domenica 20 dicembre 2020

A proposito di Artemisia Gentileschi, una voce al femminile nell’arte








 “Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera”, il nuovo docu-film di Jordan River uscito recentemente sulle piattaforme streaming in concomitanza con la Giornata internazionale contro la violenza alle donne illumina e apre un squarcio poetico sulla vita e le opere di Artemisia Gentileschi, pittrice italiana del ‘600 di scuola caravaggesca, figura eccezionale per la propria epoca, una tra le  prime donne ad essere ammessa in una accademia di disegno, artista di rilievo e precorritrice di un’arte al femminile e delle future poetiche femministe.

Come afferma il regista Jordan River: “Penso che la vita di Artemisia e le sue opere possano oggi farci immergere nella potenza dell’arte su un piano emozionale e comprendere ciò che vive nell’animo un artista a tratti oppresso dalle circostanze quotidiane che a volte la vita può riservare a un essere umano”. Il documentario mette in luce, in particolare, questa commistione profonda tra la vita e l’opera della pittrice, la sua personalità artistica e stile espressivo intimamente connessi alle vicende esistenziali. Orfana molto giovane di madre, Artemisia era figlia del noto pittore Orazio Gentileschi che nella sua casa-bottega a Roma ne valorizzò il talento precoce, la condusse passo a passo sulla via della pittura mettendola  in contatto con maestri influenti e noti come il Caravaggio. L’evento dello stupro giovanile subito dal Tassi, l’umiliazione del processo che ne seguì e il matrimonio riparatore con un mediocre e quasi sconosciuto pittore  segnano tutta la sua giovinezza e si proiettano con veemenza nella sua opera fino a renderla senza dubbio il simbolo di un’arte assertiva e di una voce  inequivocabilmente femminile. In definitiva, è la dimensione interiore e esistenziale dell’artista, nello specifico il suo essere donna in un mondo dominato da leggi e gerarchie di potere a cui esse non hanno accesso, e riflettersi in queste opere di matrice classica, a sfondo mitologico o religioso, tanto da renderle per noi estremamente espressive e attuali oltre il loro tempo e la storia. 

Artemisia, privilegiata dalla protezione di committenti e mecenati potenti, appare nel ‘600 l’eccezione in un mondo dominato da sole presenze maschili; è tra le prime a combattere contro cliché e discriminazioni di genere per affermarsi professionalmente grazie al suo talento e alla sua formazione artistica.

Vorremmo soffermarci qui su tre opere in particolare di Artemisia appartenenti a epoche diverse del suo lavoro ma certamente abitate  da un’imponente energia femminile comune a queste figure mitologiche e drammatiche che in qualche modo si integrano con la vita dell’artista nutrendosi della sua personalità.

 





Giuditta che decapita Oloferne ( 1613)

Colpisce la violenza del gesto in Giuditta, esasperato, irreversibile, visto come una rivalsa, una vendetta, un’esplosione di rabbia culminante nel taglio sanguineo della testa di Oloferne mentre la serva è complice nell’immobilizzarne il corpo. Che un’artista donna esasperi a tal punto una passione violenta fino a riversarla con tale energia incontenibile sulla tela è quantomeno sorprendente per l’epoca. Al momento del dipinto Artemisia non è più all’inizio della carriera ma pittrice sicura della propria tecnica e in connessione profonda con la propria interiorità attraverso la pittura. E’ la donna che aveva fatto fronte alla violenza subita e all’umiliazione del relativo processo  un anno prima, che screditata si era poi trasferita a Firenze con un matrimonio riparatore per voltare pagina alla vicenda. Nella Bibbia Giuditta è una vedova ebrea coraggiosa che salva il suo popolo dall’assalto degli Assiri seducendo il generale assiro a Betulia per poi tagliargli la testa. Caravaggio, uno dei grandi maestri,  aveva già dipinto questo tema biblico ma Giuditta nel chiaroscuro estremo delle figure caravaggesche appariva ancora a una certa distanza da Oloferne. Nella versione di Artemisia il corpo dell’uomo è coperto da un drappo rosso, disteso trasversalmente sul letto, la testa in primo piano prossima agli spettatori e vicinissima a Giuditta. Il corpo è braccato, tenuto fermo, immobilizzato dalla complicità delle due donne con vigore, nella freddezza programmatica che precede un’esecuzione. Un bracciale scintilla verde smeraldo sul braccio sinistro fermo e poderoso di Giuditta, la sua figura statuaria, l’abito scollato, i capelli neri raccolti sulla testa. Lì, con quella lama affilata e sottile sulla gola di Oloferne pronta a inciderla da parte a parte attraverso la pelle. In quel brivido che precede l’atto omicida, il gesto irreversibile, forse il piacere di una crudeltà restituita mentre fiotti di sangue già sgorgano sui drappi bianchi dei lenzuoli. Tutta la scena è avvolta da un profondo chiaroscuro di influenza caravaggesca ad eccezione dei volti; le figure emergono da quel fondale nero con una luce intensa, calda che mette in evidenza in modo drammatico l’esecuzione. Artemisia ritraeva spesso tra i suoi soggetti scene violente o crudeli di uccisioni là dove l’urgenza poetica si avvolgeva a stretto contatto con il dramma esistenziale. Qui sembra che l’una nutra e raccolti l’altra come per esorcizzarla, sviscerarne la memoria e insieme liberarne l’energia distruttiva e rabbiosa sulla tela. Giuditta come carnefice dalle braccia robuste e muscolose  compie l’esecuzione senza timore né pietà ma con fredda, controllata determinazione in una sorta di rivalsa esistenziale: la brutalità di un gesto riversato con arte sulla tela.

Autoritratto come allegoria della pittura ( 1638-39)

La pittura per Artemisia è l’ autoritratto di sé, lei è la pittura e viceversa. E’ una donna che dipinge sé stessa al centro della scena, eppure lo sguardo scelto non è narcisistico, il suo volto non è frontale a noi spettatori quanto proiettato insieme al corpo verso quello che sta cercando, obliquo verso un altrove, un aldilà non visibile, non manifesto oltre la realtà della scena, oltre l’orizzonte del quadro. 

Cerca, forse, il segreto della pittura in quell’oltre a cui tende con l’intera figura, tutto il corpo carnale, massiccio, rapito verso quell’interrogativo, una mano sollevata verso la tela con un pennello , l’altra serrando la tavolozza. Il corpo si volge verso e oltre quell’orizzonte della tela per meglio guardare; appare intenso, rapito in maniera quasi mistica. Tutto in lei tende verso quell’altrove della pittura, lo sguardo con stupore là si proietta come se là fosse il segreto del suo quadro.

 

La vergine e il bambino con il rosario ( 1650-51)


Negli ultimi anni il pennello diviene nelle parole di Artemisia “un’oggetto sacro”, un’estensione del proprio pensiero, una cura per la propria anima mentre l’artista sempre più consapevole della tecnica e potenzialità espressive intreccia in maniera istintiva e  serrata arte e vita, lo stile pittorico sempre più audace e consolidato,  la sua forte personalità artistica e i temi della tradizione pittorica sacra . Nella “Vergine e il bambino con il rosario”, una donna nobile, alter-ego della pittrice tende un rosario al bambino sulle sue ginocchia  in una visione mistica della maternità in altre tele da lei rappresentata in chiave molto più carnale e umana. Il rosario, in tale simbologia, è ciò che chiude il cerchio tra divino e umano, che ricollega i due piani, quello della concezione divina e della maternità umana, ciò che connette e vincola la figura femminile al figlio, al bambino che è anche il Cristo Salvatore e sé stessa verso il mondo divino e spirituale dell’arte.

Perché infine, il suo fare artistico così unico ed espressivo è inevitabilmente una lotta  tacita e costante contro i pregiudizi e le riserve della sua epoca rivolti alle donne, in particolare alle donne nell’arte, lei forse unica eccezione del suo secolo .  



sabato 28 novembre 2020

Paolo Roversi, “Studio Luce” in tempi d' oscurità


“The studio is everywhere, it is a corner of my mind.”

“Studio luce è una stanza rettangolare con il soffitto alto, il pavimento di vecchio parquet e una grande finestra orientata a nord. E’ un  piccolo teatro con un’attrezzatura scarna. E’ qui dove lavoro ogni giorno come un artigiano nella sua bottega”.

 Primo punto focale della retrospettiva su "Paolo Roversi" è l’idea di studio come luogo di rielaborazione mentale dell’immagine oltre che lo spazio fisico dove il fotografo lavora da anni nel suo atelier  parigino,  da cui  prende il titolo la mostra. 

Il Mar di Ravenna ha ospitato fino a pochi giorni fa- prima dell’obbligata chiusura per le restrizioni imposte dall'emergenza Covid- la retrospettiva dedicata al fotografo ravennate Roversi da anni stabilitosi a Parigi con le sue più note fotografie di moda ispirate a muse della bellezza contemporanea: i suoi ritratti di personaggi  “famosi”,  le “still life” come visioni soggettive dello studio, infine una serie di scatti inediti provenienti da Vogue o da altri editoriali  del settore .

 La mostra spazia attraverso quello che a prima vista apparirebbe come il regno dell’effimero e del transitorio allo stesso modo in cui il mondo della moda si mostra a noi nel suo involucro  scintillante, lieve e dorato fatto di belle apparenze;  al suo opposto   viviamo oggi in Italia, per una seconda volta, un parziale confinamento imposto per tentare di arginare la pandemia  Covid in atto. Ciò si traduce nella cancellazione di tanta parte del nostro vivere sociale:  ogni forma di aggregazione bandita, gli spazi culturali sottoposti a restrizioni, i luoghi pubblici e di socialità chiusi nella palese austerità o rinuncia a tutto ciò che non appare sostanziale e necessario.  Tali immagini  sembrerebbero fuori luogo ora, il contrasto con l'emergenza economica di oggi stridente eppure forse è proprio in momenti di oscurità o parziale oscuramento della nostra vita collettiva che sentiamo il bisogno più che mai e la necessità di  tali ansiti di bellezza. Perché le fotografie di Roversi più che scatti di moda si imprimono ai nostri occhi come  impronte di luce, non solo ritratti di corpi ma vere e proprie emanazioni di anime colte in rari momenti di autenticità. Essi iniziano a deporre le proprie maschere per lasciare a noi trapelare una loro più intima verità. Forse oggi più che mai queste immagini eteree e inconsistenti ci parlano della permanenza della luce in un mondo che si restringe ai nostri occhi e si chiude portandoci via terreno da sotto i piedi, giorno dopo giorno oscurati da pandemie  e fobie collettive . Qui, al contrario la fotografia di Roversi è definita da Emanuele Coccia “il contagio della luce, di corpo in corpo, di anima in anima, di istante in istante"[1]

Ancora  il fotografo parte proprio dall’idea del suo studio fotografico, l’atelier  di creazione dove lavora ogni giorno, come "luogo simbolico" che si apre oltre lo spazio fisico limitato, chiuso appunto del presente.  Là, le immagini ci fanno accedere nella loro potenza poetica ed evocativa. Di tali spazi di pensiero, di immersione sensibile o di apertura immaginativa abbiamo più che mai bisogno oggi contro le chiusure e i distanziamenti, le restrizioni e l’annullamento di tanti aspetti della nostra vita culturale e creativa.

Studio Paris

“Lo studio è ovunque”, afferma Roversi,  è un atto di sublimazione della realtà che lo circonda, degli oggetti, dei volti ai quali chiede di lasciare affiorare la loro storia, la macchina fotografica solo lì per raccontarla. La  "Deardorff", da sempre il suo strumento privilegiato di lavoro, è ripresa in diversi scatti come un oggetto del passato, magico e misterioso investito di un qualche indicibile necessità e segreto. Ancora lì, identica dopo anni, immutata e immutabile nel tempo, vista nella sua aurea luminosa e trascendente su uno sgabello a distanza oppure di profilo come uno strumento musicale: una  fisarmonica pronta a accordarsi nelle proprie segrete armonie con quello che la circonda. Appare , infine in primissimo piano come la lente riflettente ingrandita al centro dello spazio: l’occhio della mente, della visione soggettiva espandendosi dal subconscio alla realtà esterna. La macchina appare lì nel suo potere di creare e distruggere, di rivelare con mistero, charm e fascino gli oggetti, incantandoli nell’atto stesso di produrre immagini.

Polaroid Processor (2002)

Un ammasso di vecchie pellicole, film e ritagli di negativi fotografici sono gettati sotto un tavolo e lì lasciati confondersi nel dimenticatoio delle loro passate provenienze. Danno vita a una composizione inedita nata da “una manciata di immagini” infrante e ricomposte. Che cos’è la fotografia se non questo costante tagliare e comporre, arrestare e trasformare, gettare via per ritrovare sotto altra veste quello che non può essere preservato immutabile nel tempo. Come per queste migliaia di polaroid il fotografo procede lavorando pazientemente_ artigiano nella propria bottega_ ogni giorno per scoprire attraverso la propria visione mille modi di raccontare la stessa storia in una miriade di forme differenti. 

“Blanket”

La coperta è un fondale appeso a un muro, distesa come una pelle di animale scuoiato contro lo spazio vuoto dello studio illuminato da un semplice riflettore. La coperta è sudario di corpi lì impressi anche se invisibili al di sotto. E’ schermo di protezione, velo, bianco spazio vuoto che lascia affiorare  e mettere a nudo la prima pelle del soggetto per cogliere del suo essere il riflesso che si rivela nell’immagine fotografica.

Lo studio è una scena dove ogni cosa può accadere”, afferma Roversi; è un “teatro alchemico” che non vuole isolare il soggetto per dare a lui una fittizia apparenza quanto, come l’ attore nel momento performativo, rivelare la sua più autentica presenza. La scena come lo studio fotografico è nella foto di Roversi il luogo di tale svelamento. Uno spazio deserto dopo lo spettacolo; il parquet risuona di passi mentre un paio di scarpe nere a tacco alto, lucide ed eleganti si stagliano su quella scena vuota. Il sipario si chiude, le quinte senza tendaggi si mostrano nelle loro struttura a vista. Il tempo è sospeso, denso e abitato da ciò che è lì appena avvenuto.

“Ogni cosa è ritratto e ogni cosa è autobiografia”






I grandi ritratti di Roversi sono corpi femminili visti nella sublimazione della propria intrinseca  natura e per l’aurea che emana ciascun volto_ l'intima vibrazione di un essere_  rivelato dallo sguardo del fotografo.  Un alone luminoso  li avvolge quasi ci aprissero a un mondo. Sono intimamente scrutati, lasciati parlare, quasi esorcizzati nel loro potere di  influenzare o attrarre il nostro sguardo. Come osserva Coccia: “La fotografia non è stata inventata per permetterci di conservare la memoria dei morti; si è imposta a noi perché ognuna delle anime che ci abitano deborda dai nostri corpi, desidera vivere altrove, nella pellicola, nelle stampe, al fondo di chi ci osserva”[2].


Volti di donne sono ripresi in primissimo piano; emergono sul vuoto del fondo, tagliando quasi quel velo sottile che separa lo spettatore dall’immagine. Sublimati in estetica forma, ora intrisi di malinconia riflettono il proprio modo di esporsi  al mondo. Il volto può diventare una narrazione per immagini:  è in parte oscurato in “Audrey” da un filtro colorato che evoca   l’ansito del desiderio, ora è immerso in un’aurea di purezza oltre la sua reale presenza. 

“Natalia” appare come creatura angelicata, ispirata alla figura di Beatrice nella tradizione dantesca, colei che irradia nello sguardo radioso e trasparente una innata luminosità cui fanno eco gli ori bizantini della città natale di Roversi. 

“Rihanna”, al contrario, emerge come una Cleopatra moderna, donna affascinate e tentatrice immersa nel sostrato della cultura araba fatta di fumi di narghilè ,  veli e chador a nascondere o velare il corpo e gli ori scintillanti di bracciali e preziose spirali antropomorfe .      


 Roversi definisce la bellezza un inspiegabile equilibrio della natura, “ una linea sottile tra la luce e l'oscurità, la realtà e il sogno, la verità e la finzione connessa all’inseparabile relazione tra due opposti[3]. Forse la linea stessa che separa e unisce tali opposti.

 

 Altri ritratti  emergono in una forma essenziale liberata da ogni superfluo,  quasi che la superficie dell’immagine riuscisse a coincidere con il volto interiore dell’io rimasto intrappolato sotto la pelle, dietro l’abito, oltre  l’espressione di convenienza, dietro la maschera interiorizzata del nostro vivere sociale. Impressi di fronte a noi come maschere nude essi ci guardano perlopiù frontali oppure illuminati per metà di profilo, diversissimi tra loro: ora inquieti, insidiosi, angelici ora limpidi o provocanti in un faccia a faccia unico e inequivocabile con l’ obbiettivo. Una “mutua confessione” tra fotografo e soggetto.

 

Yemen ( Al-Mukkala)

Un villaggio bombardato dalla guerra, disertato dai suoi abitanti, in fuga, infine occupato dalle milizie estremiste. Là, solo i bambini nell’immagine sono rimasti: una tribù di bambini di tutte le età, grandi e piccoli al centro della scena nello spiazzo di terra vuota. Dietro di loro  sono le case in terra battuta, le capanne fatiscenti, i tetti di paglia. i muri e il suolo disseminati d’argilla. Loro appaiono al centro di questo piccolo mondo antico fatto di orfani e figli nati in mezzo al deserto: gioiosi, non curanti del resto, pieni di speranza, in un sogno che sembra aprirsi solo quando le milizie e le millenarie autorità religiose si eclissano per lasciare il villaggio abitato da questa tribù di bambini.

Looking for Juliet” ( 2020)

“ Ho sempre sentito la fotografia più come una domanda che come una risposta”” afferma Roversi a proposito della serie di immagini del calendario Pirelli 2020 ispirate alla figura di Giulietta nella tragedia Shakespeariana. Le immagini create per la serie fotografica appaiono come ritratti di giovani donne ispirate a dame del ‘500 nei dettagli di decolté magnificenti. Acconciature o gemme brillano sui corpetti stretti e raffinati; i volti ritornano cerchiati da un’aurea nobile e radiosa . Appaiono scalinate e portici di palazzi rinascimentali, una figura in fuga, statue a replicare gli stati d’animo dei personaggi. In un’altra versione moderna Giulietta è vestita in jeans e maglietta con lo stesso volto audace, nitido e appassionato della figura shakespeariana. Le  immagini ricreano l’ambientazione originale, l’aurea del personaggio riportandolo ai giorni nostri perché la fotografia si vuole “traccia atemporale” che l’immagine lascia oltre il momento presente.

Sempre la fotografia in Roversi resta  “luce che illumina l’invisibile che ciascuno porta in sé”  lasciando, infine, emergere attraverso il ritratto l’intrinseca emanazione di cui è fatto un corpo.

 

 



[1] Emanuele Coccia, “ Light from light, soul from soul”, in Catalogo Mar 2020

[2] Ibid.,

[3]Paolo Roversi,  Catalogo Studio Luce, Mar 2020



[i]

martedì 22 settembre 2020

Monet e gli Impressionisti: paesaggi d’acqua a Palazzo Albergati ( mostra a Bologna)



Nel 1875 Monet dando inizio alla svolta pittorica  moderna scrive a proposito del suo quadro “treno nella neve”: “Quando il treno parte il fumo della locomotiva è talmente denso che rende ogni forma difficilmente riconoscibile”. Tale il treno diviene sulla tela:  una presenza scintillante, viva come due occhi irradianti nella notte, un bagliore arancio sulla bianca coltre di neve, una fantasmagoria di punti luminosi , fugace come l’impressione che l’ha generata. Tale la svolta semplice quanto radicale della nuova pittura impressionista alla fine del diciannovesimo secolo: dipingere la vita, l’impressione immediata e autentica dei sensi, lasciare l’atelier per lavorare in esterno, “en plein air” utilizzando  la contingenza del momento, le varianti atmosferiche, l’influenza dei primi procedimenti fotografici. Gli impressionisti abbandonano  il canone e la staticità della pittura accademica classicista di soggetto mitologico; dipingono all’aria aperta portando con sé tele e pennelli, rapidamente  prima che la luce del giorno scompaia oppure utilizzandone le sfumature più cangianti per immergersi in quei paesaggi e renderli così come apparivano  ai loro sensi. 





Color is my daily obsession, joy and torment”: il colore è la mia ossessione quotidiana, la mia più grande gioia e tormento”  affermava Monet, come leggiamo nella citazione all’inizio del percorso a Palazzo Albergati; al centro della mostra bolognese alcuni tra i più noti  capolavori del movimento impressionista francese, in particolare Monet, Degas, Renoir ecc sono affiancati da alcuni inediti provenienti dal museo  Marmottan di Parigi tra i quali assumono particolare rilievo le tele di Berthe Morisot unica esponente femminile del gruppo.


Un’irradiazione di colori accoglie i visitatori attraverso l’installazione all’inizio della mostra:    ninfee d’acqua, distese fiammeggianti di papaveri rossi, piccoli pesci guizzanti nel laghetto dai riflessi smeraldo di Giverny trasformano il corridoio del palazzo in un prato fiorito, in un campo acceso di colori dove le ombre dei passanti si confondono con quelle delle forme proiettate  sugli specchi laterali per lasciarli precipitare nel sogno luminoso degli impressionisti.

Uno spazio particolare della mostra bolognese è dedicato alla figura di Berthe Morisot, artista auto-didatta in un’epoca in cui le accademie d’arte erano riservate esclusivamente ai pittori , la sola esponente femminile del gruppo impressionista. Modella in diversi ritratti per Monet con il quale stinse una lunga amicizia sposando poi il fratello del pittore, Berthe elabora una propria cromia fantasiosa e vitale che definisce il suo stile singolare rispetto agli altri impressionisti.

 

Manet, “Ritratto di Berthe”,  Berthe Morisot “donna con ventaglio”, 1875

 







Al centro della sala Berthe appare nel dipinto di Monet; la ritrae distesa, allungata su un divano focalizzando l’attenzione sul suo volto, quell’aurea magnetica che attrae lo spettatore verso il punto focale dello sguardo al centro della tela. Quegli occhi vitali neri investiti di profonda sensibilità. Coglie in lei l’artista e non solo la bellezza del volto da ritrarre: lo spirito sagace e intuitivo, l’intelligenza, forse la vitalità di un momento in un’impressione che la rende quasi istantanea fotografica della realtà.

La mussola del corpetto bianco stretto in un decolté sinuoso, il chiarore traslucido dell’abito insieme al ventaglio e ai guanti si stagliano contro gli occhi e i capelli neri raccolti, un mazzo di fiori oscuri sullo sfondo. La postura della donna rivela fascino e mistero convocando l’immagine di una dama di fine secolo colta nell’atto di mostrarsi con attitudine all’esterno. Gli occhi, al contrario, irrompono di una luce propria oltre lo stereotipo femminile emanando autentica vitalità.  




 


Nelle tele successive la pennellata dell’artista diviene sempre più ampia, fluida ed espressiva fino a rendere i personaggi parte integrante del paesaggio, fino a creare continuità cromatica tanto da spingere le figure alle soglie dell’astrazione espressiva. La figlia Julie appare di profilo su un albero, il suo cappello di paglia appeso a un ramo. La luce permea la tela, l’artista la immerge in una piena cromia luminosa tanto che i volti e le figure tendono a dissimularsi sfuocati dalla pennellata immensa che la riconduce quasi alla sperimentazione pittorica moderna. 

In “sottobosco in autunno”  siamo immersi nel fluido colorato e oleoso di questa pittura al femminile mentre le forme sono rese sfuocate, morbide e indefinite come linee sinuose immerse nella vivida cromia dell’insieme: i gialli accesi, i rossi brillanti, i blu chiari, gli azzurri a macchia o a getto oleoso evocano una vera e propria danza d’acqua e di luce sulla tela.

 


Degas, “Ritratto di Madame Ducros”(1858)

La vede in questo volto dalle tonalità creole e dai tratti finemente delineati.  In tale bellezza altera e quasi malinconica, in qualche modo irraggiungibile, in sé stessa austera  Nella frangia blu dell’ abito nero che le serra la vita. Nella macchia rossa dei fiori ai suoi piedi, sullo sfondo della stanza sfuocata alle spalle. Della donna resta questo: un volto madreperlaceo, un nastro rosso, una frangia blu sul nero semi cancellato del fondo.

 

Monet si trasferì a Giverny nel 1883 con la famiglia e passò qui metà della sua vita in quello che scelse come il suo luogo ideale per la pittura. Dipinse ugualmente paesaggi ad Argenteuil nei pressi di Parigi e visioni della Senna in diversi momenti del giorno e dell’anno,  nella luce brillante di primavera oppure attraverso un filtro rosato e attenuante  per effetto del crepuscolo. Altrove la Senna gli appare irreale e fiabesca come coperta da un alone traslucido e luminoso per liquidare  la realtà nel suo corrispettivo favoloso. Dopo la serie delle “Matinées sur la Seine” si consacra quasi esclusivamente ai fiori e in particolare alle “ninfee” del suo giardino in particolare nelle ultime grandi tele là mentre la forma dissolve sempre più a favore della vibrazione luminosa anticipando la svolta astratta  di Kandinsky.

 

Monet, “Passeggiata ad Argenteuil” (1873)



 

Attraversano un campo di papaveri rossi e scintillanti, illuminati dalla piena luce del giorno, il padre la madre e il figlioletto accanto. Camminano, sono portati dal divenire di quella folata invisibile e vigorosa che insieme spazza via e trascina i tre in un moto continuo verso l’avanti, l’orizzonte, forse il domani oltre il loro sguardo. Appaiono avanzare sospinti dal vento nella brezza lieve che muove i loro abiti e insieme li restituisce al paesaggio in unione quasi ideale con essa, lussureggiante e meravigliosa. I riflessi del blu, del rosso e del bianco sul campo fiorito, il cielo indaco attraversato da nuvole basse sopra di loro, gli alberi oscillanti al vento sullo sfondo. E’ forse un sogno di matrice romantica quello che racchiude il segreto di questo quadro che da sempre affascina gli spettatori, oppure una  sensazione d’infanzia  nella quale si ricorda vagamente di aver camminato per campi fioriti, il sole in faccia o il vento alle spalle. I contorni sfumati, indistinti ritornano  alla tavolozza chiara nell’armonia di un istate ritrovato.

 

Serie delle ninfee, (Water lilies, 1916-1919)





Scrive Monet a proposito di Giverny: “ Amo l’acqua ma anche i fiori; il mio giardino è un’opera lenta perseguita con amore.”  Il pittore continua a dipingere queste visioni d’acqua e di fiori tutta la vita, ogni volta ritorna sullo stesso soggetto inevitabilmente per approfondirlo, ricrearlo, immergerlo in una progressiva fusione con quella natura rigogliosa e selvaggia o nella percezione d’essa. Grandiose queste tele emanano le tonalità intime del luogo, vivono di quell’acqua e di quelle ninfee, ne amplificano i ritmi e il loro scorrimento lento e sensuale. Incarnano l’immersione dell’anima in quel laghetto indaco, violaceo e blu fino a divenire liquido, espanso irradiante di luce.

Queste tele nel loro amplificarsi e ripetersi divengono un atto d’amore verso il creato, il fluire lento e inarrestabile, il costante estinguersi  e rinascere della vita alla natura. Un lavoro al microcosmo intessuto con amore di cui i fiori restano il segno tangibile, movimento primo verso il sensibile che gli impressionisti convocano nella loro pittura.

“Il mio giardino è il mio più grandioso lavoro d’arte”, conclude Monet, un luogo della pittura che evoca atmosfere fino a quel momento non ancora catturate , di smeraldi che si riflettono nei blu argentei, e rosati, un luogo della creazione di Dio sulla terra.

 

Le rose (1925-26)

 

Nel 1926 Monet a ottantasei anni prende in mano per l’ultima volta il pennello e dipinge delle rose per rendere omaggio, dire addio in qualche modo a quei fiori che l’avevano da sempre ispirato a diventare pittore. Dipinge quei boccioli rosati su un fondale celeste come dono, ultimo lascito, incanto di un’istante e insieme gesto d’addio, come traccia indelebile di una bellezza per l’ultima volta ritrovata.  Sceglie l’azzurro lieve del cielo soffuso al bianco delle nuvole disseminato   di boccioli nuovi o dischiusi come omaggio al creato, sancendo il suo legame ultimo d’amore verso l’universo. 





venerdì 28 agosto 2020

Tresigallo, città metafisica ieri e oggi

 

Tresigallo metafisica









Doveva essere il modello di una città utopica di impronta fascista secondo il progetto dell’architetto e urbanista Rossoni; Tresigallo nata dalle acque bonificate delle valli a inizio secolo venne occupata e riprogettata dall’ideologia del regime. Doveva rappresentare una città corporativa, un polo industriale in prossimità del borgo agricolo in grado di trasformarne le materie prime nell’ottica autarchica fascista. Il progetto avrebbe compreso la piazza-anfiteatro, il campo sportivo, la scuola di ricamo per ragazze, l’asilo, la sala da ballo, il teatro corporativo, infine l’edifico dei Bagni in un’ottica imperiale di auto-affermazione; opere pubbliche di stampo razionalista che dovevano riflettere l’ordine, il dominio, la potenza del regime. Eppure il progetto non fu mai portato a termine a causa dell’irrompere della guerra e della fuga di Rossoni; oggi, il fascino di queste architetture a metà sospese fuori dal tempo e dalla storia resta ancora sorprendente a solo pochi chilometri dalla città estense che per prima ispirò De Chirico. Tra la terraferma e il mare, in mezzo alle paludi, la cittadina emana tutta l’immobilità delle distese verdi e salmastre delle acque stagnanti tutt’ intorno. Parte di quelle valli furono all’inizio del ventesimo secolo bonificate come questo villaggio, all’origine un agglomerato di poche case che dava riparo ai braccianti al lavoro nei campi. Lì, sospeso quasi come un lembo di terra tra le valli e il mare.





Nonostante l’intento iniziale e per quel lavorio inarrestabile del tempo e delle acque che la circondano, Tresigallo assume oggi le sembianze di uno scenario cinematografico arreso a un passato incompiuto mentre sempre più evoca le ambientazioni  metafisiche di tanti quadri di De Chirico. Le citazioni alla sua pittura appaiono svariate qui anche se non sappiamo con certezza quanto provengano dal contatto diretto tra l’artista e questo luogo. Camminando attraverso le strade deserte e le piazze vuote del piccolo borgo nelle ore più calde del mezzogiorno si ha la sensazione di lasciarsi alle spalle la realtà per entrare in uno dei suoi quadri. Allo stesso modo ci si trova esiliati dal presente, immersi in un vuoto denso di malinconia, ricoperti dalla patina di calce bianca delle case basse e delle insegne che di tanto in tanto si stagliano immutate dal passato. Così, il colonnato dagli archi classici si protrae a perdita d’occhio sulla piazza principale e l’edificio dei bagni ,oggi rinominato “Sogni”, si staglia in lettere bianche sulle pareti indaco contro un cielo turchese. Come per uno strano gioco del destino gli edifici del regime sono stati gradualmente riassorbiti dalla dimensione metafisica in cui la città bagna. Così i turisti solitari si trovano a riposare accoccolati sugli scalini in pietra cercando l’ombra nel mezzogiorno mentre fissano a distanza quell’ “edificio dei sogni” e vedono proiettarsi lì, come in un cinema a cielo aperto, i fotogrammi celati del loro inconscio. Un pilastro arancio si erge più avanti al centro della prospettiva tra due linee di caseggiati bianchi in un ‘astrazione perfetta di forme. L’acqua verde riflette nella fontana circolare al centro della piazza i loro volti ignari contro il porticato circostante simile a un anfiteatro vuoto mentre esili tori guardinghi sorvegliano la fontana a distanza perché nessun visitatore venga a disturbare la silenziosa armonia del luogo. 




Piazza d’ Italia”, dipinta da De Chirico



Immensa e solitaria la piazza d’una anonima città d’Italia nel mezzogiorno appare negli ocra degradanti in gialli accesi e nei verdi smeraldi dell’orizzonte.  Le ombre si prolungano immense oltre le figure reali, attraversano lo sfondo soleggiato della piazza, fissano in lontananza il profilo della città. Una scultura classica, statuaria in bianco domina al centro del dipinto; arcate di edifici antichi si profilano ai lati mentre le ombre si prolungano nel controluce netto, incisivo, generato dalla piena luce del giorno. Due piccole figure restano a lato, anonime mentre le proiezioni delle medesime dominano al centro della scena. Abitano quell'ambientazione onirica, fuori dal tempo e dalla storia, frammista a citazioni del passato e immersa in una immobile visione d’assenza.

 



giovedì 13 agosto 2020

Banksy....a proposito di muri e di pace ( mostra a Palazzo dei Diamanti, Ferrara)

 


“I muri sono sempre stati i luoghi migliori dove pubblicare i lavori.  Contrariamente a quanto si va dicendo non è vero che i graffiti siano la più infima forma d’arte. ..il verità è una delle forme più oneste che ci siano. Non c’è elitarismo ne ostentazione, si espone sui migliori muri che la città abbia da offrire e nessuno è dissuaso dal costo del biglietto.”





Più di cento opere e oggetti originali ci conducono attraverso la mostra ferrarese  a Palazzo dei Diamanti del noto quanto discusso street artist britannico Banksy  la cui identità resta tuttora avvolta nel mistero. Dipinti a mano, stencil e serigrafie simili ad affreschi popolari investono i muri del museo con questioni fondamentali della nostra società al centro della sua poetica, in primo luogo la critica stringente alle derive del capitalismo occidentale, la guerra, le manipolazioni mediatiche, infine, il controllo sociale contro la libertà individuale. L’insieme della sua opera diviene asserzione originale di una voce  discordante, ironica e dalla risonanza profondamente etica.  La sua è un’arte nata nelle strade di Bristol e di Londra fatta di incursioni solitarie nella notte, pareti rubate agli spazi colonizzati della città, luoghi pubblici investiti di graffiti, spray o acrilico al crocevia tra  pop art, cultura hip-hop e quella digitale d’oggi. L’artista sceglie di restare senza volto o meglio la sua identità emerge unicamente attraverso il comparire repentino e ironico di un alfabeto visivo inconfondibile in immagini o tag sui muri e gli edifici in giro per le città del mondo.  Come per non smettere di ricordarci il ruolo di un’arte autentica che elude la legge del mercato e si vuole libera, portatrice di una propria critica sociale, investita di un senso politico e globale insieme. Non elitaria ma che si espone, con gratuità allo sguardo di tutti.

“Se vuoi dire qualcosa e avere persone che ti ascoltano allora devi indossare una maschera. Se vuoi essere onesto devi vivere in una bugia.”

Banksy, auto-ritratto (2001)

Gli occhi irrompono attraverso la maschera di presunti occhiali rotti o sfregiati e arrivano dritti al cuore dello spettatore. Un rigagnolo di vernice verde oscura cola sulla tela. Lo sguardo attraversa la macchia colante al di sotto in un muro di silenzio. Percuotente, attraversa la barriera di anonimato gridando una propria verità dal volto-maschera appena simulato.

“Tutte le immagini nella loro equità mediano le relazioni tra noi come persone. L’intera vita della società è un immenso repertorio di immagini”.




Nella placard rats series Banksy si nasconde dietro le sembianze di un roditore che in una delle immagini della serie solleva un cartello rosso con la scritta “ esci finché puoi”. L’artista simile all’animale sotterraneo appare come una specie di strana creatura che si cela nel sottosuolo impugnando un grammofono per amplificare la propria  voce. Marginale, afferma la propria condizione di separatezza dalla superficie del mondo ma  dall’inferno che percepisce inizia a dar voce a una critica profonda di quella società , grammofono o cartello rosso su stencil nero alla mano. Lab rat tra i primissimi lavori del 2000 in vernice spray e acrilico_ all’origine pannello laterale di un palco allestito per un festival musicale_ appare come l’ingrandimento di una lente trasparente di vetro: esplosione di punti radianti, giallo vivo a metà tra la tecnica puntillista e il pixel dell’immagine elettronica. Tra le linee traspare il profilo iconico del piccolo roditore nero coperto o dissimulato dalla superficie luminescente e puntillista. Al centro dell’obbiettivo è l’occhio messo a fuoco, evidenziato in rosso come un bersaglio celato sotto il manto dorato: preso di mira, braccato come  il target da un esterno ipotetico mirino e, insieme, l’occhio vigile, attento dell'artista pronto a cogliere il fulcro del proprio 
soggetto. 



In un’altra immagine della serie lo stesso piccolo roditore è visto dipingere un grande cuore rosso su un muro invisibile, un pennello tra le mani, la vernice ancora gocciolante ai suoi piedi. Altrove, indossa un’uniforme da lavoro nera e una catena d’oro al collo di fronte a uno stereo portatile in cui si trasmette musica hip-hop dalla cultura underground newyorkese.  L’acronimo delle lettere POW , “Pictures on the wall”, “quadri sul muro”, è dipinto ugualmente in  vernice alle sue spalle.  Un grande cuore colante di rosso, un piccolo ratto nero ingigantito dallo sguardo dell’artista, ogni atto o simbolo, non importa quanto piccolo o insignificante appare degno di nota e può divenire centro dell’immagine simile a una lettera d’amore indirizzata segretamente alla propria arte. Come Banksy scrive: “ Loro ( i topi) esistono senza permesso, sono odiati, braccati, perseguitati, vivono in una tranquilla disperazione eppure sono capaci di mettere in ginocchio intere civiltà”. Lo “steet artist” allo stesso modo è l’outsider, il marginale che si sposta nei sotterranei della città, utilizza gli spazi collettivi, i muri come fossero le sue tele; incarna la rivolta contro una logica di potere che produce ingiustizia e discriminazione, infine, con il suo stile provocatorio  apre crepe sulla superficie del nuovo capitalismo globale.  Definisce la sua arte originale e non- vendibile, come i tag e graffiti apparsi misteriosamente nella città di notte in un alfabeto inconfondibile di segni a lui singolari.



Nola” è il nomignolo affezionato che gli abitanti di New Orleans utilizzano riferendosi alla propria città. La serigrafia si ispira all'inondazione che avvenne in seguito al collasso dei litorali che avrebbero dovuto proteggerla dall’uragano Katrina. La bambina appare sotto un ombrello dal quale pioggia oscura cade disegnando linee nere e oleose verso il suolo. L’acqua sembra provenire da dentro l’ombrello stesso; il mondo precipita ai suoi piedi insieme alla pioggia oscura, acida e inquinante che deposita un’impronta sinistra tutt'intorno insieme al nero dell’abito e dell’ombrello. Ancora in “Virgin Mary”( 2003) ribattezzata “Toxic Mary” Banksy utilizza il procedimento della dislocazione d’immagine: dipinti noti, cristallizzati nella memoria d’arte collettiva vengono manipolati e ricollocati attribuendo loro nuovo significato. Così questa Vergine tratta dall’iconografia sacra è vista nutrire con un biberon riempito di veleno il piccolo nascituro; possibile critica al ruolo della religione e dell’educazione oggi là dove la bellezza della Vergine, l’atto con il quale teneramente stringe il figlioletto al seno si accompagna al simbolo di pericolo di morte impresso sulla bottiglietta. Il nutrimento come educazione appare nel suo versante distruttivo in una critica stringente ai modelli occidentale distorti assimilati dai figli, bambini e adolescenti.

 

Wall and piece

“ Mi piace pensare che ho il coraggio di far sentire la mia voce, anche se anonima nella democrazia occidentale e domandare cose in cui nessun altro oggi crede come la pace, la giustizia e la democrazia”.

Il tema dell’anti-militarismo dominante in Banksy appare nella raccolta “Wall and Piece”, libro editato dall’artista stesso che raccoglie stencils, quadri modificati, installazioni, irruzioni dentro e fuori le gallerie d’arte tra il 2002 e il 2005. Tra i più significativi lavori su carta è “Love is in the air”, apparso per la prima volta nel 2003 a Gerusalemme sul muro che separa lo stato palestinese da quello israeliano nella zona più infuocata dagli scontri tra i territori occupati e Israele. Muro a cielo aperto, si estende per oltre  settecento kilometri_ illegale secondo il diritto internazionale_ controllato da una serie di posti di blocco che, nelle parole di Banksy “ha reso la Palestina il più grande carcere a cielo aperto del mondo”. Un giovane militante palestinese è rappresentato nel gesto  violento, esplosivo e pieno di rabbia di lanciare un’arma contro il nemico ma, qui, non si tratta di una bomba come ci si aspetterebbe bensì  di un mazzo di fiori, simbolo di pace e bellezza, conciliazione nel luogo primo del conflitto tra i due stati. Altri varchi di colore sono aperti dall’artista su questo muro di segregazione, squarci di un cielo azzurro che un bambino con un secchiello giallo è intento a dipingere contro l’aridità desertica intorno. Altrove, una scala bianca sale verso il cielo disegnata sul grigiore atono e incolore delle pietre, ora si apre uno scorcio tropicale, un gioioso cavallo in scuderia, una macchia di blu in mezzo al vuoto dominante.






In “Nepalm”, una serigrafia ispirata dalla guerra in Vietnam Banksy colloca sullo stesso piano il grido disperato di una bambina in fuga dalla città presa a ferro e fuoco dall'esercito americano, il sorriso ingenuo di Mickey Mouse e quello sardonico di Ronald Mcdonald. Straziante il ghigno di morte sul volto della bambina appare in contrasto con il sorriso agghiacciante stampato sul volto di Ronald Mcdonald che le tiene la mano. Banksy utilizza in maniera provocatoria la dislocazione del punto di vista sull’America, vale a dire unmontaggio dialettico tra il vedere sé stessi e l'essere visti con l’occhio dello straniero; mette a nudo il “politicamente corretto” del sistema americano  partendo dai codici identitari di quella stessa cultura di massa. 




There is always hope” Un cuore rosso vola verso il cielo nel celeberrimo graffiti di Banksy; la bambina tende la mano verso l’alto, verso quel simbolo di speranza e d’amore inseguendo il sogno che vede allontanarsi sopra la sua testa. Lo rincorre come una linea appena tracciata visibile all’orizzonte e verso cui si allunga il proprio profilo. Una piccola figura in nero sulla terra, avvolta d’oscurità, dissimulata d’ombre è tesa in un anelito verso l’alto dove un sogno volerebbe via come quel palloncino se lei non fosse lì pronta ad afferrarlo . Contro il  muro oscuro di potere sulla terra, fluttuante come una scia luminosa verso il cielo.

Laugh now but one day we’ll be in charge”, “Ridi ora ma un giorno saremo noi a comandare” titola uno degli stencil conclusivi alla mostra mentre una scimmia nera che solleva sul petto il cartello contenente  il messaggio.  Ancora una volta la sua arte sembra restituire la parola ai margini della terra o a quelli che si trovano all’opposto del sistema capitalista dominante , agli antipodi dei monopoli di potere, contro-corrente o ponendosi in  opposizione ad esso. Ancora una volta assistiamo a uno spostamento di prospettiva dal centro alla periferia, dall’unico alla pluralità, da un’arte colta e elitaria a una della strada democraticamente condivisa da tutti e come tale immersa nella cultura hip-hop, nell’ underground e nel sincretismo dell'epoca globale.