L’abito
è, senza dubbio da sempre stato il riflesso di un’epoca e, insieme, testimone dell’evoluzione
culturale di una società da un secolo all’altro. Ancora, l’abito ritorna al
centro della rappresentazione visiva nell’arte, scolpito o dipinto nei grandi
ritratti da parte dei più noti artisti
dal ‘700 fino all’epoca moderna nella mostra attualmente in corso ai
Musei san Domenico di Forlì “L’arte della moda”. E’ ciò che coinvolge in
qualche modo il corpo nelle sue forme di rappresentazione, là per dissimulare o
nascondere, alludere o apertamente mostrare, incarnare simboli di potere, lo statuto
e, infine, l’appartenenza a una classe sociale. All’ingresso della mostra una tela del
Tintoretto è posta in maniera emblematica all’introduzione del percorso: “Atena
ed Eracle”(1543). Una donna ed una dea si sfidano al telaio nell’arte raffinata
della tessitura prima che Eracle venga trasformata secondo la leggenda per mano
della dea in ragno simbolo del tessuto sul
telaio ma anche del testo metaforicamente visto
in senso barthiano come trama di lettere e parole nel gioco di rinvii
tra significante e significato nel linguaggio.
L’abito, a sua volta, nel percorso della mostra appare dall’Ancien Regime ai giorni nostri come
il complesso intrecciarsi di trama e tessuto assumendo connotazioni distintive
e simboliche per ogni epoca, ciò che noi definiamo in senso ampio moda.
Rintracciando la storia della sua evoluzione attraverso le rappresentazioni che
ne ha dato l’arte dal secolo XVIII ad oggi ripercorriamo il processo che ha
condotto il corpo, soprattutto quello femminile, verso la modernità, vale a
dire la liberazione della donna dagli
stereotipi e le rigide convenzioni sociali sulla via dell’individuazione, della
libertà o dell’espressione in senso proprio.
Come
suggerisce il sottotitolo alla mostra con i suoi duecento quadri, numerosi abiti
e la ricca selezione di accessori “Le età dei sogni e delle rivoluzioni,
1789-1968” si rifà proprio a due grandi rivoluzioni, quella francese e quella
femminista/studentesca che fanno da spartiacque all’inizio dell’epoca borghese
e al suo declino intaccato dall’emergere dei nuovi movimenti sociali nelle
generazioni post sessantotto. Si parte dal passato monarchico della corte
francese dove la moda_ Versailles fulcro di ogni stile_ opera come strumento di
comunicazione al centro della società nobiliare e delle sue tacite convenzioni
di classe o di privilegio sociale; l’abito mostra i segni della ricchezza e del
potere rispetto alla gerarchia in atto ed è codice tacito quanto immediatamente
leggibile, implicitamente condiviso che
permette all’individuo di farsi vedere ed essere visto, classificato o
stigmatizzato in quella società.
Tuttavia
la moda nel corso dei secoli non è stata solo uno strumento del potere,
l’espressione e la diffusione dei suoi modelli quanto, anche in epoca moderna, un
veicolo di rinnovamento, un luogo di reciproca contaminazione con l’arte dell’avanguardia novecentesca
e perfino uno strumento di contestazione
giovanile e di rottura per le generazioni post-sessantotto. A partire dal
ventesimo secolo molti stilisti traggono
ispirazione dalle opere d’arte astratte o cubiste oppure in una loro rilettura personalissima e ironica dell’abito
ritratto nel passato. La moda passa, in definitiva, da statuto simbolico del
sistema sociale esistente a via di ricerca e di espressione creativa, d’arte
appunto, nel lavoro di molti creatori moderni; e, tuttavia, inevitabilmente, lo
stile si fa anche oggetto di consumo nella società capitalista e industriale di
oggi replicato in catene di produzione sempre più estese e globali nel mondo.
Specchio
e insieme fenomeno di costume della società, la moda nella mostra forlivese
appare nel passaggio fondamentale dal regime monarchico francese ai nuovi valori
egualitari e repubblicani affermati con violenza dalla Rivoluzione per tradursi
poi nello stile impero in età
napoleonica. Inevitabilmente, essa finisce per coincidere con la figurazione
del ritratto femminile dallo stile neoclassico allo spirito e alla sensibilità
romantica all’inizio del XIX secolo evolvendo poi nella visione simbolista o
impressionista di fine ‘800. Il “Ritratto di Maria Antonietta” (1783) di
Elisabeth Vigée Lebrun, esposto al Salon nel 1783 si pone in aperta rottura
con lo stile dominante e lussuoso della
corte francese mentre la figura di Maria Antonietta appare già nella propria
epoca come un’icona di stile precorritrice di mode e tendenze in grado di imporsi
nell’intera società francese. La regina indossa un abito bianco di mussolina dalla
foggia semplicissima e i colori chiari denominato “Chemise à la reine” su un cappello
in stile campestre in assenza di parrucca o altra acconciatura preannunciando
con eleganza discreta e malinconica il declino di un’epoca come di un ordine
sociale ormai prossimo al proprio irreversibile tracollo. A partire dall’ottobre
del 1793 l’Assemblea della Convenzione decretò “la libertà totale di
abbigliamento secondo “la volontà individuale” mentre i vecchi codici
d’abbigliamento monarchico vennero d’un sol colpo spazzati via dall’ondata
violenta e inarrestabile della Rivoluzione. Il direttorio e l’impero segnano
fondamentali momenti di passaggio nello stile e moda femminile là dove il
revival dell’antico, le tuniche classiche derivanti dalla sobrietà statuaria greca
si impongono con nobile semplicità mentre le dame cominciano ad indossare abiti
dritti di mussolina bianca senza più sovrastrutture. Del 1808 è il ritratto di
Josephine prima moglie di Napoleone magnificata
nella “robe à chemise” dalla vita alta e l’evidente scollatura attenuata
dal lungo scialle rosso che le cinge la vita scendendo come strascico dalle
spalle ai piedi. Tale revival neoclassico rendendo il corpo fluido e libero
sotto il seno scoperto e il busto privato di impalcature permane come modello
dominante in epoca imperiale riflesso anche nel gusto architettonico neoclassico
dell’epoca. Artisti e creatori contemporanei come Richard Galliano per Dior non
hanno esitato a ispirarsi a tale epoca con ironia e originalità rileggendo nel
contemporaneo suggestioni neoclassiche nel revival, per esempio, di una tunica
bianca e abito eccezionalmente accostato nella mostra all’originale.
L’età
romantica poco dopo la restaurazione in Europa comporta un oscillazione del
gusto cui corrispondono gli ammalianti ritratti di Francesco Hayez mentre la
figura femminile appare come una silhouette fragile e delicata in un entourage
sobrio e famigliare, spesso avvolta da un indistinto pudore o da una qualche vaga
inquietudine romantica. Formalmente, nell’abito,
il punto vita si riabbassa, ritorna il corsetto per il busto e la gonna vasta
disegnandosi in triangolo capovolto fino ai piedi. I ritratti femminili molto
più popolari ora circoscrivono un mondo borghese che si impone con sobrietà,
rigore ed un eccesso di forma pur sottendendo nel ritratto a una qualche
dimensione intima e celata del personaggio. Con l’affermarsi del nuovo modello
borghese il corpo femminile diviene sempre più “un segreto che le vesti fanno
il possibile per mascherare” nell’abbondanza di tessuti, nell’eccesso di
decori, nelle rigidità delle forme che sempre più coprono e serrano la figura
come la libertà del suo manifestarsi. Vestirsi, allora, è in quest’epoca
l’obbligata e costante correlazione tra
un soggetto sociale e uno intimo “personale”,
che deve, tuttavia, assumere una maschera, una prospettiva riconoscibile e
codificata in quella precisa realtà sociale.
Belle epoche: Boldini, De Nittis, Tissot
De
Nittis attratto dalla raffinatezza aristocratica e alto-borghese della Belle
Epoque dopo essersi stabilito nella capitale francese rappresenta giovani donne
protagoniste della vita mondana parigina
là dove la sua pittura subisce dall’antecedente dei macchiaioli il forte
impatto impressionista fissando la mondanità, la natura e la vita in immagini vivaci
e iconiche della Belle Epoque. In “Fior d’autunno” per esempio, una giovane
donna raffinata e ammaliante appare in
un abito scuro lungo fino ai piedi, avvolgente intorno al suo corpo ma
serrato fino al colletto nel pieno
riflesso del giorno; là a catturare la realtà nel suo aspetto fuggevole e
transitorio come la luce evanescente del giorno .
Nelle
tele di Boldini sono ritratte le fragili muse dannunziane come la Marchesa
Casati , donne sublimi e di ineguagliabile fascino di cui si trova similitudine nelle figure femminili dell’ultimo
simbolismo, nella secessione di Klimt o nell’estetismo di fine secolo. Figure diafane e esili ma anche dotate di
personalità eccentriche e dall’eleganza imprescindibile incarnano le
inquietudini sociali e psicologiche dell’epoca, nonché la transizione femminile
verso la modernità agli albori del nuovo secolo.
Avanguardie, moda e arte
“Si
pensa e si agisce come si veste”, scriveva Giacomo Balla in uno dei manifesti
che a partire dal 1909 scandiscono l’avanguardia
futurista per stravolgere e rinnovare ogni aspetto della vita e dell’arte,
compresa l’idea di moda all’inizio del ventesimo secolo. In “La bionbruna” di Balla assistiamo a una
scomposizione dinamica della figura femminile, in particolare la messa in
movimento delle sue linee e forme per richiamare la nuova estetica sensoriale
del colore, della mobilità e del flusso contro la rigida staticità borghese. Fortunato
Depero, ugualmente, con tale impeto innovativo disegna dei gilet dai colori
sgargianti nell’ottica del movimento futurista coniugando forme geometriche a
precisi ritmi cromatici. Altre suggestioni nella scomposizione della figura o
del ritratto arrivano dall’estetica cubista e astratta dell’arte moderna ( Leo
Gestel, “donna con i fiori”) mentre negli stessi anni tra le nuove generazioni
Coco Chanel libera il corpo della donna dalla dittatura dell’abito o delle mise più convenzionali introducendo l’eleganza
di linee fluide ed essenziali per un
nuovo stile che abbraccia leggerezza e modernità. In definitiva, nel corso del
‘900 la commistione tra artisti e moda si fa sempre più intensa là dove gli
stilisti si ispirano ad opere d’arte o ne traggono suggestioni deducendone
simboli della propria epoca. La moda, d’altro lato, nel gioco delle parti,
sempre più si vuole forma d’arte oltre che specchio della contemporaneità, lo
stile modo di gettare il proprio sguardo sul mondo similmente al cinema o alla
letteratura mentre a partire dal secondo dopoguerra si impone con forza il
riferimento alla creazione italiana del “Made in italy”. Per concludere l’excursus
tra arte e moda nel ‘900 è d’obbligo il riferimento all’esperienza dell’ Informale
in Italia con la sua polisemia di tracce
e scrittura visiva o materica sulla tela che influenza la creazione di diversi stilisti
italiani dello stesso periodo. In particolare la creatrice di moda Germana Marucelli nel 1969 partecipa all’esposizione
milanese curata da Gillo Dorfles e Giuseppe Ungaretti; là, i disegni unici dei
suoi abiti ispirati all’arte informale pongono l’attenzione su linee, colori e
superfici sperimentando con le medesime per traslare tali possibilità espressive
dall’arte all’abito o al design di oggetti mentre Ungheretti riconosce nelle sue creazioni “la fugacità della grazia” tradotta attraverso
la moda ne “l’infinito fuggitivo della sua
poesia”.