sabato 23 marzo 2013

Mario Ceroli “Faccia a faccia” al Mambo di Bologna ( dicembre- aprile 2013)







Un solo corpo architettonico e sculturale nello spazio immenso investito dalle opere di Mario Ceroli al Mambo di Bologna da vita a un attento gioco di rimandi tra le sculture in legno dalle proporzioni smisurate, i quadri e gli oggetti in diversi materiali: metalli, terra, polveri, carta o altro. Le installazioni creano uno spazio-opera totale, spazio inventato dall’artista come un percorso performativo, scenografico per così dire, riempito di differenti momenti o esperienze plastiche o pittoriche che entrano in dialogo tra loro, a partire dalla loro intrinseca fisicità, interagendo oltre il tempo cronologico della loro prima provenienza. Come in una grande opera in situ, Ceroli mette in scena il suo lavoro in senso performativo per quello che diviene in questo luogo portandosi entro la sua verticalità dominante, antro centrale scavato nella profondità spaziale d’una ex fabbrica del pane di cui la galleria conserva ancora l’ossatura, lo scheletro originale e l’altezza smisurata.


Tale spazio-cattedrale dove gli oggetti, le opere silenziosamente entrano in contatto tra loro vuole essere pensato come luogo di confronto, di dialogo o forse, semplicemente, di interrogativo aperto posto giustamente in questo “faccia a faccia” metafisico evocato dal titolo dell’esposizione tra la finitudine del soggetto e la sua duplicazione nel pensiero, nel linguaggio verso un infinità che può essere invocata, immaginata, pensata o meglio qui posta come un interrogativo di linee che s’aprono verso l’alto senza saperci dare risposta certa sulla loro direzione o provenienza. Dominano la verticalità di scale e altri oggetti sospesi, tendenti verso l’alto, l’ altrove come la ricerca del senso, dell’umano, del divino, del sacro forse a partire dalla pienezza sensuale della materia, dalla carnalità del mondo, il legno scolpito in primo luogo.
Domanda inesausta che rimbalza come un’eco in questo spazio sacrale vuoto, ricerca, interrogativo aperto all’infinito piuttosto che affermazione sul senso e, ancora, inadeguatezza al qui e all’ora aprendo a questo varco, suggerendo questo passaggio verso un’ altrove come orizzonte, termine di raffronto metafisico.

Strutture verticali in generale, bandiere bianche d’un campo di pace puntate verso l’alto, liane attraversano lo spazio in diagonale, oppure sagome d’un mondo svuotato, planisferi, mappamondi, carte della terra viste come distese rilucenti ritagliate sulla superficie terrestre dall’esterno e a distanza. L’uomo di Leonardo, l’uomo al centro del cosmo per eccellenza, figurato nella sintesi essenziale, nella quadratura perfetta del cerchio, è fotografato come l’artista stesso disteso sull’installazione in legno all’ingresso della mostra; la figura guarda verso l’alto ma, come in altre sculture successive è posta dietro una rete, dentro una scatola-gabbia o inquadratura, visto in questa riduzione depersonalizzante di sagome a duplicazione o in contorni astratti oltre ogni singola incarnazione.
Ancora contorni esterni ritagliati nel legno di figure svuotate, astratte, spogliate d’ogni identità individuale non rappresentano l’umano ma lo interrogano, lo indirizzano, aspirano a ritrovarlo come la presenza del divino in loro percorrendo in senso metafisico questo viaggio dal pieno della materia- legno forma primaria, terra, paglia, polveri colorate-
in sinestesia nello spazio circostante e verso l’alto, verso questa altra dimensione evocata.


L’infinito nello spazio è verticalità, allungamento dove gli oggetti tendono verso l’alto, questo punto di fuga in altezza, invisibile a noi nel suo fulcro cercando apertura oltre i limiti stringenti dell’oggetto, del mondo verso una possibilità d’infinito, di qualunque esso si tratti, di per sé sacrale. L’infinito è già dentro lo spazio evocato, nell’uso di questo spazio spropositato, immenso, e nel mondo in cui le cose vi entrano a far parte, vi prendono parte attiva, performativa, partendo dalle possibilità intrinseche alla materia, vivente, prima, esperita nelle sue più piccole particelle fino al superamento della medesima: la ricerca del sacro, di un rapporto al divino come l’intangibile, il tutto cosmico, lo slancio all’ascesa, lo spirituale dischiuso dentro e a partire dalla materia.

Zoas è blocco di lettere in forma scultorea, tridimensionale dove il legno come materia prima si unisce all’archetipo lettera come scrittura che lascia traccia, parola d’una non-origine scritta, iscritta nel linguaggio come differenza significante, qui in forma di lettera-scultura. All’ingresso dell’antro centrale della galleria Zoas, come zoé, vita, restituisce il senso di un’unità ripresa dai quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco enumerati da una serie di parole scritte a grandi caratteri in legno in quattro quadrati rispondendosi l’un l'altro.
Aria: est, stelle, autunno, triangolo, argento, trasparente vento, bianco, acre
Acqua: ovest, rettangolo, freddo, luna, inverno, nuvole, ferro, udito
Terra: sud, tuono, quadrato, primavera, carbone, opaco, scuro , dolce
Fuoco: nord, sole, parole, cerchio, estate, caldo, amaro, oro, pioggia, rosso








"Progetto per la pace"

Trecentosessantacinque bandiere bianche, una per ogni giorno dell’anno, bandiere per conquistare la pace, per asserirla, decretarla, assicurarla, puntate su un supporto rialzato di sabbia, sventolanti al vento in tela chiara, semi-trasparente, alcune sporgendosi oltre, verso l’esterno, la maggior parte aggettandosi verso l’alto a nucleo luminoso, griglia combinatoria simile a foresta, monumentale ricomporsi d’un inno alla libertà tacitamente affermato.
Campi di cotone, cannucce al vento, drappi bianchi svolazzanti,
campi ricoperti di bianchi gabbiani, e ancora, una fitta spiaggia rilucente d’ ombrelloni, tessuti chiari semi-dispiegati in impiantazione di pace.



Raccoglitore di miele”, “alzabandiera”, “accordo dei quattro elementi”, “la battaglia” e “Cina” riempiono come performance-scultorea lo spazio di quest’antro smisurato in episodi separati ma connessi. Una lunga asta di legno taglia trasversalmente lo spazio come liana con una piccola figura umana arrampicandosi su quella per raggiungere un alveo coperto da filo spinato. Dietro, una scala in legno e ferro portando verso l’alto, verso un oltre illimitato, indefinito. Sospesa in mezzo al vuoto, indirizzandosi in una qualche direzione, forse verso un punto di fuga, un punto finale che esce dallo spazio reale e dunque non visibile nell’installazione, la superficie bruciante del legno è mediata attraverso l’elemento freddo del metallo in una visione forse onirica ma congelata lì in quello spazio vuoto, sospeso. Al centro sulla parete, “l’accordo dei quattro elementi”, un accordo che si vuole ritmico, musicale passa attraverso il suono tramite un unisono rigoroso immaginato per le quattro campane in lega metallica, pesanti, soppesate a diverse altezze da quattro corde sospese contro la parete: aria e terra al centro, acqua e fuoco in esterno. Quattro mondi con i loro pesi specifici, la loro carica gravitazionale d’ oggetti, ferro e corda appesi o sospesi contro la parete.




Al lato opposto della sala è l’installazione “la battaglia” ispirata alla celebre tela rinascimentale di Paolo Uccello “Battaglia di S. Romualdo”; qui un’armata di cavalli rifiniti, lavorati finemente in legno, simbolo di energia vitale ricomparendo ripetutamente nella tradizione pittorica occidentale e assi tra quelli frammiste danno vita a una scultura-installazione smisurata nata come addizione, incastro, composizione e rivolgimento in situ attraverso l’aggiunta di parti in legno. Sono grandi aste, bandiere sventolanti e colorate, musi, crini, criniere e cavalli, nel movimento evocato dalla battaglia, nel rovesciamento d’assi o di figure, nel rifacimento per multiple prospettive d’una stesso visione proveniente dalla staticità della pittura classica.

In “Cina” (1966) è questa schiera infinita di figure sagomate in legno, identiche l’un l’altra, reduplicate all’infinito, infilzate da un’asta comune come soldatini in schiera mossi da una volontà superiore in una marcia militarizzata, in una anonima avanzata collettiva nello spazio. Se l’immagine anonima e a ripetizione riconduce all’annullamento del singolo nell’ottica d’un regime, qui il probabile riferimento all’esercito maoista, il gesto scultoreo invade letteralmente lo spazio portando a uno sconfinamento del medesimo, giustamente a un superamento oltre i limiti della scultura cercando apertura nelle possibilità intrinseche alla materia legno in uno spazio percepito come vivente, indefinito, estendibile all’infinito, creato dalla presenza dell’oggetto materico e dal suo superamento in sinestesia con lo spazio esterno.









Il percorso parte dalla materia per arrivare all’alterità, alla sua metamorfosi o allo sguardo puntato oltre; radica il proprio infinito o la ricerca del medesimo come superamento del qui ed ora in questa materialità, sostanza prima delle cose, posizionandosi all’interno d’esse, partendo dal colore come stato primario della percezione e tutt’uno con l'oggetto per proiettarsi nella sua vibrazione luminosa al di là di quello.
Scanalature in zinco e terre colorate a riempire la grande installazione posta al suolo, al centro della stanza attigua in “le bandiere di tutto il mondo”. Sono tubi in acciaio di case simili a grondaie divise a metà e riempite come solchi di polveri colorate o d’altri materiali provenienti d’ogni luogo:
polveri di bianco-cenere, oro rilucente, ramato, verde smeraldo vivo, rosso rubino, giallo ocra-intenso, blu cobalto primo, viola porpora, nero non inquietante. Materie come sabbia argentea, piume d’uccelli, sassolini, pietre, schegge d’ ametista, verdi smeraldo in frammenti, paglia in filamenti, schegge di vetro, rotoli di pellicola ravvolti tra loro, pezzi di corda, tela iuta.



“L’amore per la terra” in fondo alla galleria centrale è calco, figura d’uomo nella terra incisa, intagliata dentro la terra con il suo impasto di paglia e cenere come lascito di sé impresso nel negativo del ritaglio. Là l’involucro pieno fa da sfondo all’incavo svuotato della figura.
La sua anima è forse partita altrove, svaporata, il suo corpo forse è già tornato alla terra , e la cenere è dentro la terra, separata rispetto a quella dal contorno ma ricongiungendosi, frammischiandosi ad essa. La figura in carne è bruciata, dissolta, resta l’impronta-cenere, la sua esterna corteccia lì lasciata bruciare al fuoco del suo eterno esistere, vivere o sopravviversi; la cenere si immischia al suolo, ritorna alla terra e lì resta impressa come stigmate, lascito.

Profili di figure in alluminio ramato camminano dietro una rete metallica, (“dietro la rete”); in altre versioni mani si intrecciano, si sovrappongono, di allontanano fino a diventare impronte delle medesime sollevate dietro la cornice di rete. In “Centouccelli” un uomo è prigioniero insieme alla propria ombra, sagoma nera di sé in controluce, di profilo posto a meditare in questo faccia a faccia con l'invisibile dentro una rete che lo isola in tre cornici-gabbie aprendosi l’una dall’altra come scatole cinesi.
In “Apologize Hiroshima” il legno è bruciato disegnandosi come quadrati di carbone sulla parete, superfici arse dalla combustione e terreni regolari, rigorosi reticoli, campi squadrati di morte con sbavature di nero fumo e una testa reclinata di profilo nel grido, il bilanciere al centro d’una sfera atomica esplosa.



Dunque ci sono figure anonime, ramate ripetendosi dietro le vetrine, recluse in ingabbiature di reti metalliche, in gabbie-cornici, in scatole cinesi, guardando all’esterno attraverso una rete di maglie esagonali, dietro una cornice metallica attraverso le sue fessure, i suoi rombi regolari.




Separatezza, prigionia, reclusione, passaggio interdetto, vista filtrata da rete a fessure romboidali; tela di ragno costruita intorno alla figura dal suo sguardo occlusivo, limitante, dal reticolo imprigionante della sua esistenza, della sua mente.


Contro quelli l’aperto, lo scorrimento, l’infinità dello spazio-mondo, la rappresentazione della terra come d’una superficie piana e rilucente in contorni in rilievo di continenti riemersi. Carte della terra, “planisfero” dal titolo di Ceroli con fogli-isole o penisole ritagliati in alluminio dorato sul legno colorato.
Parti del mondo in rilievo, terre sommerse riviste in superficie scintillante e dorata.
Contro il confinamento delle figure in gabbia sono le rilucenti aperture di queste estensioni su piano di carta orizzontale o le lamine dorate dei continenti sulla sfera terrestre.

In “Mare Nostrum” la carta geografica del bacino del mediterraneo è ridipinta come distesa blu acquarello, accartocciata in alcune parti come stralci di manifesto scollato, pervasiva, tuttavia, in questa sua tonalità celeste d’infinito. In “sopra di noi il cielo” , grande collage blu in granuli e frammenti di pietruzze, il solfato di rame del fondo diventa questa sabbia blu turchese costellata di polvere di vetro e lapislazzuli: cammino marittimo o rotta celeste, granuli dispersi al vento, carta del mondo rifatta in rilievo con aggiunta di pietre e polveri , l'ossidazione del rame in colori brillanti ab infinitum.







Nell’ultima sala ancora accanto alle multiple scale in legno appoggiate alla parete emerge questa scala in cristallo verde riflesso; ombre oscure, immense si profilano a partire dalle due minuscole figure in grigio impresse al suolo ma la scala trasparente, luminosa, profetica quasi, porta verso l’alto in questo dialogo aperto o interrogativo posto all’alterità, all’assoluto come possibilità impensata del pensiero.










mercoledì 6 marzo 2013

“Borderline, Artisti tra normalità e follia”, al Mar di Ravenna ( febbraio/ giugno 2013)












“Borderline” , dal titolo della mostra al Mar di Ravenna, diviene oltre le barriere spaziotemporali degli artisti e delle opere rappresentate, “zona di confine o di attraversamento”, linea incerta, mobile costantemente valicata e valicabile di tutte quelle esperienze artistiche dette “outsider” posizionandosi su questo limite, risvolto reversibile dell’essere o del pensiero tra l’interiorità del sintomo e l’esteriorità dell’opera. Interroga quella condizione umana o meglio psichica della modernità che si situa su un bordo fluttuante tra disagio esistenziale, del soggetto o del mondo, sofferenza psichica, malattia e creazione artistica. Da una parte nell’ esposizione collettiva sono rappresentate opere di artisti noti la cui biografia o lavoro creativo partecipa di questa condizione, dall’altra sono veri e propri autori “outsiders”, ai margini dell’arte ufficiale, esperienze artistiche poco conosciute nate nell’isolamento di luoghi di reclusione per malati mentali nella recente storia dal novecento. L’art Brut, ugualmente presente nell’esposizione, nasce proprio come forma d’espressione auto-didatta, solitaria e marginale, se vogliamo ingenua, avvicinandosi agli esiti delle arti prime o ai tratti dei disegni infantili. E’ approccio spontaneo, istintivo, irriducibile necessità interiore nata a lato dei movimenti e dei circuiti ufficiali, al limite non “educata”, non cosciente fino in fondo dei propri mezzi ma che riesce, tuttavia, a passare da semplice necessità, terapia o espressione di un’arte “folle” a arte fortemente visionaria, dal potere di rottura e di innovazione prodotta nel silenzio di tali luoghi asiliari.


Il percorso espositivo attraverso una miriade d’ opere e artisti conosciuti o meno è suddiviso per aree tematiche che esplorano tutte quelle forme d’arte prodotte valicando i limiti della ragione, esplorando il funzionamento o il 'disfunzionamento' psichico fino al suo limite patologico, il disagio esistenziale, il malessere o la malattia, l’affondamento nell’oscurità di forze psichiche inconsce veicolate dal lavoro creativo. Si parte dai precursori d’un arte del “fantastico” o del “visionario” nella pittura fiamminga del tardo gotico con Bosch e Bruegel, toccando il romanticismo con le sue prefigurazioni simboliste e perturbanti dell’inconscio fino ad arrivare all’esplorazione dell’art brut, dell’arte moderna come “disagio” o malessere di realtà” nell’alienazione del soggetto rispetto alla medesima. Segue la defigurazione del corpo come estensione dello spazio psichico portato sulla superficie della tela con le sue deformazioni e perturbazioni di presenza; si conclude con i “ritratti dell’anima” come auto-analisi d’una verità psichica interiore, esplosa, esplorata, messa a nudo attraverso il lavoro sul ritratto, infine con la creazione di spazi di surrealtà attraverso la pittura come ultima investigazione del meccanismo inconscio.




Bosch e Bruegel nell’introduzione al percorso espositivo appaiono come grandi maestri del gotico fiammingo, creatori di mondi immaginifici, di sogni e visioni, indiscussi precursori del fantastico e del visionario. Nella pittura di Bosch è un mondo esploso, scardinato nell’ordine tra le cose e il loro darsi in simmetria nel linguaggio, proliferante selva di segni dalla simbologia occulta, in parte mistica, popolato di strane creature a metà tra l’umano e il vegetale, l’umano e l’animale. Elefante da battaglia, (1549) è dominato al centro da un essere fantastico simile a un elefante e un ponte levatoio insieme conducendo a una grande fortificazione mentre una miriade di figure grottesche, demoni o altre chimere in movimento vorticano intorno a questa fantasia apocalittica. In una visione del mondo ancora completamente medievale, dominata dalla lotta tra le forze del bene e del male, tra dio e satana in un universo catastrofico dilaniato dalla precarietà e l’angoscia della fine del mondo, Bosch da vita a questa visione fantastica riflesso di credenze magico-esoteriche dell’epoca, prefigurazione per noi di forme inquietanti, spettri e incubi generati dal sonno della ragione.

Ugualmente una miriade di piccole figure in bianco e nero popolano i disegni di Bruegel ancora una volta presi da questo impeto al fantastico che stravolge il dato del più immediato realismo fiammingo. Il grottesco e la caricatura sono utilizzati per mettere in luce il peccato e la debolezza umana, nella “collera” per esempio dove creature tra l’umano e l’infernale, rivoltandosi al suolo, indemoniate, altre deformi, abnormi o minuscole generano questa allegoria a sfondo morale medievale in una visione anti-prospettica, esuberante, eccessiva, tuttavia capace di penetrare entro il groviglio a chiaro-scuro della natura umana.

In epoca romantica, ugualmente il fantastico si carica d’ elementi perturbanti, include o lascia intravvedere forze oscure annidate nel fondo dell’inconscio erodendo la piatta visione realista attraverso figure simboliche perturbanti, apparizioni mostruose, demoni o creature altre rivelandosi dall’oscurità dell’incubo, del sogno o dell’allucinazione in neri tratti d’inchiostro. Nella “follia disordinata” per esempio, acquaforte marcata dal netto contrasto chiaroscurale dell’incisione, due corpi incollati, collisi insieme di schiena, due teste dai volti mostruosi e deformi senza genere liquidando i due sessi, prefigurano la dissoluzione dell’umano, il viso dissolto, a metà liquefatto da forze di dissoluzione in atto, spiraglio dischiuso verso un’oscurità insondabile, urlo di terrore, il risvegliarsi di mostri annidati al fondo delle coscienze in questa intuizione d’un umano a multiple facce, a multipli fondi, inconoscibile fino in fondo perfino a sé stesso.






Karel Appel, (senza titolo)



Disagio della realtà




Come si esprime la scissione o lo scollamento inevitabile rispetto alla realtà, alle forme e ai modelli della rappresentazione realista in queste esperienze artistiche d’art brut definite “borderline”? In primo luogo attraverso l’espressione dei cosiddetti “outsiders”, esperienze solitarie di autodidatti e artisti sconosciuti nate nella marginalità di istituti asiliari, visionarie perché esperienze del limite e oltre, giustamente sul confine, nell’attraversamento di questa linea sottile che separa l’opera dal sintomo, la creazione dalla malattia, investite dunque di questa forza di rottura uscente dai sentieri battuti. Espressione immediata, creatività primordiale, energia prima del segno che si traduce nella forma e nel tratto d’un disegno elementare a cui artisti come Jean Dubuffet si interesseranno particolarmente a partire dagli anni venti. Negli anni ’40 tale sperimentazione pittorica viene rinnovata dal gruppo Cobra (acronimo delle tre città Copenaghen, Bruxelles Amsterdam,) ispirandosi all’automatismo dei surrealisti, alla liberazione del processo creativo oltre i limiti del razionale, allo stravolgimento dell’ordine di realtà nella violenza di un segno antifigurativo e primordiale. Il colore, materia immersiva diviene via d’accesso privilegiato a un’altra visione di realtà; i loro modelli, il disegno infantile, le arti prime e l’arte “outsider” non ufficiale .



Karel Appel (1971)

Composizione ritmica, spontaneità elementare dei tratti, disegno circoscritto da linee essenziali e primitive, per grandi zone o isole colorate distribuite in complementari coesistenze di macchie in pasta-materia. Mappatura per colori primari, parti d’un cranio o d’un continente, isole raggruppate intorno a un arcipelago, riempite in blu cobalto, rosso vivo, giallo primario, bordeaux ecc. Nella loro semplicità primitiva visualizzate in complementarietà essenziale.

Una linea nera e spessa, la continuità d’una linea che delimita e crea la forma del quadro nel suo elementare darsi, spontaneamente circoscrive allo stesso modo la “composizione dal fondo rosa vivo” di Chaissac, esponente dell’art brut francese del primo novecento. Definisce, taglia, isola dal fondo rosa, circoscrive l’energia primaria nella forma chiusa, quasi in rilievo data nella complementarietà cromatica del colore disteso à plat in singole zone compositive: viola, rosa, fuxia, colore acceso, materico, vivente contro il contorno nero e isolante violentemente ritagliandola dalla superficie.


Pierre Alechinsky “Evergreen” (1970)

Sempre verde: tutto quello che rinvia all’universo del verde come colore primario dato per tracce lasciate espandersi spontaneamente in segni tangibili, macchie o rigature materiche. L'universo acquatico del verde, pesci, piante o sempreverdi foreste , fluttuazioni di verde intensità,
colate di verde colore,
diverse tonalità d’un segno iscrivendosi come movimento immersivo dentro la materia,
sulla tela in forme casuali,
in fantasie, apparizioni o emergenze nate dall’incontro con tale singolare evenienza.



Paul Klee, “Im Park” (1940)

Disegno infantile, si direbbe, appare simile a uno schizzo o scarabocchio, pennellata su carta stropicciata o gessetto in percorso libero su cartoncino quasi per gioco. Segue la linea di questo tratto infantile emergendo spontaneamente attraverso un sapere immediato del tratto, d’una linea semplicissima, grezza e basilare, che sembra rintracciare una qualche forma pre-esistente, ricongiungersi a quella fino a risalire alla propria radice inconscia, originaria per esplicarsi sul foglio in pochi segni primari. Rosso è il colore di tale emergenza.



André Masson


Masson, “homme, femme” è questo turbinio di due principi o forze contrarie attiranti e respingenti, la sensualità dell’incontro tra il principio femminile e quello maschile restituito attraverso linee curve in questa danza vorticante, gioiosa su fondo azzurro e punte culminanti in blu, rosso o nero. Danza di segni astratti caricati d’un energia vitale, libidinale e primaria creando un gioco tensivo sulla tela.



  

Opere nate dalla presenza ossessiva del segno, dalla volontà di riempire, colmare o collimare il vuoto, di non lasciare libero spazio all’orrore di realtà o a quello della guerra come esperienza traumatica di morte , alla sofferenza psichica percepita come disintegrazione della mente ritornano nei lavori di Carlo Zinelli e d'altri esponenti dell'arte outsider. Figure stilizzate costantemente riemergono alla superficie, su una superficie sempre più lacerata nella percezione del corpo psicotico, come forme perturbanti di riempimento e ripetizione: pretini, corvi neri, crocifissioni, buchi e mutilazioni di corpi in una loro implicita ermetica simbolicità.
In tale accumulazione- ammasso disordinato o spazio ordinato ma sovra-carico- il proliferare d’ elementi o figurine de-moltiplicano, in questo senso instaurando una sorta d’automatismo psichico che permette di accedere più direttamente all’elemento inconscio con cui l’artista o il malato sembrano essere già direttamente in contatto.

Eppure in “Grande Bambola Bianca” l’esubero di forme, il troppo pieno di parti del corpo vuote, svuotate o mancanti, le figure ossessivamente rinviandosi da una tela all’altra trovano qui un loro equilibrio compositivo in armoniosa distribuzione. Su un fondo azzurro marino, acquatico e semitrasparente si profilano in linee orizzontali come una simbologia infinita di figure in una sorta di processione luminosa, ordinata nell’evocazione quasi d’un grande giudizio Universale. Più in basso su un fondo rosso vivo la distribuzione d’altri simboli ermeticamente dati ricompone l’insieme in una sorta di grande cosmogonia personale, nella definizione d’un cosmo soggettivo, apparentemente incomprensibile eppure attraversato da segrete affinità compositive.

Carlo Zinelli, forma con orologio a contorni neri - 1964


Carlo Zinelli













Disagio del corpo

Il corpo come superficie psichica, estensione e prolungamento della medesima nel lavoro di questi artisti vive e porta in sé la rottura, il conflitto, la regressione o la fissazione inconscia. E’ superficie lacerata, intaccata, alterata e messa a nudo, ma è anche unità o meglio reversibilità inequivocabile tra un ‘di dentro’ e un ‘di fuori’ . Assume in qualche modo quella condizione implicitamente portandola fuori, iscrivendola come non separazione tra il bordo interno e quello esterno dell’essere corpo-pensiero, fuori su una superficie lacerata, o comunque inscritta, incisa.

Da una parte è l’orrore di realtà di cui la guerra, la Grande Guerra si fa portavoce e ineguagliabile cartina di tornasole a condurre questi artisti a espellere e vivere la propria ferita direttamente sulla pelle come un evento che li concerne, li taglia, li distorce, ne percorre tutta l’estensione senza altra profondità possibile che quella significabile, scavabile direttamente sulla superficie. D’altra parte, questo corpo della follia come sottolinea Deleuze1 è già di suo colto da una miriade di piccoli buchi, la sua estensione è lacerata e nella spaccatura profonda che la attraversa i pezzi si incastrano e gravitano come le parole, il linguaggio penetrando come oggetti corporei là dove interno e esterno, contenuto e contenente non hanno più limiti precisi. In queste due ottiche si possono leggere le esperienze pittoriche di André Masson e Carlo Zinelli, il primo nell’esplorazione d’un corpo come diretta sublimazione di conflitti e traumi legati all’esperienza bellica, il secondo in questo horror vacui dove il quadro è esasperazione ossessiva di presenza nella figurazione e, insieme, svuotamento costante dei corpi visti per teste o ventri forati, trivellati, per parti mancanti e parziali interni intagli.



In “Nudo alla fiamma nera” di Masson una linea continua, fluida e quasi impersonale compone e lascia sfumare, dileguare alcune parti della figura appena accennata- ventre, seni, bacino. Si traccia come una massa fluida, non finita o sfinita, distorta nei contorni come questo corpo cancellandosi, a poco a poco ‘svenendo’, svanendo estenuato dal conflitto, come questa fiamma di candela sul punto di estinguersi. Eppure tale corpo, femminile, erotico e surrealista per eccellenza, è anche massa organica e pulsionale, “corpo senza organi” per riprendere la definizione di Deleuze, senza parti che lo contraddistinguono ma invece dandosi per scorrimenti energetici, evaporazione di fluidi, svaporazione di presenza, divenire o meglio s-venire in una sua linea d’ intensità pittorica.


Alla fine degli anni settanta, ugualmente, il corpo è oggetto di sperimentazioni dirette, audaci e violente dalla body art alla fotografia indagando i risvolti di sessualità, perversione, angoscia o repressione come visibile nei lavori di Hermann Nitsch o Arnulf Reiner. Spesso i disegni visualizzano questi fantasmi ossessivi di presenza manifestandoli attraverso un corpo che si espone, si mostra, si mette a nudo volutamente come luogo di conflitti e pulsioni primarie in qualche modo esasperando, gridando, portando fuori una loro scomoda verità. Tali corpi, intaccati da forze psichiche di disgregazione, distruzione o annientamento, assumono la malattia come luogo di devianza rispetto al regime della norma, della normalità e della convenzione sociale, esasperando il conflitto come teatro d’ opposizione e di resistenza a un presunto ordine normativo.

Nella prima immagine di Arnulf Rainer la figura distesa è esposta di schiena nel pieno dell’atto sessuale ma tutto è dato come manifestazione dell’evento psichico, tutto ruota intorno a questo corpo ma tutto appare ugualmente alterato, rigato, graffiato e ricoperto come da una superficie incisa o barrata di vernice. In una seconda versione, ugualmente a dorso nudo, la schiena è rigata, graffiata, incisa a linee di fine inchiostro di china, volutamente alterando, imbrattando la pelle, quasi con rabbia scarabocchiando la fotografia a colori.

Nella tela di Nitsch, differentemente, la presenza del soggetto scompare, svaporata, volatilizzata in seguito a sparo di cui resta il tessuto appeso d’una t-shirt colante come involucro in assenza. Deflagrazione, colata violenta di sangue-colore in rigatura intenzionale, macchia e scorrimento che riempiono e insieme evacuano la superficie di tale evenienza.








Ritratti dell’anima




L’emblema stessa del volto come auto-figurazione, l’auto-ritratto, diviene qui luogo di rispecchiamento di molteplici sé che parziali e contrastanti, conflittuali e coesistenti incrinano o inevitabilmente rompono, fanno a pezzi la linea chiusa e icastica della figura come ritratto. Cancellazioni e messe a nudo, metamorfosi del viso per rivelarne la fisionomia interiore danno vita a una rappresentazione spesso disturbante fatta di cancellazioni, distorsioni, o violente aggressioni apportate al volto nella sua unità figurale. Emergenze di altri sé difficilmente ammissibili, mostruosi, oscuri o osceni spinti sul bordo dell’umano come in Francis Bacon sembrano disconoscere una corrispondenza univoca o semplicemente esteriore alle cose insinuando una verità più cruda, diretta e feroce interna alle medesime messe a nudo attraverso il processo di demistificazione d’ apparenza.


In Bacon, “Untitled” del 1949, un volto spettrale su uno sfondo statico e neutro appare sottoposto a questo processo di parziale cancellazione: sfuocato, de-figurato l’uomo, l’umano nel ritratto di sé appare riassorbito da questa spirale di colore ad olio gettata violentemente sopra, sulla tela che lo risucchia, lo assorbe, lo aspira verso l’alto nel processo ricoprendosi d’una densa patina di vernice grigiastra e immobile. Sottoposto a tale moto che intacca il volto come forza defigurante, l’umano perde la sua faccia, si rivela nella sua maschera di profonda estraneità, senza volto,
in questo processo di dissociazione da sé stesso al centro d'un conflitto psichico e visivo irrisolto.



Gino Sandri, illustratore e disegnatore per varie testate giornalistiche prima d’essere internato per vari anni in diversi istituti, realizza una serie di disegni di “teste e caratteri”, restituendo un diario figurativo, la casistica d’una serie di ritratti intimi e quotidiani di coloro che lo circondavano. La sua galleria di soggettività interroga il volto come luogo di verità intima, là dove si iscrive la riflessione, l’essere del pensiero ma anche il malessere, la sofferenza o la follia prendendo il sopravvento fino a dissolvere la linea, il contorno finito del volto. Una straordinaria finezza di tratti e lucidità di visione emergono da questi volti in miniatura, quello d’una donna sorpresa in sospensione inquieta, in posa perturbata e riflessiva, poi altri volti dormenti, allucinati, sofferenti per qualcosa di sconosciuto, o ancora presi da compulsioni rabbiose, colleriche in una vera e propria galleria di volti-maschere. Possibili deformazioni di un sé stesso ipotetico, costantemente dandosi in un’infinità d’ altre versioni provvisorie e successive.



Jean Michel Basquiat

La sua pittura nata nelle strade di New York da graffiti e iscrizioni lasciate sui muri, dalla violenza cromatica di vernici o spray gettati direttamente sulle pareti più tardi diventa colore e acrilico impresso su carta nella potenza di segni e simboli primordiali che uniscono elementi tribali, afro-americani e altri della cultura moderna o metropolitana.



“Realing semi-nude”, (1983)

Il re depone la corona, il suo diadema di carta dorato scollato dalla testa, si distende, crolla a lato semi-nudo, soccombe in questa sua ultima, disperante alienazione d’umanità di fronte allo sguardo d’una società che lo giudica, d’una legge coercitiva che lo condanna . Digrigna nello sguardo, ossessiona negli occhi, è investito da una rossa pennellata materica come da un colpo di spugna vivo, divorante dal corpo fino agli occhi, espandendosi fino a prendergli il volto intero. Il corpo non-visibile. ugualmente, resta immobilizzato sotto una macchia oscura verde e nera profilandosi a lato cupamente. Il re è nudo, deposto a sé stesso, digrignante nello sguardo, si vuole re e si vede agonizzare al proprio sapersi preso, perso, sospeso in preda a spasmo divorante.




Aloise Corbaz




Uno spazio particolare dell’esposizione è dedicata alla figura iconoclasta, singolare e visionaria di Aloise Corbaz, presenza di rilievo nella nascente art brut francese negli anni ’40 pur avendo trascorso gran parte della sua vita nell’istituto asiliare della Rosière. In quarant’anni ininterrotti di pittura nati dall’oscurità della malattia, della marginalità o dalla reclusione dipinge ininterrottamente con qualsiasi supporto: pastelli, gessetti, petali di fiori, ritagli di giornali, vecchie fotografie. La sua creatività visionaria e infinita darà vita a un mondo fantastico, d’ispirazione fiabesca tradotto in rotoli di lunghi fogli di carta con disegni vertiginosi che ricoprono le pareti dello spazio asiliare dando vita a un universo di libertà interamente popolato di creature fantastiche, una vera e propria cosmogonia fiabesca capace di rispondere all’alienazione con la creatività e l’esplorazione delle proprie risorse singolari. I disegni si riempiono di colori ardenti, rossi, aranci e riflessi vivi , bocche color di fuoco, fiori, diademi e arazzi coperti di simboli,
o ancora, forme astratte e geometriche, emblemi, corti fantastiche, storie d’amore leggendarie, regine, re e principesse .




Ugualmente, alcune opere dei surrealisti francesi nell’ultima sezione della mostra visualizzano attraverso la pittura una visione di realtà o meglio di surrealtà generata dal sogno e plasmata più in generale dal funzionamento psichico inconscio: visioni, allucinazioni, fantasie generate da fluttuazioni oniriche di coscienza con rimandi all’arte infantile o primitiva, in generale ad ogni mezzo che permetta di arrivare a una liberazione creativa dell’inconscio.
In tal senso è “Mostro molle in un paesaggio angelico” (1977) di Salvator Dali’ :
nell’atmosfera di sogno, nella surrealtà di queste tonalità d’alba una visione d’irrealtà s’apre liquida e irradiante in effusioni luminose appena accennate.




Paesaggio angelico dall’atmosfera chiara, un mostro molle, ocra e luminoso in primo piano appare liquefatto come un ordigno disattivato allo stesso modo di quegli orologi di Dali’ visti dissolvere coi loro meccanismi e lancette giranti al contrario nel tempo arrestato dei sogni. Più indietro, appaiono il duo tutelare d’un unicorno e una figura alata, ancora più indietro creature angeliche danzanti, sullo sfondo un’altra figura alata sospesa in questa atmosfera paradisiaca e luminosa, il tutto avvolto nella sinuosità d’un cielo empireo e senza tempo. La stessa immagine è ripresa in una versione successiva dove le apparizioni sognate, due figure angelicate e quasi trasparenti ricompaiono su un fondo oro e sabbioso, dileguando eteree contro l’ocra intenso e giallo vivo del paesaggio desertico.















Cfr Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli