domenica 27 maggio 2012

A proposito di Paolo Pellegrin, Dies Irae, Maison de la Photographie, Parigi




« Quando lavoro e sono dunque esposto alla sofferenza degli altri, alla loro perdita, qualche volta alla loro morte ho il sentimento di servire da testimone. Forse che ci si rende conto dell’esistenza degli altri nel loro istante di sofferenza perché esso invalida tutte le nostre scuse.”(Paolo Pellegrin)










“Sento che in questo spazio delicato e fragile che circonda la morte, spazio nel quale ho qualche volta il privilegio e l’infelicità di accedere, di soffermarmi, esiste una possibilità di incontrare l’altro che supera in qualche modo le parole, le culture e le differenze. Per un istante si é nudi gli uni di fronte agli altri, nudi di fronte all’atto e al mistero della morte.”




La fotografia di Pellegrin si situa in tale spazio difficilmente abitabile, direttamente a ridosso dell’atrocità dell’avvenimento, spazio difficile da guardare, da comprendere prima ancora che da fotografare, da trasmettere. Bosnia, Libano, Iraq, Palestina, Afganistan ecc., sono zone devastate dalla guerra, da catastrofi naturali o indotte dall’uomo, o ancora da altri fenomeni d’emergenza internazionale che costituiscono, attraverso le differenti serie fotografiche, un estremo di documentazione, di testimonianza e di resa d’un tragico post-moderno strettamente connesso all’attualità del presente, concepito in uno stile documentario sobrio, essenziale e insieme altamente poetico.

Esiste in primo luogo la necessità di informare, di testimoniare, di rendere la “verità storica” di un avvenimento o situazione dell’estremo, la complessità di soggetti messi in gioco sul piano della geo-politica internazionale nell’ottica di un’ etica documentaria che riporta la fotografia a un primo livello, al piano del reportage giornalistico. E,’ in primo luogo, tale mandato umanista che si esplica nel dovere etico di testimonianza dell’immagine in quanto appello a presenza, assunzione di responsabilità di fronte all’ineluttabile dell’evento, di fronte alla morte o alla devastazione guardata in faccia che porta in sé il lavoro del reportage nel suo atto di denuncia di drammi storici collettivi; gettito nel flusso dell’ attuale contemporaneo attraverso l’estemporaneo dell’immagine fotografica. A un primo livello, dunque, tale fotografia si situa nella dicotomia irrisolvibile tra il soggetto e l’oggetto, tra lo sguardo singolare, soggettivo del reporter e l’evento implicato nel qui e ora dell’obbiettivo, ponendo un patto di credibilità, una distanza, se vogliamo critica, tra l’essere presente e il restare osservatore esterno, tra l’assumere un’interpretazione, un punto di vista inevitabilmente parziale e il riprodurre qualcosa di estemporaneo, là fuori, facendosi in qualche modo garante dell’autenticità di un momento, d’un atto. Fotografare è, già, implicitamente, un lasciarsi sorprendere dall’istantaneo manifestarsi dell’avvenimento , soprattutto in queste zone dell’estremo, dell’inavvicinabile o dell’inumano aperto come voragine al fondo dell’umano.


Documentare una situazione, un avvenimento estremo come il conflitto israeliano-palestinese o l’’emergenza tsunami in Giappone nel 2011 significa per Pellegrin aderire a quell’etica fotografica dall’interno, farla confluire, incorporare al più profondo della ricerca sulla forma, auto-generata per essa stessa, restituire dunque la risonanza più autentica dell’avvenimento nella sua permutazione in immagine fotografica, nella sua capacità di trascendere il lato semplicemente aneddotico del fatto per darsi come metafora visiva. Esiste in questo potere di trasmutazione metaforica, vivificante, capace di illuminare dall’interno e pienamente il senso più vero di quella realtà. Entra in gioco, allora, la portata poetica dell’immagine documentaria, la sua capacità di rendere visibile l’avvenimento giustamente in questa operazione di sottile trasmutazione, di lieve spostamento o dislocazione dal suo asse più immediatamente percepibile, malgrado e dentro l’orrore che lo contraddistingue. E’ la capacità di “vedere”, andare più lontano in questo sguardo portato sul reale, di trasformare, spingere l’intuizione sulla visione oltre il “cliché” della fotografia formattata, prodotta dai media, oltre l’ordinario delle immagini di guerra che riempiono i nostri quotidiani registrando fatti o morti anonime.


La forza d’una bellezza che esiste e resiste, si rivela e si rivendica malgrado e attraverso l’orrore dell’evento al fondo della quale é autogenerata.

“C'è la volontà d'essere là e di guardare, di guardare e vedere, di non volgere lo sguardo altrove”[1] di fronte al terrore o alla disperazione dell'avvenimento, di continuare a guardare nonostante tutto e attendere, in qualche modo, attendere che l'immagine si manifesti, un'immagine di bellezza nella violenza del conflitto.
Coglierne la portata rivelatoria nel pieno del disastro, mostrarne la possibilità nella rovina.


In questo contesto tormentato, invaso da angoscia sensibile e da comprensibile paura vorrei porre il caso della bellezza non come un supplemento, un'aggiunta o un diversivo ma come la sola cosa che resti, che ci appartenga”[2].E' attraverso tale senso condiviso di bellezza, non puramente vista come fenomeno esteriore o simulazione dell'apparire estetico delle cose ma come luce che illumina in profondità l'essere nella sua totalità, corporea, psichica, spirituale e etica, che troveremo “i mezzi e i modi attraverso i quali trovare ispirazione, responsabilità, superare i limiti di tali situazioni distruttive.”[3] Essa sola ci permetterà di raggiungere l'anima delle cose e degli individui, spingendoci a immaginare, a pensare alternative possibili a questa realtà.

Solo la bellezza che illumina dall'interno in tale prossimità alla morte, sembra dire il fotografo, può permette a lui e a tutti noi di aprire gli occhi, di trovare un ordine e un senso, una motivazione e una coerenza nel complesso devastante dei segni di tali violente estremità. Guardare attraverso la sua lente ciò che è dato per schegge, parti esplose, frammenti lasciati dalle detonazioni di guerra, vedere il potenziale nell'immagine andando oltre la semplice registrazione fenomenica dell'evento.


Trovare una forma di bellezza in paludi stagnanti, nel fango fetido dell'esistenza,
in rottami di vita o di corpi, nella pestilenza, nell'epidemia, nelle ceneri, nel fumo,
nella caduta, nella macchia_ il sangue sul tessuto o la vernice gettata contro il muro_
in un ritratto, nella folla dispersa, su un viso rabbioso, nella desolazione d'una parete nuda.
Nei diluvi, nei disastri, nei territori desolanti lasciati dalle guerre,
in un pezzo di muro scrostato, in un volto che grida in mezzo alla folla,
nella prossimità paradossale alla morte, dell’inavvicinabile, in tale prossimità,
 nel processo di vita e morte cui è soggetta la materia e i corpi, nel circolo di infinito ritorno che essa implica.


Da un luogo all’altro tali immagini ci lasciano transitare in questa condizione di guerra infinita, nel tempo e attraverso il tempo come esperienza istantanea d'un attuale riattivato ogni volta attraverso una nuova evenienza fotografica, in Pellegrin una sorta di guerra dentro l’immagine.

L'urgenza semplicemente di testimoniare, di dire, l' urgenza d'esserci, d'essere presenti nell'istante stesso del dolore, del terrore, d'affondare nell'immanenza di quel momento dentro il gesto fotografico, contro e malgrado la paura, mantenendo ben netta tale aspirazione alla bellezza.
Il pensiero del disastro, la morte intorno , corpi ovunque giacendo disfatti, il tempo uscito dai suoi gong;
l'immanenza d’un dolore figurato nell'intercessione d'uno spazio fotografico, nella modalità del visivo.

Ineluttabile. Una parola legata agli esiti della guerra, alla presenza inequivocabile del male ontologicamente dato su terra, poi al tempo che passa, alla degenerazione della materia nel ciclo vitale, all’ineluttabile d’ sguardo portato sulla realtà fino a renderla altra, fino a farla entrare in un altro ordine del visibile . Il fotografo assume tale sguardo come una questione vitale, ne fa la traccia d'un energia, d'un desiderio che resta contro la cancellazione, l'annullamento entropico della morte. Lui, per primo pone la questione del tempo all'immagine, cioè decostruisce l'impronta spontanea d’uno sguardo posato su una realtà neutralmente data, facendo della forma fotografica l’incontro tra registrazione e visione soggettiva , del presente una costante alterazione di presenza,
 infinita sfaccettatura, mutazione della materia che si incarna in una o un’altra forma.

Esiste la violenza e l’orrore ma esiste anche questo dono, questa capacità straordinaria di trascendere l’atto, la materia bruta dell’avvenimento metamorfizzandolo, restituendolo in metafora indiretta, immagine-pensiero che porti in sé tale forza di incisione trasformata in indice astratto, impersonale, poeticamente dato per avvicinare e trascendere l’atrocità.





Palestina, 2002

Una sorta di muro, cinque massi di pietra squadrati occupano , riempiono la visuale in primo piano. Blocchi massicci sullo sfondo d’un paesaggio desertico, arido, brullo, disseminato di sassi, pezzi di pietra, schegge, frammenti di rocce caucasiche sgretolandosi in mezzo alla terra arsa, simile al suolo di un paesaggio vulcanico. Il muro abbattuto, aperto, i massi tolti lungo il cammino per metà della barriera, da quel lato la strada si libera, s’apre come uno scorcio a perdita d’occhio verso l’agglomerato della colonia abitata sullo sfondo. Un velo disteso , in plastica dato, dal vento portato, si lascia cullare, accarezzare dal suo alito lieve prima di adagiarsi, deporsi, trasparente al suolo per aderire alle sue rocce. Sullo sfondo un nucleo isolato simile a roccaforte inespugnabile di case, costruzioni in pietra dura ergendosi in mezzo alla desolazione rocciosa del deserto, isola fortificata, esistente,
resistente in mezzo alla terra brulla di Palestina.  



                                                                                                            
Ombre, silhouette nel buio, il nero dato in contrasti folgoranti di giorno-notte, luce- tenebre. Immagini esacerbate da tali contrasti chiaroscurali seguono il tracciato della luce iscrivendosi sui volti dal fondo all’oscurità dove é immersa tutta la realtà circostante.
Un individuo s’avvicina a un edificio dell’esercito israeliano avanzando per essere interrogato. Gli uomini in uniforme come ombre, forme oscure, ingigantite, senza volto, emergono nel controluce dal profondo chiaro-scuro in cui si trova immersa la foto. Solo la figura dell’uomo appare avanzando dal fondo per essere giudicato, le braccia aperte, i palmi volti verso l’alto, disarmato avanzando verso quel punto netto di luce, Dies irae, il giorno del giudizio, apocalittico, ultimo come vuole il titolo dell’esposizione, andando verso il centro nodale della foto dove si concentra il fulcro visivo del conflitto.

Un uomo palestinese abbraccia in primo piano la madre d’un altro morto nelle operazioni di guerriglia terrorista contro Israele a Gaza. Nell’immagine l’abbraccio tra i due é visto di profilo, i volti coperti nella stretta, inammissibile, irrivelabile all’obbiettivo, al loro posto copricapi, uno popolare in tela iuta tipico dei gueriglieri palestinesi, l’altro di stampo femminile, intessuto con un fiore a lato. Sullo sfondo, sulla parete nuda, spoglia della casa di un’immensa desolazione il solo volto visibile é quello del leader della brigata dei “Martiri di Al Aqsa” istigatore della serie sanguinosa degli attachi terroristi. La morte del singolo, qui, sembra rientrare all’interno d’una logica ferrea indotta da una causa comune: sacrificio volontario, auto-generato, auto-legittimato in una guerra infinita, distruttiva, senza più volto.  


Membri di brigate estremiste palestinesi in un campo di rifugiati a Gaza. Volti completamente coperti, occultati da maschere mimetiche ne cancellano i tratti come la loro umanità lasciata fuori, in un prima, in un altrove inimmaginabile in questo stato di lotta apparente là dove drappi in tessuto o bende per lo più scure avvolgono completamente le figure. Volti cancellati, scomparsi, occhi rilucenti nelle tenebre, brucianti di rabbia o di vendetta, armi alla mano, ripresi in nascondigli serrati, in posizione di vedetta, di guardia, d’attesa, in stato di minaccia, d’urgenza, d’allerta;
 detonazione di terrore celato sotto l’apparente facilità degli atti. Volti bendati, nascondigli nelle tenebre, vediamo mani che allacciano fili, tendono meccanismi a esplosione, trappole, piccole imboscate al quotidiano, armi puntate, tese, in stato d’allerta , di chi procede o schiva un attacco, in stato di guerra dentro, di guerra perpetua, infinita, senza volto, introiettata nella figura, come nell’attitudine, nella posa degli sguardi.

Graffiti della stella di David lasciati da soldati israeliani sul muro d’una casa palestinese al momento d’un incursione a Janine. Stella di David lasciata come iscrizione violenta, in sbavatura intenzionale a vernice spray andando a macchiare, a rigare, a imbrattare tutta la lunghezza della parete in colature irregolari di vernice informe, in zone di coagulo, in grumi, punti dissecati di materia e loro colata simile a sangue impresso attraverso tutta la superficie della parete.




 
Janine 2002, una madre di fronte alla morte del figlio, ucciso in seguito a un’incursione dell’esercito isrealiano. L’immagine é affollata dell’accumilazione di volti e corpi sfuocati, irriconoscibili nella defocalizzazione intenzionale riempendo in tridimensionalità, tutto lo spazio. Il volto della donna in primo piano é rivelato, sorpreso in una posa estatica, nel superamento di sé, nel dolore del ricongiungimento ultimo all’ immagine del figlio in una posa fortemente sacralizzata rinviando all’iconografia religiosa, potremmo dire ai volti di Maria e Maddalena ai piedi della croce al momento della passione di Cristo o ancora ai volti pasoliniani filmati nel Vangelo secondo Matteo. Altro volto accanto a lei in una sorta di opposizione in oscurità, la bellezza, il potere di evocazione implicito all’immagine emergono nel momento in cui l’avvenimento attraversa la soglia di realtà per entra nell’ordine del figurale.

Palestina 2000, strada che costeggia la zona-frontiera tra Israele e Palestina.
C’è un sentiero di terra battuta tracciato, aperto tra i cumuli di macerie e ferraglia lasciati dai bombardamenti, di rottami e pezzi d’edifici, di forme precedenti in materiale duro perlopiù  esplose _ ferro, acciaio, cemento, pietra_ poi sterpaglie di vegetazione infiltratesi qua e là attraverso. Dunque, c’è questo sentiero aperto, fattosi strada tra i detriti della zona frontiera tra Israele e Palestina. Cumuli di detriti esplosi ergendosi ai suoi lati disegnano lo spazio, la sola realtà visibile, tangibile qui, la sola linea di fuga dove conduce lo sguardo, letteralmente contornato e sopraffatto da tali pezzi di cose ammassati alla deriva: accumulazione di materia pesante, resti ferruginosi e sterpaglie. Diviene metafora d’un infinito di guerra riattivata nel tempo come condizione inalterabile di tale realtà, guerra come esperienza interiore, illimitata e atemporale in mezzo  al quale iscrivere la sola traccia- visibile qui.

 
Immagine di Gaza, 2009.
Città roccaforte dalla costruzione-carcassa in cemento nudo aggrappata coi suoi edifici grigi al suolo roccioso simile a un isolotto fortificato nello squallore devastante del paesaggio. Trasversalmente in primo piano una barriera di terra si erge simile a muro di polvere e fango, sabbia e acqua solidificata; appare come una banda di terra rispetto alla città in lontananza sullo sfondo, una costruzione che taglia e separa, isola e divide, sospende e condanna il territorio attraverso un muro di fango. Opera come un’intrusione spaziale, un’imposizione ideologica, un’occupazione illecita di territorio, la presa di potere di una parte e la ritorsione violenta dell’altra, lo spostamento, l’attacco e il contro-attacco. Piante irte nate su quella terra brulla si ergono come il segno, la condanna della devastazione che esso porta.

 
Iran 2009
Cimitero dei Martiri aTeheran, alla commemorazione del trentesimo anniversario della rivoluzione iraniana.
Una donna é ripresa in controluce in irradiazione estrema da una sorgente luminosa che s’apre misteriosamente alla sue spalle da segreta provenienza; si riversa come un varco, uno vortice irradiante dietro la figura ravvolta nel velo nero su uno sfondo reso opaco dal grigiore del fondo fotografico.  Dunque la luce cade da un’origine misteriosa, rimbalza, piomba in diversi punti sulla figura, sul suo volto reso irriconoscibile, preso in questa irradiazione che ne acceca, abbaglia il volto fino a renderlo macchia luminosa contro il manto nero che l’avvolge.
Stesso luogo, riprese in primo piano, sono queste figure ieratiche, i volti d’una purezza assoluta nel contrasto tra il pallore della pelle, delle mani, le sole parti del viso scoperte e la veste, il velo nero che ne avvolge e nasconde completamente i corpi fino ai piedi. Sono, ancora una volta, le donne piangenti ai piedi della croce, nella figurazione della crocifissione del Cristo. Sono figure che, colte con tale immateriale bellezza, rinviano all’iconografia sacra nelle sue infinite versioni reiterate dalla nostra tradizione occidentale. 

Come in tutta l’opera fotografica di Pellegrin, l’urgenza di testimoniare, il dovere di documentare riescono a fondersi con la trasfigurazione estetica dell’atto fotografico, nel passaggio producendo immagini dalla profonda risonanza etica e poetica. Le stesse appaiono andare alla radice del fatto o dell’istante decisivo da esso generato, alla ricerca più del silenzio dell’immagine, d’una sottrazione significante che d’una presenza documentaria imposta ad ogni costo. 






 

[1] Bruce Mau, « Special, extra, mysterious, magical, immesurable » dans Fashion Magazine, Silvana Editoriale, 2010 
[2] Ibid., Mau
[3] Ibid., Mau

domenica 13 maggio 2012

Berlino 2009 « Scratches » ,Dominique Auerbacher, (Maison de la Photographie, Parigi)






 « Il giallo dei tram, il rosso dei treni o dei metro, il blu della signaletica, il verde e l’arancio delle infrastrutture urbane. A Berlino, i colori vivi ritmano un tessuto urbano destrutturato, interrotto da cantieri industriali o  da spazi in costruzione, attraversato da vie tramviarie invase di vegetazione”[1].








Le immagini sono riprese attraverso le superfici graffiate, le vetrate scritte o incise di segni, graffiature, graffiti dei trasporti pubblici berlinesi che attraversano giorno e notte il tessuto della città.  Ci sono rigature intenzionali, lettere o iniziali di nomi, "date incidenti", date scritte simili a stringenti punti di non-ritorno nel tempo e nello spazio,
punti di incisione iscrivendo l’unicità d’un avvenimento e  insieme la sua perdita nel passaggio che lo rende segno, indice, traccia che si destina, scorre come questi graffiti sui vetri cancellando la propria  provenienza, sotto gli sguardi di chi li osserva, attraverso le strade, sui muri della città. 
All’origine erano messaggi in codice, dichiarazioni d'amore o di guerra, "mot de passe" come messaggi segreti, accidentali accumulazioni di lettere e simboli  cifrati, incomprensibili per noi a distanza, decodificabili soltanto da coloro cui erano destinati; allora portatori di un valore significante, 
sono poi divenuti segni, tessiture di lettere o schermi coprenti che occludono e lasciano passare lembi o parti dello spazio metropolitano, la tela di fondo d’ una certa visione del presente.

“Scratch”, termine proveniente dall’ambito della cultura popolare underground, dalla musica hip hop,  é l’atto di manipolare con gesti rapidi e incisivi la lettura d’un disco in vinile producendo, come l’onomatopea evoca, il suono stridente di punte dure fatte strisciare su materiali abrasivi simili a  queste iscrizioni forzatamente incise sulle superfici vetrate.
 “ A Berlino nella primavera del 2009 fui istantaneamente colpito dalla bellezza di queste accumulazioni d’acronimi, di segni e gesti incisi sui vetri dei tram simili a un’ action-painting sulla tela di fondo della città in movimento”[2]
 Siamo nel tragitto, nella posizione destabilizzante di qualcuno che circola attraverso la metropoli, che guarda, seduto o in piedi, trasportato e auto-portato, l’attenzione in stato d’allerta, lo sguardo risvegliato da una quantità di suggestioni inimmaginabili: sui vetri sovrapposizioni di colori coagulando a macchia, stralci di pubblicità, pezzi d’edifici, reticoli di linee orizzontali e verticali incrociandosi in qualche punto lontano al di là del nostro sguardo, linee diagonali che tagliano l’orizzonte, silhouettes et riflessi d’individui nella distopia delle linee che li abbozzano, passaggi rapidi e costanti di passanti, passeggeri.
 Come un potenziale di immagini in movimento, esse sono costruite sulla dinamica di ritmi, intervalli e velocità differite-differenti, percepite in uno spazio di proiezione comune, per una particolare forza d’espansione, di  rinvio e rimando delle medesime: tale la luce nel gioco tra trasparenze e opacità, tra cancellature e iscrizioni, o le singole soggettività che cominciano a entrare in risonanza, a accordarsi in una vibrazione visiva comune.










Il graffio su vetro diviene graffito, cio’ che scalfisce, intacca, riga una superficie dura, come si lacerasse la pelle con un’unghiata, 
lo sfregio d’una linea partita a propria guisa per qualche altra direzione dalla mano di chi la stava tracciando, poi tante altre sovrapponendosi a nugolo, a macchia, a massa. 
Con una punta incisiva rigare mettendo allo scoperto il sottostante strato di vernice; c’é il rumore d’un gesto assordante, lo stridere di qualcosa di fastidioso, prolungato e eccessivo, l’interferenza sonora che si produce come un rumore di fondo, sordo nella durata. 
C’é il gesto che riga, intacca, come il fastidio del non poter vedere nettamente, limpidamente quella realtà là fuori come vorremmo fosse se non ci fossero questi specchi coprenti, deformanti, limitanti impedendo la sua piena presentabilità.

Se la visione é disturbata, deturpata o occclusa, allo stesso tempo essa dà il senso di un posizionamento all’estremo, al limite, in negativo alla possibilità di vedere quella realtà,
in una non-neutralità assunta rispetto ad essa. Questi vetri spessi di rigature, di segni illeggibili, anonimi, codificati, forse all’origine messaggi in codice segretamente scritti perché giungessero a destinazione, perché raggiungessero un proprio destinatario- le iniziali dei nomi dei loro fautori, messaggi d’amore o di rivolta- ora segni insignificanti, espropriati d’ogni appartenenza, d’un qualunque messaggio, sono presenti nella loro materialità singolare, nella loro “intrusione sintomatica”[1], della loro insistenza d’affermazione come incidenti, incidenze sulla superficie.

Illegibili tuttavia incidono, segnano, riempono la pagina-vetro, la superficie-riflettente costituendo una sorta di schermo, di piano mediano, di visione mediata a una presunta innocente, immediata realtà là fuori. O forse é quella stessa realtà a non poter essere guardata come tale, innocua, neutrale, a non poter non essere intaccata, marcata all’occhio di chi guarda e allora si ha bisogno di questi schermi, supporti devianti per mostrare come quella visione non puo’ essere, deve non essere.


Lo statuto rappresentativo della città come soggetto lascia il posto al lembo espansivo, al fondo dell’infigurabile visivo, alla superficie fotografica segnata, scritta, cancellata, ridipinta o graffiata, sbarrata fuori, barrata dentro. Contro la chiarezza di figure e forme essa domina come fondo, lembo di realtà rigata, intesa come incisione di linee accidentali dandosi a massa, o nella cancellazione significativa di parte dei loro tratti.
L’incidente, tale la linea che sfregia il vetro, l’unghia che graffia la pelle, é singolarità, “intrusione”, “stato sintomatico”[2] della fotografia, stato precario, parziale o accidentale d’una certa visione di realtà che irrompe, occlusa o parzialmente cancellata rendendo irriconoscibili parte degli oggetti occultati rispetto ad essa.

Esiste una voluta caoticità, parziale brouillage nel percepire questo presente berlinese come se fosse il risultato d’una camera mobile dove la città é vista per scorci, in movimento attraverso una serie di tagli e re-inquadrature successive, cinematograficamente divenendo altra nel continuo dello sguardo del fotografo in mobilità.
Qui la strada é vista attraverso il vetro infranto d’un proiettile, là i volti dei passanti sono ricoperti da colate di bianco date a piene braccia per colpi di spatola in una quasi simulazione di action-painting, qui il gesto di fisicamente graffiare, letteralmente rigare il vetro diventa l’incidente che irrompe, il segno energeticamente iscritto su una superficie segnata.

Questa allora la percezione della realtà berlinese d’oggi per il fotografo: mentre gli oggetti, i corpi, le figure sembrano eclissarsi in secondo piano, a poco a poco divenendo sempre meno leggibili, chiari, determinanti alla presentazione fotografica, essi lasciano spazio alla superficie-schermo-graffito, al segno e gesto che lo porta, a macchie di colore d’un verde metallico sullo sfondo, d’un rosso elettrico di insegne o t-shirt colorate, oppure a lettere espansive, incise a forza sui vetri, tracce che si ingigantiscono divenendo vere e proprie astrazioni pittoriche, tale l’intrusione d’una pura plasticità nella fotografia.
Strati opachi di materia irrompono come questi  graffiti sfregiati in superficie oppure lasciandosi colare a macchia in rare irruzioni di zone colorate. 







[1] Dominique Auerbacher, Interview (par Julie Aminthe) sur www.paris-art.com
[2] Ibid., Auerbacher1] Cfr. Georges Didi-Huberman, Devant L’image, p. 307, Edition du Minuit 1990
[2] Ibid., Didi-Huberman