mercoledì 30 novembre 2016

"Genesi" secondo Salgado: fotografia e scrittura per immagini ( ai Musei S. Domenico, Forlì)












"Genesi" per Salgado  è viaggio alla ricerca del mondo delle  origini, la natura tale che ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che l’organizzazione delle società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa, inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le immagini di “Genesi” esposte attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011 nel corso di 25 viaggi e  riproposte presso le più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e tropicali dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide della terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze estreme o attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto contatto e in perfetta sintonia con le  leggi prime della natura. Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il mondo per questo progetto ho imparato a lavorare con altre specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per scoprire, mettere in luce, esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali, gli animali, il pianeta è intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto immenso”.  

In questo senso la fotografia per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo , verso una natura in cui gli umani devono sentirsi parte integrante ”,e, dunque, nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il pianeta non  divenga oggetto di distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione profonda al mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto incondizionato, di  uso e abuso senza limiti della straordinaria ricchezza di risorse che esso ci offre.

Salgado decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi, a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una mongolfiera per fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le sue isole.
In primo luogo si tratta di “incontrare il pianeta, “addentrandosi nelle zone più remote della terra o verso le sue estremità meno raggiungibili; contemplare il mondo dalle cime più alte agli abissi più profondi- minerali, vegetali e degli esseri animati-, vedere come gli uomini erano all’inizio della storia e come in essi si manifesti ancora, secondo Salgado, la parte più istintiva e viscerale dell’umano, quella che ci ricollega direttamente alla vita, alla sopravvivenza e alle leggi di natura negate portando all’eccesso l’individualità puramente razionale e logocentrica dell’individuo.
“Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso tra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano gli uni dagli altri, dal mondo naturale. Di colpo non siamo più in grado di vedere di sentire..di osservare. “Genesi” mi ha fatto prendere coscienza che a forza di allontanarci dalla natura per via dell’urbanizzazione siamo diventati animali molto complicati e che, diventando estranei al pianeta, diventiamo estranei a noi stessi”.  Il progetto “Genesi” si inscrive come un messaggio chiaro inviato all’umanità, una sorta di imperativo, grido o certezza inequivocabile  che tornare all’essenziale, al cosmo e al rispetto e delle sue leggi, della sua implicita e perfetta armonia sia il solo modo di garantire all’uomo la libertà, allo stesso tempo il rispetto dell’essere umano sulla terra contro il processo inverso di disintegrazione in atto prodotto da forze che implicitamente avversano i cicli naturali dell’esistenza.

Ancora le parole di Salgado mirano a dare un senso ultimo e unitario,  una visione poetica umanitaria e politica insieme a un progetto estesosi negli anni e sconfinato  attraverso i quattro continenti ai poli più estremi del pianeta: “Genesi mi ha insegnato che tutto è legato e tutto vive senza farmi dimenticare degli umani, perché anche loro sono parte di questa natura meravigliosa”.  

I- Il Pianeta Sud, l’antartico e le sue isole

Iceberg nel mare di Weddell tra l’isola di Paulet e le Shetland, (Antartide 2005)



Sono fluttuanti forme di ghiaccio in movimento, danzanti  su una immensa bianchezza d’eternità, poi la corrosione divorante delle medesime come se una schiuma o mousse soffice e spumosa fosse stata scavata e ritagliata dagli agenti atmosferici o dalle forze naturali in azione. Un bianco cielo di ghiaccio si riflette a specchio sulla superficie brillante e quasi immobile dell’oceano, nero petroleum nell’effetto del chiaro-oscuro estremo voluto dall’immagine in bianco e nero . Contemplare l’idea di perfezione attraverso la natura, opera e strumento nelle mani della divinità,  fonte di ispirazione  o di trasmutazione estetica per l’artista. Contemplare semplicemente le forze di creazione in atto in un estremo incontaminata dell’universo, la penisola antartica.

Dove esattamente finisce la terra, inizia l’acqua? Le leggi della natura vi agiscono innate, in maniera a noi quasi inconsapevole . Grandi blocchi antartici si staccano dai massi originari e fluttuano attraverso i mari del sud al largo delle Shetland australi. Dall’oceano emerge una grandiosa montagna di ghiaccio intagliata, internamente scavata e svuotata, corrosa dagli agenti del tempo o della materia: arco, rilievo, apice di iceberg ghiacciato sorge, elevandosi in un turbinio di flutti, onde e  rollii di correnti nordiche. Dove esattamente è il confine, dove finisce la terra e inizia l’acqua, dove l’oceano si perde a vista allo sguardo, domina e regna incondizionato, dove inizia quel luogo originario, della terra alle origini nel mentre della creazione, Genesi descritta nell’Antico testamento o grande diluvio biblico mandato come punizione divina su tutta l’umanità? Il vento passa attraverso le onde disegnando fluttuazioni, orbite cosmiche, sorprendenti circoli d’energia d’impronta divina sull’acqua.
La forma è là granitica, immota come una soglia che sorge attraverso l’oceano, un antro, un luogo di passaggio verso un altrove, quasi fosse il limite ultimo d’una dimora o castello di ghiaccio all'estremo della terra mentre immoti circoli d’energia si perpetuano in forma ciclica sulla superficie dell’acqua.


Antartico II





La terra è là granulare, granitica, squamosa come la pelle di una serpe, come quando sassi e limo restano pesantemente depositati al suolo, violentemente portati  a riva dalle correnti marine sulla banchina sottile che separa l’acqua dalla sabbia. La creatura marina, un elefante d’acqua dei mari antartici, ugualmente appare distesa a riva come fosse essa stessa un’epidermide rugosa in continuità con l’altra, a squame grigiastre incise sul suolo. Poi la sabbia invade lo spazio dell’immagine ovvero un amalgama di sassi e limo e l’acqua, elemento primario, avanza e irrompe: l’oceano-mare ovunque intorno. La forma immensa dell’animale sul suolo granulare e sgretolante si staglia in rilievo con un volto dai tratti quasi umani simile a una creatura preistorica, un fossile o un anfibio d’acqua magnificamente adagiato sulla terra mentre una marea invadente avanza fino a noi per guazzi, ondate e sciabordii di moti ondosi. Un equilibrio perfetto e sottile, in sé stesso indisturbato vige in quello scenario naturale dove tutti gli elementi si corrispondono di uno stato di purezza, di innocenza primigenia ritrovata al momento della fotografia. Là, lo sguardo del fotografo pare fondersi con quello del paesaggio e la costruzione dell’immagine riemerge, nitida di fronte agli occhi mentre tutti gli elementi si rispondono, magicamente si ricompongono in un equilibrio perfetto: le linee, le forme, il vento, gli esseri, lo sfondo e la luce che gioca attraverso, incidendo le sue trame in riflessi e  ombre su quello.

II. Santuari

Sulle isole Galapagos o in Madagascar queste fotografie  raccontano di una vegetazione endemica, originaria dei luoghi minacciata dagli insediamenti urbani invasivi: specie di animali e piante rare come le orchidee o i lemuri,  di dune naturali di sabbia scavate dal mare e letti di fiumi prosciugati, di immense tartarughe d’acqua o correnti di lava in eruzione attraverso i vulcani attivi. Superfici calcaree e taglienti come vetro in frantumi appaiono ricoperte da conchiglie e stalagmiti di accumuli minerali, foreste pluviali e colonne di fumo si stagliano verso l’alto attraverso l’aria disegnandosi in linee grigiastre all’orizzonte dagli insediamenti degli indigeni autoctoni.

Iguana Marina, Galapagos (2004)

Fotografata un primissimo piano nel corso di un reportage alle Galapagos  Salgado racconta a proposito dell’iguana al momento dello scatto: “ guardando una delle sue zampe anteriori improvvisamente ho visto la mano d’un guerriero del medioevo. Le sue squame mi hanno fatto pensare a una giubba di maglia di ferro sotto la quale ho visto dita simili alle mie". La zampa espansa e enorme dell’animale in primo piano ci fa pensare a una mano del tutto umana, istrionica, ricoperta di alluminio quasi o di acciaio rigido e grigio come indossasse appunto un guanto o una maglia metallica per proteggersi dai predatori o dagli agenti atmosferici esterni. Artigliata fende la terra, al fondo della medesima affonda l’unghia nel vivo della carne o del suolo. Artigliata appare simile, tuttavia, a una mano umana vista come un scintillante magnete di metallo in una postura d’allerta o di vigile posizionamento. E’ insieme la corazza dell’animale che ci portiamo addosso e la parte istintiva e viscerale presente al più vivo dell’umano.
Come sottolinea il fotografo: “con Genesi ho voluto raccontare la dignità e la bellezza della vita nelle sue diverse forme e mostrare come abbiamo tutti la stessa origine.”  Il termine non assume infatti per lui una connotazione prettamente religiosa ma indica “ quell’ armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie. Ovvero, il prodigio di cui facciamo tutti parte”.

Ritratti di  indigeni



Un volto-maschera appare scavato dal tempo e dalla ardue condizioni di vita nella foresta amazzonica per questo primo piano scattato tra le popolazioni indigene con cui Salgado entra in contatto nel corso di uno dei sui innumerevoli viaggi nelle isole indonesiane della Nuova Guinea.
Volto sciamanico, sguardo scintillante di ardore, di vita contro  la secchezza scavata dei suoi tratti, incisi sulla pelle come sull’aridità d’un suolo prosciugato di vita, dissecato da una calura intensa o da una siccità esperita nel tempo al massimo grado. Pigmenti di colore bianco simile a una vernice naturale ne coprono il viso  ad eccezione degli occhi, intensamente scintillanti e diamantati sul fondale opaco. L’uomo fissa il proprio sguardo dritto di fronte all’obbiettivo in primissimo piano, vigile, attento, forse incuriosito dalla macchina, con questa sua intelligenza manifesta del corpo in ascolto e in affinità intima con ogni minima vibrazione o movimento che gli accade intorno, lui detentore inconsapevole di tale conoscenza sottile delle leggi e dei segreti del mondo naturale  che lo circonda.

Nella fotografia successiva due indigeni della Nuova Guinea sono sorpresi o ripresi dalla macchina durante una cerimonia rituale di danze e canti ancestrali denominata “sing-sing” apparendo come dei veri e propri performer avant- lettera intenti a suonare i loro flauti rudimentali modellati nel legno della foresta. Cappelli piumati, volti ricoperti di maschere di bianca vernice, moltitudine di colori cui allude la fotografia, i corpi appaiono decorati dai loro propri oggetti e collane rituali scintillanti in metallo pesante, i capelli acconciati in una sorta di parrucca naturale decorata di piume,  lo sguardo centrato all'obbiettivo in una presenza scenica ineluttabile; loro, essenzialmente intenti a intonare o accordare gli strumenti nel corso della cerimonia . Ornamento, essenza e presenza totale della loro aurea luminosa confluiscono insieme in un’immagine in sé stessa perfetta, compiuta senza necessitare d’ altro commento o traduzione.



 “Baia di Moramba” in Madagascar (2010)

Isola vulcanica sospesa come una grande nuvola artificiale,
un’eruzione dal mare o dal sottosuolo, una visione, un sogno, un’immagine, irreale fluttuante a tratti nella memoria si materializza, si rende manifesta, riappare lì d’un tratto come in un sogno ad occhi aperti. Grandi, immensi alberi secolari ricoprono il suolo dell’isola, uno in particolare al centro con le sue radici profonde che si gettano e diramano  dentro la terra fino a raggiungere le profondità del sottosuolo per ritornare all’oceano e ricongiungersi alla liquidità prima dell’origine. Le chiome ramificano verso l’alto in una radiazione luminosa e clorofilliana di presenza, della loro primaria verde-smeraldo natura.
Una zolla di terra resta fluttuante e sospesa in mezzo all’oceano, al largo della Baia di Moramba; sorge quasi come un Eden terrestre, una piccolo pezzetto di suolo o isola proliferante di vita in mezzo alla vastità calma e piatta dell’oceano al largo del Mozambico.Come una  nuvola di vita si innalza e prende corpo
_ sgretolante di secolari radici e ricoperta di una verde proliferazione di piante-
come un’impronta a sé, l’ultimo baluardo di salvezza tra la vastità immobile dell’acqua e l’involucro pesante e grigio del cielo, incendiario, carico sopra la terra di tempesta.


III Africa

Documenta un’Africa eterna abitata da tribù ancestrali e vista attraverso paesaggi maestosi e una natura selvaggia. Viaggia attraverso il deserto del Sahara nei tredici stati che attraversa considerato porta d’accesso all’Africa. Dai suoi primi viaggi in Ruanda, Burundi, Zaire e Kenya Salgado ritrova in Africa quella vastità selvaggia che egli considera “ l’altra metà del suo continente”: la stessa vegetazione, gli stessi minerali, le stesse origini per quegli schiavi che dalle coste africane venivano condotti dai portoghesi in America latina, infine una simile maniera di vivere, parlare, alimentarsi e mettersi in relazione nella comunità. E’ lì, nel corso di trent’anni di viaggi e innumerevoli progetti fotografici che Salgado si trova faccia a faccia con paesaggi di una ineguagliabile bellezza ma anche di fronte ad emergenze umanitarie estreme documentate dai reportage come la siccità in Sudan,  gli esodi di massa dei profughi dal Mali, il Ciad o l’Etiopia, infine le atrocità perpetuate in paesi come il Ruanda nel corso della guerra civile. E’ lì in quel continente stigmatizzato e insieme sconfinato che Salgado scopre la propria voglia di mettersi in gioco, la passione assoluta e ineguagliabile per la fotografia fino a farne la professione di tutta una vita. I numerosi viaggi portano coerenza al suo lavoro,divengono a poco a poco strumento per vedere, comprendere, seguire i cambiamenti di uno stato di luoghi nel tempo e nello spazio e mostrarli attraverso le immagini, infine un modo di convertire il  piacere dell’istante in progetti umanitari di lunga durata. La sua fotografia si esplica nello specifico come una forma di scrittura appassionante attraverso la luce ma, anche, nelle sue parole, come "un linguaggio molto potente, universale come solo può esserlo quello dell’immagine perchè non necessita d’altra traduzione e si situa innegabilmente nell’attualità del presente".  

Zambia


D’ inverno nello Zambia le notti sono fredde, all’alba l’acqua dei laghi ancora tiepida per il sole della giornata precedente evapora e condensa in affascinanti banchi di nebbia che lievi versano sopra il paesaggio avvolgendolo completamente della loro tenue effusione  sullo sfondo desertico e spoglio  della savana. Una vastità immensa, un mare liquido di foschia, traslucido e riflettente simile a uno stagno di riflessi argentei ne emerge. Sole poche chiome in alto restano ancora visibili, forse il profilo di altorilievi o arbusti appena riconoscibili a distanza, mentre tutta la visione in primo piano appare completamente sommersa e avviluppata da questo deserto apparente d’acqua, di fumo o di lava argentea, liquida allo sguardo. Una sola strada sottile è tracciata là al centro in un zigzagare di bianco che procede verso l’orizzonte e lo incide, lo taglia, lo appropria in mezzo a quel manto lucido e scintillante d’acqua e melma apparente.
Ancora dall’ Africa del sud, vicino al deserto del Kalahari sono i ritratti di volti ripresi in mezzo alle tribù ancestrali dei Boscimani che vivono sul territorio.
Nella loro più importante danza rituale in Namibia le donne cantano e battono le mani in circolo mentre gli uomini danzano in un cerchio più ampio intorno a loro  su uno spiazzo circolare al centro del villaggio; il ritmo frenetico della musica che si instaura sullo sfondo degli arbusti e dei cespugli nella savana accompagna lo sciamano attraverso il suo viaggio rituale verso l’aldilà. L’immagine coglie il  senso di una danza sacra che riconnette il singolo alla comunità, e disegna un scenario simbolico, di passaggio attraverso il quale il mondo materiale entra in contatto  con quello spirituale o l’uomo si riconnette alle forze sottili della natura che muovono il cosmo.

Ritratto di una donna dalla tribù Himba   (Angola)

Si dice che le donne restavano sole nel villaggio, assumendo tutto il potere su di loro quando gli uomini partivano per lunghe trasumananze alla ricerca di acqua e nuovi pascoli con tutto il loro bestiame.
Questa donna appare seduta sulla terra  in posa meditativa, scorta di profilo obliquamente alla macchina eppure a distanza ravvicinata d’essa, forse intenta a una sorta di preghiera o invocazione silenziosa ad occhi chiusi per il ritorno degli uomini. Salgado la sorprende in tale  sguardo estatico, nel silenzio della sua postura, nella solitudine essenziale della sua figura volta  verso l’interno, ripiegata su sé stessa in atteggiamento di silenziosa contemplazione o, semplicemente di attesa, nella sospensione del momento presente. Ne emerge la dignità  solitaria e l’intrinseca bellezza di un ritratto quasi regale sottratto al fluire consueto del tempo nel villaggio.  I capelli sono intrecciati e accuratamente acconciati con ciocche in rilievo secondo lo stile locale, bracciali argentei scintillano maestosamente ai suoi polsi mentre il corpo resta per metà scoperto, denudato secondo l’usanza indigena.


Genesis, the origin of creation


Una mandria di bufali è vista dall’alto, riunirsi  in un grande branco al centro di una terrapieno nel parco nazionale dello Zambia. La foto scattata silenziosamente a distanza da una mongolfiera per non interferire con i movimenti degli animali appare immersa in un effetto pittorico quasi astratto. Vediamo questo piano infinito attraversato da onde e fluttuazioni di branchi, pensiamo a spostamenti di animali in massa a distanza, a orme di passi viste dall’alto, all'immagine d’uno sciame, d’uno scorrimento di acque, d’un fiume in espansione e straripamento verso un immaginario orizzonte oceanico al fondo della foto, quasi a una grande superficie mossa e movente tinteggiata nelle tonalità argentee del grigio, del bianco e del nero  fino all’orizzonte. Al di sopra un cielo carico, trafitto da una luce irradiante per punti di intensità attraversa le nubi al tramonto. E’ a partire da quella luce  d’origine quasi divina, scendendo dall’alto come una rivelazione o un’apertura dall’infinito verso la terra più in basso che Salgado crea la potenza dell’immagine e, insieme, coglie l’idea  di genesi come di un ritorno all’origine della creazione.  Nel testo biblico della Torah , Javé, il Dio dell’Antico Testamento creò l’universo, la terra in sei giorni e il settimo si fermò a contemplare l’esito della propria creazione. E' anche ciò di cui parla “Genesi “ di Salgado nella foto: il grande mistero della creazione del mondo, le forze della natura al lavoro, Dio al di sopra di esse, l’inizio e la fine di tutto quello che esiste come leggiamo all’inizio della Genesi:“Io sono colui che io sono. Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.”
 “L’io sono”, il primo nome dato a Dio nella Torah qui è figurato, colto come questa luce che scende dall’alto e irradia simile a una rivelazione divina al fondo di un  cielo coperto e oscurante al tramonto, mentre disegna il suolo, la superficie del mondo, con linee di vita che proseguono verso il loro proprio infinito e iscrivono parole su un Libro Sacro, quello dell’universo: il tessuto significante della terra.