua, alle forme volumetriche d’ispirazione surrealista; dall’altro il volto di profilo s’incupisce, inabissando nel nucleo d’uno specchio oscuro, in neri contorni serrato, opprimente e minaccioso presagio di un cupo’ a-venire’. C'è disgiunzione, rottura, incastro a-simmetrico tra le due figure in uno specchio dove, tuttavia, sono a stretto contatto; l’una è riflesso dell’altra seppure in una non-coincidenza esatta mai, ciò che ribadisce il lavoro di disintegrazione di realtà o adesione a una sua più profonda somiglianza secondo l’ottica della pittura picassiana. E’ la rotondità d’epoca surrealista di forme sensuali e presenti, onnipresenti nelle masse o linee del corpo contro il geometrismo, la sobrietà, la spigolosità data al viso di profilo soggetto a forze d’alterazione, di de-figurazione come vedremo nelle serie successive a partire della “donna che piange”.

           

“Ritratto di Dora Maar”(1937)




Sfaccettature, abbozzi simultanei dello stesso volto visto frontalmente e in senso obliquo in una sorta di sdoppiamento o visione complessa, frammentaria della figura.  Si tratta dell’impossibilità intrinseca di riassorbire il volto in una forma unitaria o forse della scelta voluta di restituirlo su piani non coincidenti attraverso una serie di rotture – gli occhi dilaniati, in altre versioni i tratti del viso deformati da pianto. Se, la pittura come afferma Picasso, è “un’azione drammatica nella quale la realtà si trova disintegrata”- ne risulta questa scomposizione o visione complessa del ritratto- lo sguardo è, al contrario, ciò che permane oltre tale frammentazione incarnando al di là di tutte le varianti un’essenza di realtà, un’intuizione essenziale sul soggetto. Dora Maar l’essenza del dolore, del tragico nella visione picassiana, Marie Therèse quella dell’ottimismo, della solarità vitale.
Contro il geometrismo del volto scomposto di Dora Maar lo sguardo appare vivo, incarnato, abitato d’una profondità imperscrutabile sullo schermo di occhi-maschera immensi, caricati d’una densità tragica e come memori d’un antico dolore. Picasso legge in quegli occhi la prefigurazione di un destino già scritto lì su quel volto, in quello sguardo che da dramma individuale si estenderà per divenire simbolo d’un compianto collettivo, presagio delle barbarie a-venire, feroci abbattendosi su tutta Europa,
la guerra civile spagnola, l’avvento della dittatura in primo luogo .
In versioni successive, “La donna che piange diventerà “ La supplice”; il volto completamente dilaniato sarà qui lasciato al contrasto cupo tra bianco e nero, preda di forze oscure, invasive. La bocca come orifizio dovrà essere dentellata, ferocemente intagliata dall’interno, esplosa, digrignante sotto l’effetto d’una violenza indicibile fino a trasformare quel volto in qualcosa di disumano, di mostruoso.
Il volto, così istintivamente compreso, diviene mappatura di forze di distruzione fisiche e psichiche interne all'individuo, che poi saranno le stesse agite dal volto astratto della guerra, ritrovate e espanse su un piano storico e collettivo in “Guernica”, aprendo all’artista una via d’accesso privilegiata alla sua visione.








   
  1Pablo Picasso, Scritti, p. 19, 20
 2 Ibid., Scritti
3 Ibid., Scritti
4 Ibid., Scritti


lunedì 22 ottobre 2012

A proposito di danza e improvvisazione, Virgilio Sieni, "Alisei"( visto al festival Mantica, Cesena ottobre 2012)









Danzare in libera improvvisazione nello spazio per il coreografo Virgilio Sieni accompagnato dal contrabbassista Daniele Roccato é “spogliare il corpo di quelle pratiche che appaiono sotto il segno della danza”. “Sbrandellare con rigore il corpo fissandosi con fatica e dolore così come con leggerezza e voglia di attraversamento sul senso d'una sparizione": non mostrare, affermare o dare a vedere qualcosa per il danzatore ma, al contrario, andare verso un’esperienza di spogliazione, di attraversamento e messa a distanza. Muoversi per sparire, "divenire impercettibile nell’atto d’esserci e insieme lasciare tracce", pesare come un corpo pesa al suolo con i suoi propri passi, lasciti, orme, iscriverle come si iscrivono le proprie fragilità, come si percorrono gli antri, le pieghe interne, i risvolti oscuri, gli accidenti della propria carne. Farli pesare, manifestatamente passare dalle soglie della propria unità figurale alle vibrazioni, gli ansiti, i micro- movimenti della propria muscolatura, negli interstizi della pelle, e insieme nell'esperienza singolare d'un attraversamento, d'un  passaggio o immersione a corpo perso: essere transiti, tracciati nell'atto .
Danzare dunque diviene atto di sottrazione e di allontanamento da una soggettività o presenza abituali, ma anche da una certa abitudine al movimento, di un corpo anatomicamente costituito, pensato per parti simmetriche, ordinato secondo uno schema sensori-motore facente capo a un intelletto, infine idealmente riconducibile nel suo fare a precisi codici di “danza”.


Come appare allora il movimento in questa improvvisazione ?
Traccia d'una scrittura personalissima, spesso sgorgata dall'impulso istantaneo, il farsi imprevedibile d'un movimento di mani, piedi, il divergere improvviso di muscoli dello sterno, della schiena. Movimenti angolari degli arti, il corpo si disarticola, gli occhi sono chiusi, distanti da un reale coinvolgimento emotivo.

Sembra non riuscire ad appoggiare i piedi a terra completamente, i palmi dei piedi sono volti verso l'interno come per un impedimento ad aderire al suolo in ogni sua parte, quindi trasformando in altro modo la danza, creando a sua volta dei movimenti strani, disarticolati dove il corpo si arrabatta al suolo, poi in qualche punto si solleva, riprende quota, ritrova qualche passaggio rigoroso e geometrico, qualche passo ripreso e stravolto dal linguaggio classico, oppure ritrova la frase della variazione per ricadere a sua volta nell'inciampo, nel risvolto d'un moto decomposto in singole parti frammentato.
Forse è perché non vede, ha gli occhi chiusi, socchiusi in una forma di parziale cecità, a tratti,
a intermittenze oppure perché é preda di questi impulsi strani, divergenti che lo portano fuori, lo fanno divergere, deviare, derivare da quello che dovrebbe idealmente essere l'esito della sua frase, la risoluzione d'un moto da compiere, portare a termine, esaurire .

Danzare come fosse nell' impossibilità di vedere o a metà privato d'una reale visione ,
inciampando su sé stesso, incespicando su ostacoli immaginari, arrabattandosi sui propri piedi che non fanno presa completamente al suolo.
Danzare come fosse preda di strani impulsi disarticolanti che fanno partire braccia, torso e testa per altre direzioni.
Danzare sotto il segno d'una disarmonia voluta, nella scomposizione del movimento in singole parti: testa, sterno, collo, mani, caviglie, piedi.
L'impedimento, la condizione di non-danza come una zavorra ancorata ai suoi piedi paradossalmente creano questa altra, singolare scrittura del corpo in movimento:
danzare ad occhi chiusi, nella cecità o nel disequilibrio d’un funambolo sospeso a un filo,
danzare con i palmi dei piedi incrinati all'interno, nell'impossibilità di aderire completamente al suolo.
Danzare in ginocchio, con le gambe incrociate e come annodate tra loro trascinandosi sul pavimento,
danzare dentro, contro l'impedimento d'un tempo entropico, costringente a ridosso d'una non-danza
e, ancora, nella ripresa repentina, nel sollevamento dal suolo, nel distacco ironico, leggero da sé,
qualche volta in dialogo con la vivacità della partitura musicale ripresa dal contrabbasso in fase d'improvvisazione.

Danzare i propri impulsi discordanti, in tempi di singoli arti divergenti, nel dettaglio espressivo d'una mano, d'una testa, d'un piede, d'un bacino che parte per proprio conto.
Danzare dentro la scossa, dentro o contro la caduta, resistendo o assumendo la medesima, affondando nella memoria d'un esperienza corporea inconscia;
danzare in dialogo con un corpo mutevole, in mutazione, non-finito, mutante nelle limitazioni fisiche del suo darsi come nelle facoltà potenziali e espressive che da esso scaturiscono,
sulle soglie, negli angoli, nel risvolto interno della figura conclamata d'un sé manifesto.






Sieni a questo proposito parla di danza come d'un viaggio esperienziale, d'un cammino conoscitivo, una stratificazione della mente fino a quando non si sopraggiunge a “un'idea o un'esperienza di sbriciolamento di tutti questi apprendimenti, un dover abbandonare tutti i codici e le tecniche per trovare la sostanza originaria, la forza primaria che si annida dentro il singolo gesto. Esperienza giustamente di immersione o caduta in un corpo altro che “lentamente, nel corso del tempo ci riporta all'origine delle cose”, riconnettendoci a una memoria innata passata entro i suoi ritmi e gesti.





lunedì 8 ottobre 2012

Mosaici, mappature immaginarie, archeologie di luce ( guardando le opere di Marco de Luca, Museo d'arte di Ravenna)









Visti nell’insieme, facendosi eco l’un l’altro attraverso le pareti della galleria i mosaici di Marco de Luca rinviano a valori di trasparenza, elevazione dalla più diretta figuratività e smaterializzazione; rinviano al gioco di riverberazioni tra l’argenteo brillante, lo smeraldo vivo, il bianco perlato, il grigio oscuro, l’oro della luce riflessa e gli ocra della terra. Sono forme o superfici che de-materializzano, spostano, tolgono presenza, consistenza, figurazione; elevano, sottraggono, astraggono, assorbono verso l’assoluto d’un idea o d’un’immagine oggettivata nel bagno cromatico d’una superficie o d’una forma volumetrica rifatta a mosaico.

Rarefazione: rivelazione plastica  di un’idea o immagine, epifanica nel suo manifestarsi attraverso l’impronta lasciata dal colore o dagli effetti dalla luce sulla materia, lastra, superficie o scultura mosaicata.
L’indeterminato lasciato all’opera che, nella sua forma più nuda, più essenziale é riverbero d’una luce-colore su una superficie materica diventa, anche, la sua chiave di lettura infinita, noi che ci avviciniamo ad essa come ad una serie di schermi o piani riflettenti che s’animano, riecheggiano,  si ripercuotono o vivono attraverso la nostra esperienza sensibile- caldo, freddo, opaco, brillante, impalpabile, lieve- per effetto d’una vibrazione luminosa lì infusa, quella che emana una singola concrezione materica . 
Far vibrare, far emettere una sonorità precisa, una suggestione estetica chiara, riconoscibile, insieme diffusa e impalpabile come un’aurea da un blocco, una lastra di pietra, una scultura, dall’immersione cromatico-luminosa  d’una singola superficie e nella pura astrazione della medesima. Il tutto resta circoscritto in uno spazio geometrico rigoroso, scultura nello spazio in alcuni casi ma anche spazio-superficie piana di riassorbimento o estensione, di intarsio e intaglio di un’idea in termini di composizione per tessere e tasselli colorati. L’artista sceglie il mosaico come mezzo d’elezione proprio , non semplicemente riempitivo o decorativo ma come linguaggio a sé attraverso il quale ritrovare una forma intrinseca di temporalità, il tempo proprio  dell'opera che tende a un quid essenziale, smaterializza le figura, si affida a una presenza materica pura, al taglio dei tasselli o al loro allestimento in composizione, infine all’agente essenziale della luce sul reagente fondo-colore . Ne conseguono forme plastiche dove sculture in levità s’ergono dal suolo oppure superfici mosaicate s’animano, si scavano o si distendono auto-definendosi in concrezioni libere nello spazio.



Ascolta piove (2011)

E’ volumetria essenziale nello spazio, è parallelepipedo stagliandosi  in tridimensionalità con piani irregolari su diverse altezze, e una tessitura dorata e filamentosa addensandosi verso il basso come colata d’oro, di pioggia o di granuli lucenti. I suoi assi riflettono contro la parete oscurata del fondo come fossero profili di palazzi, sagome di tetti e comignoli irregolari di diverse altezze, concrezioni volumetriche strane che sfuggono a prima vista a un geometrismo rigoroso per frastagliarsi in ombre molteplici  contro la superficie grigia del fondo.
Tetti, forme geometriche si aprono in profondità contro la parete, sfaccettature di parallelepipedi irregolari, combinazioni di figure squadrate, tridimensionali, a multiplo incastro, scheggiate, dentellate a diverse altezze nella proiezione contro la parete creano questa sorta di panorama urbano astratto. 
Linee convergono, si sovrappongono, s'elevano, rendono frastagliato il limite ultimo dell’orizzonte aprendo la visione di uno "skyline" metropolitano  rifatto a mosaico  d’oro, d’ocra e di grigio; altre s’inabissano, temporaneamente scompaiono, sono nascoste, oscurate forse per riemergere sotto altra forma, in altra via.
Sul muro la linea del cielo metropolitano si apre in profondità come orizzonte di  tetti irregolari nei profili grigio-bianchi dei palazzi parigini. Nello spazio è l’astrazione geometrica ergendosi come un parallelepipedo in verticale contro la parete: colata d’oro e di grigio con qualche folgorazione di verde brillante  in tessera incastonata.











Sole/ Luna (2012)
                                       
Sono le due superfici uguali e contrarie dello stesso, sono i due opposti complementari mosaicati, i due volti d’un unico viso, luce e tenebre, opposizione intrinsecamente contenuta nell’uno, nella dicotomia irrisolvibile della ricomposizione d’un ego individuale. 
Sole è un lucente riflesso in mosaico, l’irradiazione dell’oro, la solarità, l’abbagliamento di filamenti vitrei e dorati.
Accecante nel controluce, impedisce di distinguere le forme a distanza, abbaglia, agisce in questa sorta di folgorazione d’oro nel suo inatteso manifestarsi.
Luna è la controparte opaca, grigio-mercurio filamentosa, cenere argentea lasciata all’oscurarsi del riflesso solare su terra. 
E’ il mondo privato della luce, della riverberazione solare , del tepore caldo che emana la sua corteccia terrestre lasciata al giorno senza più calore sulla terra, alla  nebbia oscurante, alle ceneri grigio-mercurio intensamente depositate sul fondo,  verso il fondo d’una provetta trasparente come la misura d’una malattia, come il lascito di scorie bruciate dopo la fine d’una combustione.  
Sostanza pesante, mercurio-cromo che affonda entro il vetro d’un riflesso trasparente. 
Una stessa cornice, ora la terra appare come una superficie brillante, irradiata di solarità, di guizzi e getti, di tasselli, di folgoranti tocchi d’oro e d’improvvise iridescenze, ora è lasciata all’assenza di luce, all’oscuramento quando il sole scompare d’un tratto, al grigiore che ne consegue, non spento non morto ma solo opacizzato, mercurio oscurato, coperto.
























La sposa (2008)

Rifatta a mosaico come forma concava, liscia, essenziale su un piedistallo con la sua propria ombra, bianca , d’una qualità incandescente, d’una purezza che solo l’intaglio e il lento intarsio di minuscole particelle incollate una a una in composizione può conferire. E’ alone bianco ceduto al mosaico, con la sua propria ombra rifatto in questa purezza che solo la pietra non umana, non intaccata, non contaminata può continuare a conferire. Simile a un arazzo, un selciato bianco, una distesa, un velo, un abito nuziale, qualcosa che si estende, si distende, si amplifica, assume le sue proprie sembianze sensibili come sotto l’effetto d’un respiro immenso, sconfinato; si chiarifica, trova la sua propria chiarezza, impronta di bianco candore.

Il monte ( in due versioni successive 2001/2011)

Appare nelle sembianze d’una spiaggia, d’una distesa o discesa dorata di sabbia divenuta ora mosaico con l’intarsio di detriti, conchigliette, scaglie, ora pezzetti d’osso o di legno lasciati dalla marea, frammenti di gusci, sassolini, sassi e polveri. 
Spiaggia dorata, è distesa d’oro e di conchiglie incastonate sul suo fondo contro un infrangersi grigio d’onde sul bordo. La sua superficie invoca alla corsa, alla discesa, allo scivolare d’un tappeto d’oro ai tuoi piedi. Appare in una seconda versione come un muro in mosaico dallo spessore della pietra, massa opaca ponendosi come parete invalicabile nell’alternanza tra l’oro e il grigio. Apertura, discesa, luminosità, scivolata fluida della prima versione e densità, cumulazione, barriera frontale e rocciosa nell’altra.

L’ultima luce solare riflessa dall’acqua. E’ onda o lascito grafico che si illumina contro il blu, bronzeo mosaico-fondo come una marcatura, un sigillo, una traccia scritta.
Impressione o stampa a vivo del sé sulla porosità alveolare dell’ ombrato contorno.

Crepuscolo (2009)

E’ un riflesso violaceo, porpora ora indaco, blu tenebroso fino a toccare la voluttà del nero. E' questo riflesso violaceo in multipli strati e dense sovrapposizioni dove la luce rimbalza violentemente fino a infrangersi  tra i suoi tasselli.

Campi di riso

Sono bianche e lucenti distese d’acqua; avanzano in simmetria come quadrature di terra, lentamente procedono in fuga prospettica verso il fondo. Richiamano le astrazioni liriche di Rothko, trovano una loro armonia compositiva in termini di pieni e vuoti, ora tessere di bianco e d’ambra in cumulazione dentro un riquadro ora madreperlacee bande in estensione lirica procedendo verso il fondo, verso un loro punto di fuga oltre la cornice materica, oltre il limite fisico che vediamo. Corrono verso una propria infinità cui tendono intrinsecamente  nonostante i limiti d’un piccolo quadrato, d’una precisa cornice.

Salina (liberamente suggerita dalla lastra mosaicata)

Dovevano essere delle distese d’acqua  raso il suolo, dovevano essere periodicamente allagate dalle maree, adagiate, lasciate riposare in una serie di bacini naturali, lasciate al processo d’evaporazione e precipitazione del sale . Dovevano essere attraversate da ondate lievi, doveva esserci quest’acqua, questa marea che le portava verso il largo, ampia, calma, dirompente, invadeva come le acque la terra. Doveva esserci questa corrente calma e inequivocabile verso il mare. Poi, dopo che la corrente era passata e aveva compiuto il suo corso dovevano restare questi depositi bianchi, granitici fatti di dune, montagnole, cumuli nettamente sedimentati di sale al suolo; sostanza primordiale estratta dalle acque, deposta in grani, lasciata in margine della terra per conservare, curare, purificare.


















La morte di Ofelia (2003)




E’ l’ocra dorato della terra  in propulsione da un centro esplosivo verde smeraldo-brillante che s’apre,   irradia come un’apertura, una folgore, un sorgere inattesa di luce in composizione geometrica di minuscole particelle cubiche a ripetizione. E’ questa irradiazione che parte in smeraldo dal centro e si amplifica, espandendosi in micro-settori, estesa, evolutiva come spirale degradando da un fulcro fino a smussare i contorni del verde e ricongiungersi gradualmente all’ocra del fondo.  E’ questo fulcro che divaga da centro propulsivo ed esplode, espande fino ad essere riassorbito, dissolvere in pluralità sulla base-terra.

Pensiero d’oriente (2004)

Arco absidale d’oro brillante,  converge verso un  punto smaltato nero, e riassorbe la dispersione della pluralità delle particelle, delle singole esistenze, entro l’unico, l’uno, un punto di ricongiungimento universale. E’ forse questa convergenza verso un punto di vacuità del sé, d’intuizione dell’essenza prima dell'esistente,
è forse questa trasposizione astratta d’un pensiero dell’illuminazione buddista come esperienza immediata dell’unità  nel superamento temporaneo dell’ego .   

Le mura di Atlantide (2002)

E’ muraglia che sale verso l’alto, muro di cinta, di difesa della città, sogno d’un luogo ideale, sorta di acropoli dell’antichità sopra-elevata e  d’elevazione per l’umanità. Mura si ergono verso l’alto, aspirano come questi colori turchesi, blu, grigio-argenteo brillanti, all’ascesa, all’elevazione verso una città celeste concepita in un suo proprio infinito. Sono colonne, forme verticali semplici, essenziali ricondotte alle linee della loro  interna struttura e portate da questo movimento ascensionale, d’astrazione smaterializzante verso un puro argenteo-blu spirituale.



Archeologia topografica (1986)

Terra, segni e strati sul suolo. Insediamento archeologico, pietre e massi in rilievo, scavare.
Circumnavigare un territorio: insediare, assediare, prendere sotto assedio, sedimentare e depositare strati su strati. 
Tracce scavate, incise in tasselli mosaicati affiorano in una topografia immaginaria del territorio, come stampati in rilievo, in ocra, terra e bianco, in ondulazioni, sedimenti, estensioni o ritrazioni del medesimo. 
Corrosive a tratti sui volumi o in margine intagliando i medesimi,  riconfigurano i contorni sotto l’effetto della luce, immersi nella porosità diffusa, ruvida qualche volta folgorante della sabbia tra le dita.