giovedì 6 dicembre 2012

Giuseppe Penone, "Alpi Marittime" (fotografie e altro, Mambo, Bologna)




Giuseppe Penone, (Scritti, 1968-2008)

“Il fiume trasporta la montagna, è il veicolo della montagna. I colpi, gli urti, le violente mutilazioni prodotte dal fiume sulle pietre più grandi con l’urto di quelle più piccole, l’insinuarsi dell’acqua nelle sottili congiunzioni, nelle crepe staccano delle parti di pietra e sbozzano quella forma che con un continuo lavoro di piccoli e grandi colpi si va lentamente formando perché il senso del fiume è quello di rivelare l’essenza, la qualità più pura, più segreta, la maggiore compattezza di ogni singola parte, forma che preesiste, è presente in tutte le pietre ed è la qualità d’ogni singola pietra. (..)E’ l’essere fiume la vera scultura di pietra.”

“Secondo me gli elementi sono fluidi, anche la pietra è fluida, una montagna si sgretola e diventa sabbia, è solo una questione di tempo. La nostra durata di vita permette di dare valori di “duro” e di “molle” ad alcune cose mentre il tempo le annulla. Facendo il lavoro della scultura, che è basato su un elemento duro che si avvicina a uno morbido, come lo scalpello al legno, sono costretto a riconsiderare molti di questi aspetti.”

 



Alpi marittime: La mia altezza, la lunghezza delle mie braccia, il mio spessore in un ruscello” (1968, serie fotografica)


Dentro uno stagno vuoto, dentro una cornice-quadro rettangolare con impresse le estremità del suo corpo, misura i suoi lati, i suoi limiti, l’estensione delle sue braccia, mani e gambe come matrice lasciata, impressa dal suo corpo sul letto di pietre del torrente. Più tardi, l’acqua scorrerà fino a colmare il vuoto dell’impronta della figura ora scomparsa proseguendo il suo cammino nell’infinità del proprio corso.
Immagine d’immobilità e di movimento insieme, la scultura secondo Penone è “l’essere fiume” della pietra, fatta della stessa materia di cui è fatto il fiume, della stessa acqua con i suoi detriti, pietre e scaglie, pulviscoli di terra e d’ossi, minerali, polveri e sassi che trasporta partendo dalla sensazione della materia prima della nostra “separatezza” d’essa, prima della figura, dell’invenzione della forma e del linguaggio . Esiste, secondo l'artista, un rapporto particolare della materia al tempo che “rende fluido il solido e solido il fluido”; la scultura è già là, prima d’ogni azione volontaria esercitata sulla materia per quello che d’essa emerge in questo suo contatto inesausto con il mondo, con le forze dell’esistente, lavorata dalla luce, dal passaggio delle stagioni, dalla corruzione degli agenti del tempo sulle forme. Si tratta, in primo luogo,di cercare una via d’accesso verso questa qualità fluida, mutevole e universale di cui tutti noi siamo fatti in qualche misura, da qualche parte come condizione primaria per iniziare a trattare la materia.





E’ dentro una vuota scatola rettangolare simile a cornice scavata nella terra e ricoperta di sabbia ; la stessa è ora sommersa a raso d'acqua e attraversata da piccoli flutti, guizzi e getti fino a ricomporsi in una superficie riflettente, specchio semi-immobile  tutt’uno con la linea di vita della vegetazione esterna di cui si fa riflesso.
Palate di terra sui bordi per togliere, scavare, portare via, realizzare l’incavo d’una forma dalla quale far emergere l’impronta primordiale del fiume e poi questa traccia lasciata dal corpo nel luogo del suo esistere come lo scavo, il solco del suo destino riassorbito qui da un’apertura più grande, più vasta di forze in gioco risvegliate dall'immanenza della natura.

Cosi’ l’artista inizia a portare via, spalare lontano cumuli di terra e fango impregnati d’acqua, melma densa e fangosa, impasto di terra e foglie, sassi e schegge di legno per lasciare libero corso “all’essere fiume” della scultura, allo scorrere delle acque: ruscello e torrente, ciottoli sul suo letto, lungo il suo corso, nel suo giaciglio naturale, li’ dove si era temporaneamente fatto una dimora, scelto un luogo per riposare con i suoi quattro arti estesi, espansi, misurati dalla lunghezza delle sue braccia.
Sopra la cornice del quadro tutto è lavato via, portato dallo scorrere infinito delle acque, dalla corrente naturale del suo corso.





Giuseppe Penone, “Alpi marittime: albero, filo di zinco e piombo”, (1968).
“I miei anni legati a un filo di rame in attesa di un fulmine”. Sono Impronte di mani su un tronco inciso, stretto, circondato da un filo di rame, su un fondo ghiacciato di montagne e neve intorno in attesa di un fulmineo risvegliato, folgore o folgorazione di luce, trapasso verso un’alterità d’esistere.




Alighiero Boetti, “Non parto, non resto”, (1984); sono in questo stato di non-essere, in questo stato di non essere mai partito, di non essere mai rimasto, in questo diagramma irrisolto tra due metà seriali inconciliabili, quasi identiche, non-vere, non-false, in questo stato di due metà logiche che confutano l’un'altra senza mai essere totalmente una, completamente l’altra. Sono su questi guizzi di nero inchiostro, sul diagramma di fondo della mia esistenza, testura simile a sabbia dipinta di nere onde, diagramma cartesiano con ascissa di lettere d’alfabeto e ordinata di variante libera lasciata alla tessitura possibile della mia esistenza.




Hidetoshi Nagasawa, “Il muro”, Come secchio di colore limpido, tenue, pastello buttato lì contro quella barriera a zig-zag di muro irto come sbarramento, limite, linea ultima d’arresto della parete per renderla umana, avvolgente, d’una vibrazione che calma e rassicura, distesa con spatola e pennellate ampie su campiture irregolare, gettate con foga contro una barriera piatta, bianca fatta di assi di legno a indelebile incastro e sottili lamelle, lamine dorate a ricoprirla; li’ gettata e rimasta in spazzi vivi, in colpi di spugna gioiosi e irregolari per ridare vita, a quel limite ultimo d’uno spazio, d’una atrio, d’una parete troppo immobile, bianca e regolare.










     

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