venerdì 30 settembre 2011

Sulla fotografia contemporanea e la poetica dell’oggetto (estratto )






 





















Tre figure dell’eccesso compongono la condizione sociale e esistenziale definita dal critico francese Marc Augé “surmodernità” . La difficoltà a pensare il tempo presente ma anche il passato a noi più vicino, “prossimo”, parcellizzato, scomposto in una miriade di istanti presenti si traduce in una l’inintelligibilità del tempo in quanto coordinata strutturante e ordinatrice della nostra contemporaneità, in un mondo sopraffatto dagli avvenimenti, nell’accelerazione dei medesimi alla nostra percezione, nel crollo d’una visione lineare e progressista della storia rispetto all’evoluzione della nostra società occidentale. La seconda figura dell’eccesso si situa nell’estensione della spazialità disponibile al nostro uso, questo spazio che si rende a noi sempre più a portata di mano, che s’apre nella facilità dei mezzi di trasporto sempre più rapidi, viaggi, spostamenti, comunicazioni o telecomunicazioni planetarie. Terza figura dell’eccesso infine è quella dell’ego, dell’individualità concepita come “mondo in sé”, valore individuale dominante nel rapporto all’altro, nella singolarità di oggetti, di gruppi o di appartenenze, di riferimenti ideologici e tutti quegli ordinamenti che controbilanciano il processo di globalizzazione della cultura in atto.

Alla crescente difficoltà a posizionare l’individualità in contesto come nucleo intensivo in rapporto all’alterità, a pensare il tempo, a dare senso alla storia, a concetti come memoria e durata temporale si oppone, secondo Augé, una “esagerata percezione dello spazio” , come d’un mondo dove le merci, i beni, le informazioni e gli individui viaggiamo a una velocità accelerata nella facilità di spostamenti, scambi, navigazioni reali o virtuali, nella dinamica stessa del sistema di interconnessione in rete. Individualità, esito individuale, polarità del sé in una società nella quale il senso dell’altro come comunitario, collettivo, partecipativo sembrano eclissarsi, l’immagine vive una perdita progressiva di referente rispetto all’oggetto reale dove i due termini sembrano scambiarsi vicendevolmente di ruolo passando indistintamente da reale a simulato a simulacro, tra virtuale, apparente e ultra-visibile fino a instaurare un vero e proprio corto-circuito di rappresentazione. Mentre le immagini prodotte dal nostro mondo si moltiplicano, si producono e si consumano nella più totale gratuità, in una sorta di visibilità assoluta o “trasparenza inesorabile” cui è giunto l’occidente nell’eccesso del proprio consumo visivo, mentre tutto é portato al livello dello spettacolare, dell’effimero, del simulacro nell’inter-scambiabilità totale di tutti significanti come delle merci nel capitalismo , un certo esito dell’arte contemporanea, nello specifico della fotografia, secondo Baudrillard, risponde mettendo in gioco un’estetica del residuo, del lascito, del frammento che instaura un rapporto inedito alle cose, al sistema degli oggetti, oltre la soggettività dell’atto artistico per lasciare emergere immagini improbabili, accidentali, potenzialmente presenti nella realtà, accadimenti fotografici mediati dalla condizione d’essere dell’ apparato tecnologico.

Dal dadaismo in poi l’arte disinveste l’atto creativo nel senso che lo libera progressivamente di un valore estetico fondante e al contrario fa accedere il banale, il quotidiano come l’“oggetto trovato”, il “ready made” l’oggetto di consumo al lavoro artistico in una “trans-estetizzazione generalizzata del mondo” . Il pensiero sulla fotografia in Baudrillard pone l’accento, in primo luogo, sul mondo degli oggetti e delle relazioni oggettuali autonome, già là virtualmente presenti nella realtà che l’atto fotografico non fa che mettere in luce in quanto ‘immagini’ , sistema di segni nella contingenza d’un momento, nella segreta complicità che si instaura tra le cose, il medium tecnologico e una certa condizione dello spazio o della luce. Linea di fuga tracciata dall’ atto fotografico contro le immagini-simulacro, lo svuotamento dei segni, la perdita di referente dell’oggetto reale. Il medium fotografico porta in sé tale assenza e allo stesso la scongiura nell’apparire epifanico d’un immagine casuale, frammentaria, provvisoria trasposta nell’oggetto più insignificante, banale, aleatorio del quotidiano.

Come afferma Roberta Valtorta parlando di fotografia contemporanea: “ nel post-moderno il soggetto subisce un decentramento, deraglia ai margini della sua stessa esistenza mentre il mondo va all’avanti ” . La soggettività tende a eclissarsi e, oltre alla responsabilità di produrre una rappresentazione compiuta del reale, “apre le porte all’apparire di pezzi scomposti del mondo” . La fotografia non ricerca un senso ultimo delle cose, il perseguimento d’una idealità estetica rispondente al bisogno di assoluto dell’arte moderna quanto lavora sul residuo, la banalità, l’insignificanza; rivendica questa marginalità o assenza di grandi significati, ritornando costantemente alla superficie, in quella superficialità a-significante, insignificante e per questo tanto più significante nel momento in cui si estende a sistema dei segni.
Come sostiene Valtorta, “ una certa area della fotografia oggi privilegia le situazioni banali, i luoghi quotidiani e marginali, i momenti casuali, l’imprecisione visiva” , riconnessi a quella condizione sociale e esistenziale che M. Augé definisce “surmodernità” .

Se si rende difficile, vale a dire impossibile restituire il senso d’una rappresentazione unitaria come modo di ricostruire visivamente il mondo, la condizione d’essere della fotografia contemporanea si situa più nello spazio che nel tempo inteso come “l’istante decisivo” della precedente fotografia esistenzialista, spazio aperto, disponibile, dato eppure mai neutrale,inciso, contaminato, striato, esso stesso condizione dell’”acting out”, dell’espulsione di tratti del lavoro fotografico. Di quello spazio andrà a cogliere, giustamente l’interstizio, la fessura sul senso compiuto della cosa, l’accadimento marginale, la sfocatura intenzionale, la striatura che rompe il flusso continuo della comunicazione nello spazio liscio del capitalismo multinazionale. Quel margine di incertezza, di tremore, insito in tale esito del fotografico si insinua come l’elemento di coscienza critica, di “dubbio fenomenologico” esprimendosi attraverso l’evidenza di una metafora visiva, non-mediata, lasciata, nelle parole di Baudrillard, al “divenire immagine del mondo” .

Su questa stessa linea si esprime il critico/fotografo francese in alcune considerazioni sul processo fotografico espresse nel corso di un dialogo contenuto in Interviste sul complotto dell’arte. La fotografia nella sua visione mette in gioco un “lasciar apparire le cose”, è un “dispositivo antropologico che instaura un rapporto (singolare) con gli oggetti” captando l’assenza d’una presunta soggettività artistica dietro quelli, dandosi piuttosto come sguardo impersonale su un frammento di mondo che permette ad esso d’emergere dal suo contesto. “A un tratto catturo una luce, un colore staccati dal resto, io stesso vi sono solo un’assenza”. E continua: “quando fotografo mi servo del linguaggio come forma e non come verità.” La forma rinvia al passaggio ad altre forme, al circuito tra parole nell’uso poetico della lingua, alla metamorfosi da un’immagine all’altra nella serie fotografico, alla materialità del linguaggio come segno visivo tangibile . In quest’ottica l’operazione compiuta dalla fotografia tende a eliminare la sovrastruttura soggettiva o ideologica schiacciante del lavoro artistico per arrivare a un rapporto diretto, primitivo o primordiale con gli oggetti e gli avvenimenti. Per Baudrillard: “l’oggetto nella sua forma intima e segreta, ciò per cui è quello che è, e raramente viene raggiunto. E’ qualcosa al di là del valore e che io cerco di raggiungere grazie a una sorta di vuoto in cui l’oggetto, l’avvenimento hanno una possibilità di mandare segnali con la massima intensità” .

La fotografia si pone come esperienza di captazione involontaria del mondo ricondotto al sistema degli oggetti, dove l’accento cade in primo luogo sul termine “esperienza”, qualcosa che accade, che appare, che attraversa traducendosi in un atto d’ordine estetico inteso come accadimento sensibile, frammento di tale accadimento, esperire, sperimentare, amplificare, rituale magico o religioso delle cose agente e agito dal lavoro fotografico.


Citazioni
Marc Augé, Non-lieux, Seul, Paris, 1992 , p. 72
Jean Baudrillard, Le complot de l’art, Paris, Sens e Tonka, 2005, p. 1
Roberta Valtorta, Volti della fotografia, scritti sulla trasformazione di un’arte contemporanea, Skira, Milano, 2005, p. 72
Jean Baudrillard, « Car l’illusion de s’oppose jamais à la réalité » in Photographies 1985-1998 Descartes e Cie, Paris, 1998, p. 91

Immagini: © Seth Price