sabato 26 agosto 2017

“Anime. Di luogo in Luogo” da Christian Boltanski ( al Mambo di Bologna)







E’ un percorso sensoriale, un’esperienza fisica che implica l’attraversamento, l’immersione del corpo percettivo e partecipe dello spettatore nello spazio di “Anime, di luogo in luogo ” per ricevere, o meglio sentire, essere parte dell'evento prima che comprenderlo o analizzarlo intellettualmente. una serie di installazioni  realizzate dall’artista francese Christian Boltanski  in occasione dell’omaggio resogli dalla città di Bologna  ripropongono le sue opere più significative e due inediti raccolti nella mostra antologica al Mambo, museo d'arte moderna. 

 
Entri nell’oscurità di specchi deformanti che rifrangono gli uni sugli altri dal fondo delle pareti nere di una stanza; in sottofondo un battito amplificato pulsa intermittenze ritmiche da una moltitudine di cuori archiviati e raccolti dai suoi precedenti lavori alla luce di una lampadina.
Entri dentro questa atmosfera rarefatta, velata e illusoria, lieve ed effimera ai sensi. Attraversi un portale come fosse una soglia del “tempo” che ti conduce fuori dall’esperienza della realtà all’altra parte dell’esistenza sensibile. Sul tessuto leggero e evanescente di una tenda vedi affiorare grandi occhi scuri, ritratti ricompongono e fanno scorrere da un fotogramma all’altro immagini in movimento di un volto, quello dell’artista dall’infanzia all’età adulta nelle sue molteplici, fluttuanti sfaccettature. Entri e continui ad attraversare pareti di seta che si susseguono ad altre trasparenti e velate; ricompongono sguardi, occhi di volti persi nell’oscurità proveniente da vite precedenti, anime che si affacciano e ci guardano dialogando attraverso le tende. Compaiono, si illuminano per un istante, troppo breve, poi ripiombano nell’oscurità. Sono salvate come anime, riportate per un attimo all’esistenza sensibile, non a quella terrena dei corpi ma, incorporee, in questi tessuti materializzano come immagini fotografiche di volti solo a metà focalizzati.  Luce e oscurità: è così che i volti si rivelano nelle tenebre attraverso occhi grandi aperti, magnificenti e resi visibili sui tessuti. Traspaiono là per un attimo sulle tende, gli occhi primo specchio dell’anima, per questo tanti gli specchi convocati all’inizio del percorso. Battiti cardiaci, regolari e ad intermittenza sul sottofondo.  Attraversi sensorialmente, di luogo in luogo le varie isole o punti di sospensione di un percorso libero, vago quanto sotteso a due indicazioni essenziali; “Départ” e “Arrivée”.

La Luce o la sua assenza, le intermittenze sonore, le apparizioni di immagini e l’altrettanto rapido ritorno alla semi-oscurità sono parte integrante della mostra insieme ai temi ricorrenti, alle eterne questioni o ossessioni che da sempre accompagnano Boltanski: la coesistenza di vita e morte nell’esistenza sensibile come nell’esperienza percettiva che egli mette in scena; la necessità della memoria contro la corsa ineluttabile del tempo e la distruzione del medesimo, infine il bisogno di testimonianza ricreando tracce, reali e fittizie per raccontare, restituire una versione possibile della storia, infine rielaborare una memoria intima e collettiva in parte rimossa .  

“Ombre” nella prima stazione sono quelle oscure che si affacciano dal sotto-mondo, piccole e basse frequenze materializzano in scheletrini appesi alla figura evocata nella proiezione in nero espansa sulla parete. Una maschera digrignante e  fantasmi appaiono sospesi da fili al profilo delineato al centro come piccole marionette dal regno delle ombre. Attraversi le tende, incroci le auree evanescenti dei ritratti che ricompaiono vagando di luogo in luogo tra le installazioni retrospettive di Boltanski fino al centro della galleria dove ti imbatti in una sorta di montagna incantata; una struttura piramidale si eleva verso l’alto ricoperta e metallizzata in oro attraverso quelle coperte isotermiche utilizzate oggi per prestare un primo soccorso ai profughi migranti in Europa. Delle tante morti anonime in mare tra i molti dispersi in tragiche condizioni sono i fantasmi senza nome, le prime anime alla deriva volutamente evocate da Boltanski qui per rendere loro un ultimo omaggio. Un’aspirazione all’assoluto sembra imporsi con la luce dell’oro nell’eterno ritorno dell’anima alla divina perfezione senza dubbio nella sua proiezione luminosa, espansa ed elevata verso l’alto in ascesi come questa montagna incanta. Al centro della galleria essa sola è illuminata dal raggio chiarificatore di una grande lampada accesa.

 

“Autel Detective” “primo altare” di fotografie e memoria assembla immagini in bianco e nero su un fondale oscuro e lampadine blu alogene a illuminarle in primissimo piano . Un’isola del passato riaffiora in un approdo istantaneo della memoria, in un salvataggio “in extremis” attraverso i volti ridenti di giovani da un tempo prima del conflitto mondiale. “Autel du Lycé Chases”, allo stesso modo è un arcipelago di volti adolescenti di giovani ebrei a Vienna prima dell’avvento del nazismo. Sorridenti in primissimo piano, in bianco e nero sfuocato,  i grandi ritratti si rivelano attraverso i loro tratti espansi e fluidi alla sola luce di lampadine puntate contro nell’oscurità circostante. Tale, un modo per dare dignità, mettere in luce e in rilievo quella verità unica e inconfutabile iscritta, incisa in ogni vita come singola traccia, lascito di una storia individuale e insieme riscatto di una memoria storica e collettiva ancora in parte da rielaborare. In “Monuments” i volti sono sempre più grandi in bianco e nero fluido ora totalmente presenti come auree di corpi svaporati, aloni luminosi e vaghi, involucri spirituali di anime rivelate in traccia fotografica nel profondo chiaro-scuro dalle lampadine, unica fonte di luce circostante.

 
Scatole di latta  simili a cassetti per la classificazione di dati sono impilati ad archivi ai piedi delle fotografie come altrove erano i ritratti svuotati delle figure, in primo piano sui sostegni commemorativi in ferro.  Questi cassetti, oggetti fittizi investiti di un forte potere evocativo  sembrano stranamente provenire dalle classificazioni illimitate di documenti celati nei passati regimi nazional-socialisti sovietici dove tutto era registrato, catalogato, archiviato, passato al setaccio e in gran parte censurato dal grande occhio di uno stato totalitario, da un partito unico centralizzato nei suoi massimi funzionari. In Boltanski tali oggetti simbolici, segni tangibili di una memoria traumatica filtrata dalla generazione post-olocausto appaiono riportati in vita ma traslati rispetto al loro uso originario divenendo archivi ricreati della memoria. Riesumati anche se vuoti come contenenti-contenitori fittizi, appaiono come “monuments” essi stessi di  un apparente bisogno di restituire o riscattare un passato anche attraverso la sua finzione per sfuggire all’inevitabile oblio insito nella cancellazione del tempo; verità universale e insieme messa in scena palese alla quale lo spettatore potrà aggiungere una propria percezione dell’avvenimento. Appaiono qui come mattoncini di latta, cassetti estratti da vecchie scaffalature arrugginite, urne cinerarie, infine i supporti per la fotografie. In fondo al percorso illuminati da una luce blu elettrica a neon, impersonale gettandosi  in linee taglienti sugli spigoli appuntiti si ergono a “muraglia cinese” fatta di scatole di latta dalle sfumature in ferro e ruggine con piccole foto di identità incollate sopra e lampadine puntate contro a rendere loro giustizia.  


Animitas”, (“Blanc”, video)
Epilogo in uno stato di inusuale e apparente quiete



 




Primavera sulla terra, il suolo vivente, l’humus, l’erba piantata a vivo sul lastricato della galleria. Il fieno tra i fili d’erba, l’odore della terra presente nello spazio, piccole zolle, foglie e fiori come di un campo verde in parte germogliato, in parte lasciato essiccare al sole, simile a fieno.
Sullo schermo, l’immagine in immobile movimento, bianco come neve ma nella fluttuazione di correnti aeree di primavera. Non sappiamo se il tintinnio insistente di campanelli al vento muovendosi su un unico piano sequenza, filmato dall’alba al tramonto nel deserto di Altacama in Cile sia solo un campo ricoperto di neve con cavi metallici risuonanti del loro interno- quasi in impercettibile eco - se si tratti un cielo stellato pervaso di punti ascendenti e luminosi visto a distanza dalla terra oppure di fili mossi dal vento germogliando, risalendo verso la superficie nel moto continuo della vita contro la pallida immobilità del paesaggio circostante. Resta la sensazione o meglio la suggestione poetica di qualcosa di effimero, lieve e appena percettibile ai nostri occhi , quasi inesistente eppure fuori dall’atmosfera dominante di morte-in-vita, di oblio e ritorno a una eterna assenza tangibile nel resto dell’installazione; ed è forse solo per quel contatto diretto, a piedi nudi quasi su un campo verde, di fieno e fili d’erba germogliati nell'abbraccio rigenerante della natura.