giovedì 20 gennaio 2011

"Una frase per mia madre", Christian Prigent, messa in scena di Jean marc Bourg, Maison de la poésie, Parigi






Lungo viaggio nell’immobilità del corpo per l’attore su scena,
lungo viaggio senza immobilità per una sola e stessa frase ripetuta, espansa, decorticata, intessuta lungo tutto il percorso della narrazione senza darsi altri tempi d’arresto, di sospensione, di intercalato che quelli scanditi dal battito, dal tempo interno alla scrittura, dalle cesure ritmiche del respiro spingendosi perpetuamente, ripetutamente verso l’avanti in questo keep going, continuer à aller, mantenere il flusso del racconto ininterrotto.
Tale “motilità negativa” é la forza dell’informe, o l'energia regressiva che

imprime, corrode, demoltiplica la frase tendendola all’infinito, dall’interno iscrivendovi la violenza del non-simbolizzabile nell’elemento sonoro, in una sorta di sovra-misura stilistica sotto il segno dell’eccesso, l’incontenibile del movimento poetico in atto.
Una sola lunga frase masticata, ingurgitata, triturata, espulsa, riassorbita, reiterata, fatta divenire una sorta di delirio voluto della parola, esplorando l’impulso ritmico, sonoro, alliterativo, il sostrato pulsionale della lingua come fonema, voce, energia che si dà nel tempo e nello spazio incarna attraverso il teatro la discesa nell’innominabile, il legame ombelicale madre-lingua tagliato e mai definitivamente interrotto che la scrittura riallaccia, primariamente, nella de-figurazione del linguaggio.
Portare in teatro questo testo é seguirne il filo, l’immersione sempre più a fondo nella sonorizzazione della parola, nell’energia che sottende la linea scritta mantenendo il flusso ininterroto, il movimento, la motilità arcaica e regressiva della lingua-madre nella sua affabulazione grottesca: dalla ritrazione comica o ironica, all’apertura poetica, alla discesa infernale nell’a-significanza, nel malessere dell’esistenza, sottilmente convocato, incombente, strisciante a ridosso della carne , nel sintomo vissuto, immaginato o temuto contro la forma finita dell’individuo-corpo costituito.




Liberamente suggerito dal testo di Christian Prigent
Questa frase disfatta, rifatta, imperfetta, s’offre a te,
soffre in te, assente per tutti i tuoi buchi, nell’estenuato, nudo, molto più esausto, masticato volto del presente.
S’offre a te come un eco, una camera di suono,
una risonanza imperfetta alle tue parole.



Attraverso il silenzio, la portata oscura di quello che insidia la carne quando è tagliata fuori dal suo gioco, funzionante solo a tratti o per parti disconnesse,
fatta di fori percuotenti, di buchi e pezzi mancanti,
di nodi stringenti e varchi di vuoto.


Questa piccola verità insidiosa, esasperante, che assillante a volte viene ad affacciarsi, a sussurrare alle tue orecchie come per farti tornare, risalire insieme a essa
la corrente del fiume fino alla sua sorgente.


Cammini senza rumore sul bordo dell’acqua fino al limite, là dove la terra si ricongiunge al grande infinito, liquido dissolto ai suoi piedi;
seduto su una pietra a piangere sul bordo dell’abisso.
Ed ecco che la notte s’avvicina, la vedi discendere, adagiarsi, distendersi su di te indefinitamente.















Madre, è “ il mondo in sofferenza in noi, il mondo in sofferenza nel linguaggio”,
“è il fatto che si abiti la carne quaggiù, su terra, non come le altre carni ma con parole.”
E’ l’insensato, l’indeterminato, il fluttuante che dice questo essere del presente,
il malessere di un certo rapporto al mondo.
E' una sorta di strappamento, di vuoto o lacerazione vagamente percepita , lancinante,
insistente o inesistente facendosi intendere a tratti, e altro non saprei dirne.


E’ l’io un po’ fuori dal suo ruolo, incarnato, disincarnato, impregnandosi di tutto quello che respira , ora assente d’una strana assenza a sé stesso,
sempre un po’ dislocato, rinviato, procrastinato nell’imbarazzo della scelta,
nella mancanza di fatto, del fatto, dell’ esplicito rimosso.
E’ piuttosto il nome dell’io quando non sa cosa, abbastanza spesso, troppo spesso dell’io cosa fare.
E’ piuttosto questo nulla che riempie la testa quando nell’indolenza del giorno comincia a banchettare con i suoi fantasmi,
nel soliloquio di fronte alle cose e ai loro effluvi.


“Parlo di quello che fa che si manchi al mondo, quaggiù, che lo si manchi il mondo non come le altre carni ma con parole”; parlo di insoddisfazione, intromissione, inazione, dai nervi al sangue,
la corazza tesa e il filo di ferro che fa che resti in piedi.

E' l’essere senza viso, senza bordi, ne barriere nella lenta auto-divorazione delle proprie interne emozioni.
L’inizio e la fine, la trappola, la pietra dei vivi incidenti che chiamiamo esistenza.


E’ quest’aria di quasi non-aria, torpore, tepore, soffocamento,
polvere di magma,
fantasma d’ombra amorfa sulla scia d’un passo senza nome.
Ossigeno, spiraglio di fuori, l’interdizione di respirare più lontano.


E’ il soffio, il respiro e la sua misura, e questo movimento d’apparizione, attraverso il corpo, ritrovando l’essere della poesia.




lunedì 10 gennaio 2011

"Sitio", Marie Bovo, Maison éuropéenne de la photograhie, Parigi







































































Prima Serie : le “Corti interne” d’un quartiere popolare di Marsiglia.

Viste verticalmente, a raso dell’obbiettivo, aprono in altezza su uno squarcio di cielo inaspettato, di volta in volta riempito di diverse gradazioni luminose. La fotografia sceglie di posizionarsi all’interno, tra le facciate parallele di questi edifici, dentro il riquadro-corte composto dai suoi muri adiacenti, attraverso i suoi fili di panni stesi, linee multiformi e colorate se guardate a distanza, situandosi in uno spazio mediano tra la geometria epurata delle forme, l’astrazione dell’ordine dell’esistente e l’interno degli abitati, delle corti, dei palazzi in una sorta di punto di vista ravvicinato, a raso delle soggettività e del loro modo di abitare gli spazi. Tale visione s’apre in profondità, in una terza dimensione rispetto alle linee bidimensionali che lo designano: spazio architettonico, abitato, esplorabile in una mise-en-abîme dello sguardo, dotato d’una profondità ontologica, potremmo dire d’una terza dimensione esistenziale, costruendosi in una sorta di scenografia naturale attraverso i fili tesi che ne tagliano trasversalmente i limiti esterni.

Il rovesciamento visivo si opera attraverso lo stravolgimento del punto di vista,
le détournement d’un régard, poi nella messa a distanza dello stesso e nella sua ripetizione seriale sottoposta a diverse variazioni cromatiche: sfondo violaceo, azzurrino, blu indaco, ora nero o argenteo.
La profondità tridimensionale, scenica aperta dall’immagine, non necessita altro supporto che lo spazio mediano, al limite spurio o contraffatto del quotidiano filtrato dal passaggio all’astrazione. E’ la visione d’una scena che non si dà come evidenza, come trasparenza o permeabilità totale per chi guarda, ma in quanto impedita, volutamente attraversata da linee oblique, occlusa si, ma non tanto da rendersi ermetica o totalmente a-significante.
Metafora d’una scena teatrale post-moderna, questa visione dell’estremo contemporaneo é l’interno d’una corte popolare d’un quartiere periferico, Marsiglia, Napoli o Milano, uno dei tanti proliferanti ai bordi dei nostri reticolati urbani. Lo stravolgimento della visione dal basso verso l’alto, nella verticalità, apre in profondità un non-luogo volutamente occluso, non direttamente accessibile, nato dai débris della materia esistente, tuttavia enfatizzato dalla rifrazione cromatica nella serialità. L’oscurità é infiltrata dalle luci elettriche delle finestre accese la sera, la luce violacea tendente al bluastro nel crepuscolo, il rettangolo irradiato nel pieno riverbero del giorno.
I non-luoghi, i ready-made dello spazio contemporaneo sono le architetture esistenti delle città come la proliferazione anonima delle periferie, l’esperienza sensibile dell’attuale sottoposta a un processo d’astrazione, di stravolgimento o scarto percettivo attraverso, principalmente il dispositivo fotosensibile della luce. Le corti Interiori secondo Marie Bovo: “ i pozzi di luce che creano gli edifici di un quartiere popolare marsigliese”.

“Grisailles”, 2010. Fotografie monocrome, atone o investite da una tonalità dominante tendente al grigio, sbiancate o decolorate, rigorosamente spogliate del fascino d’ogni cromatismo nella messa a distanza voluta dell’obbiettivo. Sono portici o interni di palazzi borghesi visti principalmente attraverso i loro soffitti e muri di fondo . Vediamo soffitti decorati a stucco, pareti riprese come nella serie precedente dal basso verso l’alto, e, in alcuni dettagli, fili elettrici percorrendo tutta la lunghezza del muro, neon o altri dispositivi di supporto. L’immagine inedita nasce reinterpretando lo spazio esistente, partendo dallo scarto, dal décalage percettivo dell’architettura rintracciata nel percorso a ritroso, nel processo subliminale di cedimento della materia: i segni di sgretolamento della pietra, le scrostature degli stucchi, le macchie di vernice o di umidità comparse sulle pareti dipinte.

Luoghi dimessi, decadenti, disabitati come vecchi palazzi d’antico splendore, “impossibili paesaggi” dello spazio urbano instaurano una relazione disarticolata, disincantata tra l’uomo e l’esperienza sensibile del suo “essere nel mondo”.

Decentrare il punto di vista: creare uno spazio inedito partendo dalla fenditura di quello esistente attraverso lo stravolgimento ottico; assumere lo iato, la fessura come punto di svolta del linguaggio estetico sfruttando l’incidenza di macchie d’umidità, di ritocchi di vernice sul muro, un filo elettrico scoperto, una lampada a neon intercalandosi sulla visione di fondo.
Nei reticolati urbani, l’emergenza di “architetture di sopravvivenza”; secondo Bovo, “forme di resistenza pasoliniana allo spazio borghese”.


Il Cairo nella serie Bab-El Louk (2006) Lo spazio fotografico é disseminato, completamente riempito dei soffitti-terrazze d’un quartiere popolare del Cairo inquadrati verso l’alto, a raso dell’obbiettivo, escludendo ogni altra visione dell’orizzonte.

“Rinviano alla posizione in sopra-rilievo delle città utopiche del medioevo o del rinascimento sempre all’orizzonte, sempre in altezza, di cui uno dei modelli é la Gerusalemme Celeste. Ho inquadrato senza cielo spostando il punto di vista, in leggero affondo là dove la prospettiva sorge dominante. La città é essa stessa il suo infinito”.

Il plastico cubista di forme rettangolari a ripetizione taglia e investe lo spazio esistente e, allo stesso tempo, lo decompone dandosi come anti-rappresentazione, negazione d’una visione razionale, ordinata dello spazio architettonico occidentale. L’ammasso caotico e nebuloso dell’abitato urbano cairota sorge senza prelabile piano architetturale nell’invasione dominante del cemento, nel troppo-pieno della materia, nell’accumulazione di detriti e ammassi di polvere o pietre sulle terrazze disseminate d’antenne paraboliche. La stessa immagine é sottoposta a diverse gradazioni luminose , ripresa nella piena luce del giorno, al crepuscolo o a notte fonda . Il plastico architettonico delle forme investito dal processo d’astrazione si presta a un gioco ottico dove la materia, l’ammasso disordinato, l’accumulo, il detrito sono in qualche modo reinvestiti dal bagliore diffuso della luce serale, nella semi-oscurità con solo alcuni sprazzi provenienti da poche finestre illuminate, nello strato ovattato o semitrasparente che come un velo cenere o indaco ricopre e affievolisce la visione alla fine del giorno. Infine, con una lente derealizzante nella notte, un filtro bluastro-smeraldo-elettrico e alcuni bagliori materici sorti qua e là senza pre-determinazione sull’uniformità plastica del fondo. L’effetto é sorprendente, irreale, derealizzante nell’ottica d’una rilettura impressionista degli spazi mediani contemporanei.


“Niente di più che questa città indefinita, all’opera ovunque sul suolo, sulla terra come una sorta di Gerusalemme Celeste”, vista in altezza, all’orizzonte nei segni attraverso i quali l’uomo si appropria e converte la materia deperibile del mondo. “La città è essa stessa divenuta finzione”, anti-rappresentazione, immagine soltanto se guardata a distanza, attraverso diversi filtri o lenti colorate, nella sovrapposizioni delle forme, colta nella notte, la sera o nell’immobilità del giorno.
Si direbbe si cerca questo momento, di traslazione, di passaggio, dove “la città diventa essa stessa il suo infinito”.












La fotografia di Bovo affonda nelle cose ma le mette a distanza, rifiuta l’estetismo come una visione oggettivista, mimetica del reale. Si rifà alla realtà dell’ordinario, del banale, del periferico o dell’esistente, sceglie i quartieri popolari, i ghetti urbani, gli interni dei palazzi borghesi scrostati come le architetture destituite, i muri nudi.
Il Cairo, Marsiglia o Parigi, dell’estremo contemporaneo.
Sceglie gli spazi striati attuali come cantieri aperti o in costruzione per l’immaginazione,
i tracciati urbani esistenti e le loro derive, le architetture trasversalmente innestate da apporti estranei, le ibridazioni o metissage di forme appartenenti a ordini differenti;
sceglie ancora la proliferazione disordinate dei bordi, delle zone periferiche o industriali, delle escrescenze urbane. L’ordinario dell’oggetto non vuole lasciarsi imprigionare dalla semplice registrazione del dato sensibile. Resta costantemente attraversato da questo impulso di superamento o traslazione delle cose, da questa sorta di potere utopico insito nella nostra facoltà di costruire, inventare o appropriare affabulazioni che é anche un’inquietudine sul senso, sul posizionamento del soggetto nei termini di un lavoro artistico. Arte della distanza, d’uno sforzo d’astrazione, d’una neutralità apparente lasciata al potere delle cose, ricerca il decalage estetico come spostamento della prospettiva o la sovrapposizione di diverse temporalità e punti di vista. Si situa, infine, in questo iato o fessura del reale ( la macchia d’umidità sul muro, i fili elettrici a vista, i fili di panni stessi che sbarrano obliquamente e insieme designano uno spazio inedito in profondità); porta in sé implicitamente il senso della fine di un’esperienza, la fine di un mondo forse, dandosi in un costante effetto di superamento, di trans-substanziazione della materia, costante trasformazione nell’avvenimento sensibile, riconfermando la portata utopica dell’immagine fotografica.