mercoledì 28 agosto 2013

su "Mosaici tra Inferno e Paradiso" ( alla Fondazione tamo, Ravenna)











La basilica ritrovata

Domus dai tappeti di pietra modulati per linee parallele e figure geometriche romboidali intercalate da punti di incidenza a stella greca riflettenti di luce al suolo; concatenazioni seriali di motivi floreali, decorativi o astratti si distendono attraverso le pavimentazioni ritrovate, riportate in luce dell'antica basilica di San Severo a Classe ( VI secolo). Emergono per stralci, per parti o riquadri ripetuti e poi intercalati da incomprensibili zone di non-figurale, spazi bianchi, interstizi vuoti, zone di non-ritorno, di non restauro cedute all' indeterminato del fondo. Emergono dal bianco dei loro margini, emergono frammiste a queste spaventose macchie di polvere divorante, emergono come fossero intagliate, divorate dalle medesime nel gioco tra fondo e figura, tra l'opacità della loro più oscura provenienza, l'irrompere opaco dell'intonaco bianco e la trasparenza dei motivi musivi, ugualmente ritornanti come forme in movimento sulle pareti ancora affrescate della basilica.
Riecheggiano riportati, reinseriti artificialmente in questo altro spazio architettonico antico e insieme dall'impronta dell’allestimento fortemente contemporaneo come apporto, innesto, nuova inclusione, non per quello che rappresentavano all'origine ma come negativi dei medesimi, vuoti simulacri, frammenti di mosaici pavimentali o affrescati in parte ritrovati negli scavi, in parte riportati alla luce e infine raccolti nella semi-oscurità di questo spazio sacrale vuoto, sito d’un antica basilica e insieme artefatto, manipolato come può esserlo quello polimorfo d’una galleria contemporanea.
Immagini in movimento di motivi mosaicati si proiettano sul suolo e sulle pareti d’ uno spazio disseminato d' altre opere contemporanee , a metà visibili, a metà cancellandosi in questo loro richiamo inesausto alla storia, al nostro modo di rapportarci ad essa, di accogliere e rifiutare, di tornare indietro e guardare oltre, d’un dialogo serrato quanto distanziante alla memoria; dalla scrostatura d’intonaco intenzionalmente lasciata sul motivo originale, emergono non più figure o forme astratte ma segni, affioramenti come di tracce in negativo d’una presenza antecedente, d’un occultamento o sparizione, d’una immemore, obliterante quanto ineluttabile intuizione dell’antecedente, del prima, dell’originario.
Bianchi interstizi prendono il sopravvento, assorbono motivi e figure come tabula rasa d’una memoria cosciente, rasoiata o ricoperta di polvere e intonaco, tale il fondale vivo, vibrante irrompe come pre-figurale, energia creatrice che non si investe in una forma finita ma nella semplice densità materica ad essa antecedente.

Ancora il bianco è lacerazione, strappo sulla superficie come non-aderenza assoluta delle cose a loro stesse, di noi al mondo, come il senso di interstizi aperti sulla realtà, tra noi e la nostra possibilità di immedesimarci completamente ad essa partendo da una prima separatezza sancita tra le cose e le parole, il linguaggio e la sua possibilità d’essere o rinviare direttamente ad esse, d'essere tutt’uno con le medesime, di divenire le cose stesse. Racconta dunque, la pittura come il mosaico o implicitamente rende conto, porta in sè la consapevolezza di questa dissonanza o aritmia evidente: i varchi aperti dalle cose alle cose, da noi a loro stesse, tra noi e la nostra possibilità d’essere direttamente, ingenuamente dentro l’avvenimento, con l’altro, in una totale, immediata adesione alla realtà tale che essa appare o si presenta ai nostri occhi.




Allettamento di tessere d’oro, mosaico 2011

“Pietruzze gialle, rosse, bianche, trasparenti, azzurre e turchine e anche d’oro, dell’oro dei mosaici ravennati, verdi del mare e blu del cielo stellato di Galla Placidia”

“ O la luce è nata qui o, catturata, qui vi regna libera”.





Ori su vetro, ori su gocce di pioggia espanse e trasparenti simili a grandi lacrime di luce,
ori per tasselli incastonati, ori in grandi riquadri ascendenti di luce ricuciti insieme l'uno l'altro;
diventano manto, tela o tappeto a distesa stellata, a distesa d'acqua su sabbia rilucente.
Ori sul rosso-ocra d' un suolo bruciante come su varchi aperti in cieli limpidi e trasparenti,
nel riverbero di scintille solari in fluttuazioni marine, su fondali bruni in sabbie mobili intrisi.
Ori di pietruzze e vetri frantumati, frammisti a mille altre polveri e reagenti;
ori filtrati attraverso le vetrate spesse e opache delle basiliche, in repentini passaggi di luce per poi tornare alla penombra della loro quiete oscurante;
d’una croce diademata, irradiante a distanza lassù, noi qui lontani dalla sua luce,
ori di terre bianche, terse o lavate, sommerse nelle acque saline in distese trasparenti e piatte dai depositi granitici a dossi di sale riempite, a raso d'acqua, immobili, traslucide e riflettenti.

Lapislazzuli, pietruzze di mille colori, composizione o ammasso di frammenti in vetro di varie forme e dimensioni: lastre, pietruzze o lastrine intagliate,
ora ricomposte insieme in linee ordinate per gradazioni cromatiche discendenti.
Ritagliate per cocci, pezzi, intere lastre, pietruzze, tasselli, frammenti o filamenti;
ricomposte in linea orizzontale, fila a incastro di forme e colori simmetricamente disposte
oppure lasciate al disordine apparente, all’ammasso o nugolo disperso, nel caotico darsi del loro tutto e del loro niente.























“Mosaici tra Inferno e Paradiso”


“La visione di Dio” 

Azzurro è questa forma monocroma, indeterminata, azzurro è il colore scelto per l’elevazione sull’oro del fondale mosaicato, passaggio verso l’alto mediando verso la visione di Dio tale nel canto XXXIII dei Paradiso l’ intercessione della Vergine per permettere all’anima la contemplazione dell’assoluto. Rosso d’una sfera infuocata al centro, fiamma di luce divina, volti ricompaiono appena accennati filtrati attraverso e dietro quella . Blu-azzurro mosaicato, forme mosse e aggettanti, in rilievo quasi dalla superficie volutamente lasciata all’indeterminato del loro misterioso manifestarsi nella più totale libertà di linee sinuose, ritmiche, musicali, astratte e in movimento; forma indefinita, dio o dea, volto dell’eterna creatura, tale l’ intercessione della Vergine che rivela al poeta amore e bellezza, infinita comprensione delle cose. La sua mediazione lo porta verso l’alto dove la vista diviene limpida, trasparente intensificandosi nel momento in cui la Grazia apre a lui la possibilità di contemplare l’essenza divina: folgorazione pura di luce là dove la memoria viene meno e la parola poetica resta il solo imperfetto, lacunoso mezzo per ritrovarla.

Il Paradiso filtrato attraverso queste visioni a mosaico sono blu, ori, impulso all'ascesa, illuminazione divina, aurea densa e rispendente intorno alle figure, trasmutazione delle anime attraverso quella luce, è tutto ciò che è dell'ordine del moto verso l'alto, della trasmigrazione del pensiero attraverso colori puri, luminosi, dati in una profusione di luce, d’oro quasi dominante ovunque su fondali blu o ocra. Nella “croce degli spiriti beati” brevi tocchi di colore puro e giustapposto in arancio, rosso, bianco e giallo portato al fulcro della loro interna luminescenza creano un cerchio di luce irradiante dove la figura del Cristo scompare a tratti in controluce, sublimata, diffusa e insieme trasfigurata dalla potenza cromatica, dall'effetto contaminante del rosso-oro, tale la fiamma viva d’amore divino che Dante descrive proprio in termini amorosi di “fuoco vivo”, d’ardente desiderio d’“amore che muove il sole e le altre stelle”.
Ancora nei mosaici ispirati al Paradiso dantesco compare la figura massiccia e folgorante di potere e di luce di Giustiniano dal profilo ingigantito, ispirato al muralismo messicano, nei tratti del viso intagliati in maniera essenziale, aspri e spigolosi, avvolto in questo manto di luce, accompagnato da Dante e Beatrice; detentore della parola del Vangelo e insieme, legislatore di quel codice di leggi su cui la società medievale modellerà tutti gli altri, Giustiniano è illuminato di luce divina in quanto colui che congiunge azione politica all'attuazione del disegno provvidenziale della divinità.









Inferno

Quali colombe dal disio portate con l’ali ferme e alzate al dolce nido1 le anime di Paolo e Francesca sono viste uscire dalla schiera dei dannati per raggiungere Dante e Virgilio nel dettaglio della lastra mosaicata .Grandi tessere quadrate, non intagliate, enormi tessere quasi in rilievo danno vita a queste figure dai tratti essenziali, non rifinite, lasciate volutamente all’aspetto espressionista o fauve dei loro visi, delle chiome, degli abiti .Come graffianti striature su rosso porpora, dal vento portate, avvolte in un solo abbraccio, nelle tonalità del rosso una, del bluastro l’altra, “dal disio portate”; anelanti, prese dentro questo vortice alato, avvolgente carezza o palpito che investe del proprio moto parabolico tutta la composizione in una spirale di colori purpurei, arancio e rosati. Anche dopo la morte violenta, nella dannazione eterna. Una scia luminosa è tracciata dalle figure all'unisono dentro questa parabola ascendente, portata verso l’alto, mentre due altre ai loro piedi Dante e Virgilio le accompagnano con il loro sguardo. Nel “l’aeree maligno” del girone infernale sono immersi nel fondale oscuro d’un eterna dannazione eppure ancora visti in questo moto ellittico acceso dall'irrazionalità della passione amorosa aprendosi quasi un percorso, un passaggio obbligato, riconoscibile anche visivamente nelle linee volteggianti, a vortice tracciate verso l’alto, ondulanti, morbide sulla scia aerea che attraversa dalle chiome, ai profili delineati, al loro passaggio, l’intera composizione.
In una visione mosaicata ancora più estrema le due figure sono viste in moto discendente, in volo, grigio-verde argenteo su fondo bruno, attraverso l’aria portate, due macchie, due esseri volteggianti, aerei, discendenti come creature alate, non più viste come umane ma come spettrali presenze sommandosi in varco discendente, in repentina linea diagonale, in pennellate piatte e veloci, nelle tonalità dominanti del verde, bruno o argento.

La versione mosaicata de “Gli iracondi” di Signorini dall'evidente influenza cubista e picassiana , appare fortemente espressiva, espressionista al massimo grado nella quasi astrazione delle figure. Sono corpi a pezzi, a brandelli, loro stessi percuotendosi, percuotenti, “troncandosi coi denti a brano a brano, l’anima di color cui vinse l’ira”; nella resa volumetrica esaltata le masse morbide, aggettanti sulla superficie sono modulate in dimensioni spropositate negli effetti d’un imponente dinamismo. Cubista è il gigantismo delle forme mantenendosi tuttavia nella fluidità e morbidezza delle masse che voluttuose scelgono la linea spezzata; sono per pezzi, per brandelli di corpi dai contorni marcati, nella volumetria dei medesimi in rilievo, nello spezzato, nel riempimento della tela, nella dinamicità di linee e figure in costante movimento attraverso quella.






“I Centauri”

“Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto il piano abbraccia secondo che avea detto la mia scorta; e tra il piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri armati di saette come solien nel mondo andare a caccia”2.

Campiture cromatiche d’ un rosso invasivo sul fondo, in primo piano due centauri sullo sfondo dei dannati immersi in una grottesca, vivida atmosfera, bagno cromatico d’un purpureo infernale, sanguigno. Immersi nella fossa del Flegetonte i dannati galleggiano visibili solo per i loro capi dal fiume-fondale rosso esteso su tutta la superficie in una bidimensionalità pervasiva. In primo piano sono i centauri figure mitologiche a metà umani, a metà animali, vividi, maestosi nei loro contorni argenteo-grigi. Esseri biforcuti, doppi, fino al busto cavalli da cui si diparte criniera e testa umana, figure, mitiche, mostruose della commistione in una sola forma divenuti. Vividi, sanguigni, uscendo dalla bidimensionalità d’un manto rosso infuocato appaiono mosaicati in intarsio a tessere intere, irregolari, non ritagliate quasi, in rilievo uscendo dalla superficie della tavola, vividi, crudeli. Una bruma grigiastra e violacea a contornarli .





L’inferno è visto ora nell’ immersione in un rosso monocromo, ora in questi fondali grigiastri spenti, privi di luce, lasciati all’oscurità delle anime dannate, vaganti, condannate per l’eternità a subire la propria condanna, a pagare la propria colpa. Non può che essere oscurità totalizzante assenza di luce, forme spigolose e aspre, fondali bruni o cupi, figure violente o rabbiose, disdegnose, intagliate o taglienti, aspre e spinte alla deformazione dei tratti umani. Le figure si assimilano ad animali, si avvicinano al non-umano, al bestiale, al mostruoso spesso amplificate in questa loro dismisura anche nelle dimensioni, il mosaico ispirato alle “arpie”, per esempio, ravvolte intorno a arti divelti d’alberi con ali e artigli di pipistrello, colli e volti umani, sono viste nidificare tra rami esangui in un sinistro batter d’ali annunciando cattivi presagi.


O ancora la visione di “Lucifero, imperator del doloroso regno di mezzo petto uscir fora de la ghiaccia”; qui la rappresentazione figurativa dantesca d’origine medievale si trasforma nell’immersione in un rosso totale, quasi monocromo, colore esorbitante, esasperante e primitivo nella sua linea d’emergenza, assoluta, netta senza compromessi, tale una miriade di tessere a reticolo incastonate dalla finezza e precisione d 'un orafo. Lo spazio letteralmente disposto su due piani diversi, divisi, sul retro le due figure di Dante e Virgilio appaiono appena delineate su un fondo rosso carminio oscurante, quasi retrocedendo, riassorbite dalla colata oscuro-coprente. L’emergenza visiva è in qualche modo data da questa linea nera che attraversa, strada, sentiero o coda dell’animale, tracciato nero delimitando per lo sguardo il passaggio verso un altro piano di visione, di surrealtà o d’apparizione figurale. Un altro piano scenico letteralmente dominato da questa macchia o forma luciferina di fuoco e ghiaccio frammista insieme come una parvenza del divino cambiata di segno nel demoniaco, nell'infernale. Fa pensare all'uso della de-figurazione nella pittura di Bacon, all'emergenza violenta del colore sul supporto-tela con la sua energia portando verso il “fuori”, oltrepassando e deformando il concetto e la finitudine della figura. De-figurazione voluta, violenta dell’indicibile, ammasso materico in rilievo per grandi tasselli incastonati l’uno all'altro l’intercalarsi di sfaccettature colorate, di fasci, nugoli o ampi raggi nella sfera del giallo, dell’ocra, del vermiglio, dell’arancio o del violaceo ripercuotendosi in artigli, zanne, parti acuminate, masse irriconoscibili di materia nella voluta cancellazione della forma o nell'impossibilità d’una sua altra definizione. Fasci di colore, tasselli modulati, spiranti, aspiranti verso una dimensione verticale, un fuori-dalla-tela, presi nel vortice di materia-colore, nel processo lasciando della figura solo la sua macchia, la sua impronta non-umana, non-divina, primaria e non-figurabile.




1 Dante Alighieri, Inferno, V, 82-83)
2 Inferno, XII, 52-57





venerdì 2 agosto 2013

A proposito di CAMMINO, ECHI, INEQUILIBRIO, del progetto KING, (collettivo Strasse, Santarcangelo Festival 2013)










 STASSE, "classe aperta", l’esperienza del cammino



Uscire dal sentiero battuto, volutamente voler seguire il sentiero là dove si perde la traccia, là dove il cammino s’oblia a sé stesso, un passo dopo l’altro indefinitamente, e diviene fluttuazione impermanente dell’essere attraverso il corpo nella marcia.
Camminare attraverso sentieri impervi di grandi distese boschive, su rocce sgretolanti e refrattarie, nella melma fangosa del suolo dove foglie secche frammiste al fango risplendono nel bagliore del sole accecante, poi riviste in zone d’ombra, in macchie di fronde e cespugli coperte.
Immersi nell’oscurità dei sottoboschi, camminare sulla terra umida, pesante sotto i piedi, lungo i rivali alti delle colline cosparsi di d’erba secca o di fieno ingiallito, attraverso radure sconfinate come distese enormi di terra brulla, d’ arbusti e cespugli disseminata; camminare su macchie di polvere e terra bruciata, e ancora a ridosso del torrente, in discesa libera correndo attraverso pareti scoscese, verdeggianti, tagliate appena d’erba fresca.



Segui il gruppo in cammino, in silenzio perdendo il passo, restando leggermente indietro; li vedi procedere avanti a te, non una parola pronunciata, li vedi imboccare un sentiero secondario, scegliere di lasciare la distesa piana e verdeggiante per seguire un percorso impervio, non-tracciato là dove si perde il sentiero principale, dove si sprofonda nella macchia tra le falde del pre-esistente, del circostante, del circostanziale. Vi inoltrate dalla radura in mezzo alle profondità boschive, lo spazio lo vedi restringersi, chiudersi sopra la tua testa, ai tuoi piedi, imporre la propria presenza, dominare, decidere contro il tuo volere, nel tuo seguire non-intenzionale. Non devi fare nulla, solo camminare, procedi restando indietro, incespichi sul sentiero, sei in ascolto, nell’aperto, nel vivente, in contatto malgrado te stesso con le forze aggredenti dei sassi, del fango, delle rocce, degli incavi dissestati al suolo, degli insetti, delle zanzare, delle spine o dei rovi, nel fare del cammino, in cammino attraverso il tuo sentire, nell’esplorazione dell’esterno; non sai dove ti trovi, punti di riferimento fisici e concreti, la geografia d’una mappa, ogni volta ridisegnata, re-immaginata nella tua mente differentemente. Ti affidi al contatto istintivo con quello che ti sfiora, ti sta intorno, le persone e le sensazioni che ti invadono; ti avvicini, ti allontani, esiti, retrocedi, ti distacchi, cerchi o chiedi aiuti a qualcuno, passate a ridosso di cespugli spinosi, sul rivale d’una salita scivolosa, fango sotto le scarpe, vi tenete per mano, in marcia rapida attraverso una discesa alberata, a ridosso di blocchi in cemento serrati di capanni industriali poi di nuovo dentro la selva. Ti poni in uno stato di pericolo, di paura rispetto a te stesso, non sai nulla, rivivi la sensazione opprimente di un non-luogo, del non riconoscere la via d’uscita, dell’essere in uno spazio chiuso senza respiro, nell’ oscurità perduta del tuo sentire, a te stesso sprofondato, sopraffatto, immerso, nell’ esasperazione senza limiti del minaccioso, oscuro, indeterminato.

Sentire, percepire, essere là con il vivente, sopraffatti, in cammino con quello che mi precorre, mi pre-esiste, mi supera, viene prima e oltre me stesso, spazio interiore, fuori o dentro non so più, evocato, sollecitato dal passaggio d’altri oppure ricadendo là a ritroso insieme al peso della sua memoria in questo gioco tensivo di presenza a piedi nudi nell’aperto, nell’indeterminato moi, en danger de moi meme, exposé à mon voyage interieur dedans-dehors je ne sais plus.


Ciò che si comunica al mio corpo dal paesaggio, ciò che si innesca in me a partire dallo spazio, desolante o vuoto, sconosciuto o impervio, aggredente o solidale; si espone, si libera, si riversa, e essendo là non può contenersi, nella mobilità, nell’energia dell’essere-in-marcia, dell’essere-nel-cammino durante ore senza apparente direzione, dove qui, cosa ora, le cose a pezzi, disintegrando in loro stesse esplodono in me e mi trascinano, si innescano e mi liberano, si riversano e si frantumano, si svuotano con la rabbia e l’impotenza suscitata dal processo.

Esperienza quasi tattile del toccare al pensiero con il corpo, a un sentire quasi carnale alle cose.

“Fuori rotta”, un impulso si snoda verso una verità arcaica del pensiero.






Sul progetto KING di Strasse


Il cammino nel lavoro performativo di Strasse diviene mezzo conoscitivo di esplorazione e di ricerca, di apertura delle proprie frontiere concettuali e di pensiero ma anche fisiche, di percezione e di ascolto rispetto allo spazio esterno, al nostro abitare lo spazio, al nostro modo di esistere e vibrare attraverso quello nel pensiero, nei sensi, nella memoria. E’ quello che esce o ci fa uscire dai contorni desueti del quotidiano per re-immetterci in qualche modo in una percezione più ampia, più espansa a partire dal flusso del vivente sia esso il contatto intimo con la natura, ma anche con il reticolo delle città e dei suoi segni. Si passa attraverso esperienze liminari a cui s’è sottoposto il collettivo teatrale Strasse come la vita nomadica, l’attraversamento, il viaggio a piedi per giorni e giorni da est a ovest, dal Tirreno all’Adriatico, da una sponda all’altra della penisola tracciando nel cammino una mappa provvisoria, immaginaria, una trama invisibile di segni, una linea che è anche quella di un pensiero che si costruisce a poco a poco nell’avanzata lenta e inesorabile del percorso, tale l’esperienza di “Echi”.
Ancora il progetto King è l’esplorazione del “fuori dallo spazio abitato”, l’altro lato delle città, “dietro le facciate dei palazzi”, fuori dal centro del sistema lo spostamento verso i margini, i vuoti lasciati dall’ordine imposto del sistema urbano e industriale preponderante;
la solitudine essenziale di spazi disertati, periferie, luoghi espropriati dall’occupazione della civiltà, le derive prodotte dal sistema industriale, tali le spiagge bianche di “Inequilibrio” a Rosignano Solvay abitate per cinque mesi come riappropriazione e riscatto simbolico del territorio.

E’ ancora l’indagine su ciò che è altro rispetto ai luoghi sottomessi alla razionalità funzionale allo sfruttamento capitalista, alla colonizzazione industriale delle città: i frammenti o i residui del sistema di produzione di massa,
gli oggetti inutilizzati, i residui inassimilabili, le scorie lasciate o deposte su un territorio, quelle che vengono raccolte e ri-utilizzate per costruire l’ "Accampamento leggero" a Santargangelo, auto-generato da materiali residuali, trovati in sito. Tela, legno o nylon quali detriti deposti dall’uomo o dalla natura danno vita a questo sito-dimora itinerante, temporaneo aperto al pubblico come mezzo di scambio e confronto per situare il proprio lavoro creativo.

L’esperienza di King diviene luogo di conoscenza di sé, del mondo, del senso di fare teatro come processo, indagine generata dallo spostamento, iscritta nel mentre del cammino, nella condizione dell’ “essere-in-marcia”, in movimento, dell’ essere nomadico del cammino, nel contatto inesausto con la natura, nella polvere, nello spossamento dei corpi, nello sfinimento fisico della durata della prova, nella randagità dell’esperienza; si risveglia lì un sapere istintivo, primo che deriva dall’esperienza, la liberazione di risorse inconsce, d’un potenziale celato o inutilizzato interno all’individuo, l’abbattimento d’una serie di abitudini, limitazioni del pensiero, remore imposte o implicitamente assimilate dalla civiltà. Un percorso di conoscenza nasce dal nomadismo del cammino, nella voluta perduta di statuto sociale, etichetta come riconoscenza d’uno statuto d’appartenenza; impone la necessità dell’essere-in-ascolto, in percezione-con, in-relazione-a, la totalità del vivente contro l’ingiunzione d’un sé impositivo, in controllo, direzionale. Impone lo svuotamento dal superfluo, il vuoto del non-luogo, il vuoto di sé, non più nessuno qui, nessuna personalità da difendere, ego sociale da riempire, non l’aggiungere valore o attribuire significati quanto il togliere, smantellare il non necessario dell’io attraverso il contatto prolungato con l’impervio, vuoto del paesaggio-natura circostante. Mi svuoto, mi riverso, mi libero in quello, scopro diversamente il mio essere o esistere in un luogo, scopro lo spazio come esperienza, pongo me stesso nel pericolo di quell’esperienza, accetto di perdermi oppure d’essere in stato di instabile apertura, costante trasformazione rispetto a me stesso, scopro il teatro in questo divenire, costante ridefinirsi d’esperienza come un incessante “perdere e ritrovare il cammino”. Scopro il senso di quello che significa “portare a espressione” o a “rappresentazione” in teatro aderendo alle cose, agli accadimenti oppure misurando su scena lo scarto della loro differenza.

Nel processo i performer esplorano o si ricongiungono attraverso il contatto intimo, profondo, primordiale con la natura- attraverso il moto estatico del cammino, della danza, dello spostamento nomadico- inconsciamente scoprono o incarnano, ritrovano o riconoscono in loro un senso innato del sacro come movimento estatico che supera i limiti del contingente, dell’umano per ricongiungersi in qualche modo all’infinitità della natura, al senso d’una totalità cosmica del vivente.






Sullo spettacolo "King" di Strasse, Santarcangelo Festival 2013

In cammino a piedi nudi attraverso la radura, loro gli attori-performers come figure disseminate in mezzo alla distesa verdeggiante costeggiata di macchie disuguali d’alberi e cespugli in lontananza. Sole alto in cielo, come per l’effetto d’un eclissi irradiante e diffusa, luminosa ancora al quasi-tramonto, gli spettatori in lontananza su un’altura anfiteatro naturale gettano il proprio sguardo sulla vallata.

Fumo come d’una scia grigiastra e nebulosa portato via dal vento attraverso la radura disperdendosi. Alcune tende d’accampamento appena riconoscibili nei loro profili stagliate a distanza nella vallata, un sentiero in terra battuta perdendosi a un certo punto, più lontano al fondo agglomerati di case, un villaggio, e dietro ancora a perdita d’occhio colline dai contorni sinuosi dolcemente tratteggiati all’orizzonte.

Dispersi, vaganti in mezzo alla radura: le azioni performative dei giovani attori si stagliano nettamente come in un tracciato di segni nello spazio. L’ambiente sonoro naturale emana cinguettii, rumori lievi di fondo, non-invasivi, non-disturbanti, una musica di pianoforte a distanza ora.

In corsa: scappare, inseguire, rincorrersi attraverso la corsa, incrociarsi, ritrovarsi. Il teatro come gioco, la scena come vita, la vita come messa in gioco dell’esperienza per costruire una serie di azioni reticolari intercettate a distanza tra i vari performer: la corsa, l’arresto, il cammino, la caduta, l’attraversamento rapido dello spazio in diagonali singole o di gruppo, il gioco di pallone dalla quale sorge una danza, una coreografia ritmata e gioiosa, l’intersecarsi di più corpi nel corso di azioni collettive condivise in una ritmica comune si frammistano a voci come di interferenze radiofoniche dell’esterno. Udiamo interpolazioni d’ordine astronomico sui pianeti, l’universo in espansione, la terra, il sole “la stella più grande che conosciamo, la più luminosa della via lattea”, sul modello di vita delle balene incarnando “ la calma della vita senza urgenza, l’esperienza dell’umano senza aggressività”.



Dalla posizione sopraelevata della collina gli spettatori sono chiamati a spostarsi, entrare nell’effettivo spazio scenico e prendere parte all’arena del gioco-teatro, a entrare a stretto contatto con le azioni performative degli attori, a sedere sulla terra nuda accanto a loro, seguire da vicino le loro scelte, prendere parte a questa condivisone d’esperienza, loro per primi implicati nella relazione spazio-corpo e paesaggio.

Una danzatrice-performer emerge in mezzo a uno spiazzo polveroso aperto nella macchia circostante disseminata di cespugli e arbusti. In un’improvvisa singola caduta si rivolta al suolo nella terra polverosa, grida, si rialza, non smette di gettarsi al suolo, di rialzarsi; segue, scopre in sé questo impulso indomito, animale, questo fondo istintivo gioiosamente portato alla luce, esplorato attraverso l’improvvisazione danzata. Poi, altrettanto rapidamente si allontana, scompare al centro della macchia, lo spazio circolare resta vuoto, una bandiera gialla sventola piantata a poca distanza nella radura.

Segue un momento di follia collettiva e gioiosa riempita di risa, grida, esplosioni di fuochi d’artificio, spari in mezzo alla selva, la simulazione del gioco degli indiani, momento di rapimento gioioso, liberatorio nella natura fino al susseguirsi lo stridore violento d’un violoncello dove un corpo è portato, trascinato via nella polvere. Ancora ci rimanda a questa visione primordiale del teatro come d’una scena fatta d’uno spazio vuoto, di esseri umani, di qualcuno che guarda, di qualcosa che accade all’improvviso, non previsto in una situazione data, una scintilla di vita, di verità attraversa quello spazio vuoto, provvisoriamente dato di fronte ad altri che guardano.

Così alcuni gesti, alcune voci si manifestano attraverso lo spazio scenico della radura: in un monologo ininterrotto un ragazzo grida in modo profetico la propria delirante verità, il bisogno di “ riempirsi le orecchie e gli occhi di cose che siano l’inizio d’un grande sogno, del tendere la propria anima come un lenzuolo all’infinito, del mantenere in vita i propri desideri e non schiacciarli perché ci sono più voci in un solo corpo, più io in un solo io e le cose piccole all’apparenza insignificanti non le grandi sono quelle che durano, ci sopravvivono resistono e ci salvano”.



Ancora in un altro momento performativo una danzatrice schiena inarcata verso l’esterno si butta a terra, segue una sospensione poi la ripresa della stessa azione violenta. Nella caduta il corpo si rotola, solleva polvere e poi rialzandosi non smette di ritornare alla terra, schiena inarcata all’esterno, in un moto propulsivo, impulsivo, inatteso. Lascia cadere il peso al suolo, si lascia scivolare alla terra, ritrova quel contatto primordiale attraverso il gesto violento dell’andare nella polvere e rialzarsi in una sorta di violenza estetica ricercata o auto-generata. Quasi retrocedesse a questa “sostanza originale dell’uomo”, stadio primordiale del movimento.

Un’altra performer si avvicina, s’arresta e nel proprio monologare interiore comincia a enumerare tutto quello che lei ha raccolto durante il suo viaggio-cammino dalla superficie della terra: “ sassi, pezzi di legno, fiori, sassi che sembrano fossili che sembrano cuori, pezzi di rami che somigliano al volto di Nefertiti. Due quadrifogli, un soldatino di plastica su uno scoglio al mare, un pezzo di metro bianco sempre di plastica che si ferma al cm 59, un braccialetto di ottone, un dépliant con dentro il listino della pizzeria “la fata”. Figura affinata, defilata implacabilmente maschile, rinchiusa in un abito-corteccia blu elettrico riflettente con strass dorati, comincia a muoversi terminata l’enunciazione; si allontana, volge le spalle al pubblico, e qui, torso nudo di schiena dopo essersi sfilata il vestito fino alla vita comincia a danzare, librarsi in una serie di gesti espressivi di braccia, torso e mani nude, tentativi di prendere il volo, espressamente li’ nel suo darsi nel silenzio dei margini.


Scena finale
Installazioni di materiale leggero, raccolto e rigettato, auto-generato e recuperato sul territorio: capanne di bambù costruite con pezzi di tela iuta, pezzi di recupero o riciclati come legno, plastica, cartoni o assi, poi tegami da campo, alluminio riflettente dei medesimi nella luce del giorno, stoffe, panni e tessuti impiantate in tende d'accampamento in un eco-sistema pensato secondo natura.

Appostamenti nel territorio di queste architetture leggere, non invasive, non aggressive come per disegnarlo attraverso una rete di punti d’ancoraggio, di condivisione o d’insediamento pacifico, mai d’occupazione violenta o d’aggressione impositiva dello spazio.

Tentano di accendere piccoli fuochi sulla sabbia con pezzetti di legno, carta, residui raccolti al suolo, e qualche fiammifero; tentano di innescare una combustione vitale, una scintilla, una fiamma che possa produrre incandescenze di vita luminosa.

Cercano a gattoni nella terra, le ginocchia piegate, avanzando passo dopo passo, scavando, sfogliando, procedendo per tentativi, per tentennamenti, uno a uno nella ricerca esasperante, lenta, indeterminata avanzando nel proprio tragitto per uscire di scena penetrando tra i cespugli alti della radura.
 Cielo azzurro limpido, violaceo, grigiastro argenteo all’orizzonte esposto nelle sere d’estate al calore del sole prima del suo eclissarsi sopra l’accampamento in lontananza.
Lampadine elettriche la notte si stagliano contro la massa informe e oscura degli alberi nella vallata, i profili delle case e del paese a distanza, contro la linea frastagliata delle colline.

Un teatro naturale si disegna sulle colline che aprono alla radura-scena al crepuscolo, perfetto nella sua semplicità essenziale d’uno spazio vuoto, teatro del gioco tra corpo e spazio
nell’immobilità dell’attesa al tramonto.