sabato 23 novembre 2013

A proposito di contemporaneo, mosaico e leggerezza ( GAEM 2013, Giovani artisti e mosaico, al Mar di Ravenna)













La leggerezza nel senso calviniano del termine è sottrazione di peso come gravità esistenziale, si vuole come una risposta al vivere quotidiano nella ricerca d’una leggerezza pensante, consapevolmente ricercata, inseguita, indossata come un abito lieve quanto aderente alla forma del proprio interno sentire contro le rigide categorizzazioni delle leggi, ideologie o norma operante, dalle costrizioni pubbliche e private, dei singoli abusi di potere.

Si vuole come un modo di guardare il mondo con ironia, con levità o distacco, con l’agilità necessaria per sollevarsi dalle impalcature di pietra che possono schiacciare l’individuo nel suo rapporto alla società, alle istituzioni, agli spazi colonizzati del nostro vivere quotidiano. E' un togliere presenza, pesantezza reale alle figure, ai corpi, alle città in questo andando contro l’incenerimento, la morte apparente, la lenta pietrificazione degli esseri e delle cose sotto l’effetto della loro stessa inerzia o immobilità.


Molti dei lavori dei giovani artisti visti al Gaem di Ravenna sembrano in quest’ottica sottrarre il mosaico della sua stessa materia, renderlo assenza a sé stesso, presenza differita dal suo proprio luogo d’origine, costante rinvio dal piano reale a quello virtuale, dall’ oggetto al suo simulacro, dalla semplicità piena della materia al reticolo incorporeo d’immateriale. Producono operazioni di dematerializzazione sotto gli occhi dello spettatore come un togliere via pietra o supporto reale, eliminare o sostituire la tessera a una sua versione virtualizzata; o ancora, ricreano per via illusoria la medesima sotto forma di immagine ottica, di riflesso allo specchio, di proiezione del mosaico attraverso una video-performance oppure in una installazione che passando per lo svuotamento reale dello spazio ne fa una pura proiezione luminosa nell’ oscurità.











Andrea Poma: il suo mosaico sospeso, trasparente e leggero galleggia in aria nello spazio aperto. Evoca ciò che vi è di più lieve, inconsistente o impalpabile come l’aria, la sensazione del volo, il sottrarsi alle leggi di gravità, il vento che muove invisibilmente tra le foglie. Una tendina di vetro trasparente diviene simulacro d’una forma mosaicata dissolta di cui resta l’immagine catturata in uno specchio, un’impressione su vetro rinchiusa nel medesimo e lì arrestata partendo dalla griglia geometrica posizionata sul fondo.

Simile a una tastiera virtuale, a ciò che dal supporto concreto, cartaceo, materico, rinvia al digitale, all’elettronico, alla traslazione di presenza, alla comunicazione per bits, impulsi o segnali elettronici. E, nel gioco tra fondo e riflesso, è la griglia rigorosa a darsi come reticolo di pure linee, geometrica dissoluzione o svuotamento di quello che era l’oggetto originario in malta e mosaico svaporato gradualmente in duplicazione eterea, in impronta che ha perduto il proprio originale. Tale uno schermo ad effetto coprente eppure trasparente, senza polvere, senza peso.









In “Co-musivo” la performance video segue i due giovani artisti (Andrea Sala e Giulia Alecci) al centro d’un rituale lento e progressivo nell’atto di compiere questo gesto di “imprinting”, o stampa a caldo sulla pelle vista come reticolo o superficie inizialmente neutrale, incontaminata e, a poco a poco iscritta, rivestita di tanti piccoli bianchi tasselli fino a formare uno schermo lieve o nuova epidermide, una seconda pelle. Un abito incorporeo è disegnato su quella partendo da particelle elementari, da cellule-tassello viste liberamente sul corpo ora in nero trasparente ora in bianco lieve.

Etereo e impalpabile come una seconda pelle tale rivestimento illumina e invade le figure procedendo attraverso un corteggiamento tattile, in un dialogo a due dell’uno all’altro sulla pelle: dal torso alle spalle, dalle mani ai piedi, dal collo al viso.
E' il calmo imporsi d’un moto lento e continuo, l’avanzare come d’una chiarificazione visiva per il corpo, tale,
la squamatura brillante e argentea d’un pesce su una forma umana che a poco a poco assumerà gli attributi, la grazia e la tonalità d’una creatura d’acqua.






In “We are the 99 di Benedetta Galli la parete è ricoperta di novantanove punti colorati, simili a pixel, l’infinità di minuscoli punti invisibili a occhio nudo che compongono l’immagine digitale qui convocata visivamente sulla parete da piccoli nuclei colorati incollati serialmente l’uno accanto all’altro.

Dalla sequenza delle minuscole cellule colorate pensate come tessere d’un mosaico digitale nascono zone ad onde luminose dalla predominanza di colori freddi, ora caldi, fasce luminescenti dominate del blu, ora del rosso nettamente distinguibili come cromie fluide che si configurano e poi si disperdono allo sguardo dello spettatore a distanza.

Una sorta di immagine-video, fluida e virtuale, leggera e dematerializzata viene qui ricreata artificialmente dal semplice gioco ottico un po’ come accadeva nei quadri puntillisti di inizio novecento su un supporto di tela che svuotata e alleggerita, insieme evoca e toglie presenza al simulacro d’una forma tradizionale di mosaico.













“Breath” di Laura Carraron è respiro, pausa, tempo di mezzo, “del mezzo della cosa” di quello che non previsto, incongruo, non logicamente voluto si insinua “tra” due tessere, due spazi pieni con altro apporto, nuova emergenza. E’ l’intrusione che scaturisce nell’ “entre” dalla rottura della superficie piana, piatta della lastra compatta, di marmo ricoperta di pietruzze o lamelle auree.

La rottura della superficie avviene per intrusione o innesto estraneo che tuttavia si vuole qui come un respiro, l’ emergere d’altro dentro la pietra: una nota ritmica discordante, un’aritmia voluta , una dissimmetria convocata in un tempo musicale altro, un tempo di leggerezza. Il respiro si arrende alla sottrazione di gravità, all’intrusione di leggere forme nel passaggio dalla pietra alle cannucce in plastica pieghevoli.

Spuntano come funghi o erbe selvatiche in un campo raso, in alto alla fine della tavola mosaicata, spuntano come spighe, fusti di bambù, germogli nati a loro stessi.
Sorgono, saltano all’esterno, saltano agli occhi, , rifioriscono ma artificialmente su questo terreno artefatto, artificiale. Invadono, sorgono a fiotti come ammasso di spighe d'un raccolto, come cannucce disperse, qui e là, per caso auto-riproducendosi da un semplice intervallo ritmico.




Mozaizm , Gallaxim 
 



La luce tradizionalmente nei mosaici bizantini è spiritualità, aspirazione al divino, salvezza che viene dall’alto e insieme sguardo rivolto a dio come al ricongiungimento all’assoluto. Giunge a sublimare il soggetto rappresentato avvolgendolo nella sua aurea di luce-colore di cui l’oro rivela appunto il contatto con la divinità. L’installazione di Mozaim ritrova l’archi-traccia, la forma della struttura primaria a croce greca ripresa dal piccolo mausoleo di Galla Placidia ma la riproietta attraverso sfere specchianti in vetro appese al soffitto, come schegge di luce in uno spazio immerso nella totale oscurità. 
Nell’effetto ottico il mosaico dematerializza sotto gli occhi dello spettatore, per essere sostituito dalla pura proiezione luminosa sul fondo d’oscurità del firmamento,
 la stessa che dominava il fondale dell’originale con le sue volte stellate, motivi e geometrie decorative. 

L’universo appare convocato nella sua leggerezza e opacità di materia gassosa ancora una volta fatta di pulviscoli invisibili, polverizzazione di corpi solidi in una molteplicità di corpuscoli luminosi, di particelle fatte d’aria o di gas in continuo movimento nel passaggio ininterrotto dall’uno all’altro stato. Simili a pulviscoli di luce, particelle di materia incendiaria si illuminano in un cosmo immerso nell’oscurità i cui spostamenti quasi impercettibili daranno luogo, nel tempo, a maggiori, irreversibili cambiamenti ; così, galassie si auto-combustiranno o si costituiranno in nuova forma dalla loro stessa materia.

Improvvisa oscurità: pulviscoli incandescenti, indeterminati si illumineranno a tratti come il vorticare di particelle che andranno ad aggregarsi, il tempo di un istante, in nuove costellazioni; altre si disperderanno, romperanno i loro vincoli aggreganti in minuscoli frammenti precipitati nell’oscurità galattica del cosmo. 
Tali i moti continui d’astri e meteore tra creazione e distruzione: spostamenti infinitesimali, invisibili a occhio nudo porteranno nel tempo grandi trasformazioni di pianeti e galassie del sistema solare.




“Vene” di Takako Hirai
è questa massa d’energia che s’apre, si rivela dal fondo del marmo, è questa forma primordiale, rivelazione da “dentro la materia”, che s’apre dall’impasto di malta della base . E’ questa affermazione malgrado sé stessa, apertura all’indeterminato, vena o arteria di circolazione aperta in corpo, dal corpo,
organo vivente, macchia, granulosità apparente di sabbia e pietra agglomerate insieme come in una conchiglia dischiusa.
E’ questa rivelazione per l’artista da "dentro la materia" e contro il marmo della base,
dal colore o dall’interno delle rocce, dai muschi o dall’interno della creta, dalla sedimentazione interna dei suoi strati, dalle sue crepe, dalle sue primarie fessure visibili in trame che la esplodono e la portano alla luce in superficie.

E appare come per caso in questo suo auto-generarsi, prendere forma perfetta dall’informe substrato vivente che la abita.









Segnali dal Limite”, Andrej Koruza


Tutto cio’ che accade, segnali dal limite, qui il limite della superficie immobile, statica a due dimensioni della lastra marmorea, solida, mosaicata ora messa alla prova, spinta contro la sua stessa immobilità dal meccanismo tecnologico dell’installazione atta a renderla “mosaico in movimento”.

L’impressione che ne traiamo è una sorta di tela o fascia luminosa attraversata da sotterranei scorrimenti, puntellata di soggiacenti forze  di moti invisibili culminanti in punti di rilievo oltre il limite piano della tela. Forze dinamiche messe in tensione dal mosaico in movimento.


L’immobile, il movente, il mosso, tutto cio’ che accade appare come “ipoteticamente necessario” nella visione di Koruza, principio fondante che sottomette il mondo alla legge di trasformazione, alla metamorfosi infinita, pur nella distruzione, della continuità del vivente. Tutto ciò che accade, nell’installazione il rapporto tra la tela, il fondo e la meccanica che la muove, i meccanismi moventi e le forze d’azione e reazione che stanno dietro quelli. 
E' il rapporto ancora tra la superficie, le sue parti, le parti visibili dal retro della tela in legno e ferro componenti il sistema che lo rende dinamico e vivente, e gli iati di vuoto, di nulla, di non-presenza che inevitabilmente si intercalano, apparentemente si frappongono, visibilmente interrompono, si insinuano eppure permettono a quello d’essere.  Essi sottilmente agiscono nel libero alternarsi tra le parti dei pieni e dei vuoti, delle azioni e delle sospensioni in movimento spezzato o apparente immobilità.


Tutto cio’ che accade: gli spazi, i vuoti, le contraddizioni, gli attriti, le dinamiche di moto e inerzia, di instabilità e cambiamento, di salute e malattia divengono parte di questa legge cosmica, principio fondante d’una necessità essenziale. Il ripercuotersi d’eventi inutili, all’apparenza assurdi e dannosi, immobilizzanti, regressivi o distruttivi divengono parte d’una legge di trasformazione universale, d’una dinamica di necessità e divenire. Sono l’ infinito riaggiustamento tra la materia e l’anima, la forma e il fondo dell’essere, le forze agenti e reagenti nell’io, 
dal fondo domandando ascolto, coscienza, presa in carico della loro remota causalità.


Segnali dal limite: limite del mio mondo, della mia pelle, del mio minuscolo finito,
d’una superficie rettangolare e piatta, di chiodi e leve, di ferro e legno inerti se visti staticamente, di profilo;
d’un mondo rinchiuso in una cornice di metallo bianco e grigio e di parti dietro quella d'un meccanismo a propulsione, arrestato sul bordo di pietra.


Limite di non-attraversamento, quello della mente cosciente che percepisce, d’ uno sguardo che si impone e si soggettivizza, del mio sguardo assente sull’altro , ricercato voluto, rigettato o allontanato.

Camminare sul limite: limite è flusso, “entre”, scivolamento, qualcosa che scorre come libero gioco di parti in un sistema dove anche il vuoto è pieno, parte d’un altro movimento,
d'una dinamica da scoprire perché in essa sola è il potere di liberare dalla statica immobilità del non-vivente.