domenica 17 aprile 2016

“La seduzione dell’ antico” , tra classico ed estremo contemporaneo al MAR di Ravenna (I parte)







In quali forme e modalità l’antico, il classico o il lascito dei grandi modelli della tradizione è stato ripreso, citato, recuperato, richiamato in vita in senso proprio o nel suo “ inverso” attraversamento in tutta l’arte del novecento dalle avanguardie storiche alle neo-avanguardie a ridosso del contemporaneo? Rilettura inedita, citazione ironica, iconica riscrittura contemporanea, simulacro o rifacimento dissacratorio dell’originale, tutte le varianti mettono in discussione la definizione stessa di “modello” e il valore di  “tradizione” nel suo modo d’essere compresa e re-interpretata oggi.  Soprattutto se pensiamo alla citazione di Bontempelli scelta per introdurre la prima parte dell’esposizione dove si afferma che “la tradizione non è il passato morto” non è un nostalgico ritorno a una materia inerte  o priva di vita ma “quello che vive e si tramuta” per muovere verso una nuova forma, quello che di vitale resiste, persiste e, pur mantenendo un legame con la sua provenienza, non smette di riconfigurarsi sotto nuova immagine, in un linguaggio che giunga ancora a parlare ai suoi contemporanei. Le opere rappresentate al Mar di Ravenna ricoprono l’intero arco del novecento facendoci comprendere come il tema della “seduzione dell’antico”, del classico o del modello inflazionato dalla tradizione assume le sembianze di un ritorno alla figurazione per un certo filone di pittura italiana del primo ‘900 nel pieno esubero delle avanguardie, e, ancora, di riscrittura inedita, deliberata rielaborazione di temi o citazioni classiche in De Chirico, Severini, Carrà ecc, Infine, esso compare come influenza paradossale del passato sull'estremo contemporaneo malgrado la separazione o il distacco sanciti dal post-moderno e nel rovesciamento dei suoi presupposti ri-emergenti più come alterità, simulacro o modello svuotato di ciò che non si è più o in cui non ci si identifica più veramente nella  relazione alla tradizione. 

“La seduzione dell’antico” è, dunque, nell’inedita rilettura proposta dall´esposizione ravennate un dialogo aperto con la  pittura novecentesca nelle sue fasi alterne di ritorno alla figurazione o nel totale abbandono della medesima da parte dell’arte moderna. Infine, essa ritorna come la traccia infinitamente riscritta e cancellata, rifatta e contraffatta della tradizione classica nell’estremo contemporaneo parlandoci di una ininterrotta “trasmutazione di linguaggi” piuttosto che del nostalgico ritorno a una materia d´ archivio; sempre e comunque si vuole come sintesi inedita capace di tenere insieme presente e passato, storia e  mutevole attualità.

Il passato nella tradizione pittorica (come nella nostra esperienza) attraversa il presente  in una complessa sfaccettatura di forme viste insieme nella frattura e nella continuità e di lì si estende fino al futuro. L’arte riattualizza l’antico o i suoi valori in tutta la prima parte del ‘900 recuperando il filone figurativo attraverso ritratti, paesaggi o nature morte oppure risponde con quello spirito neo-barocco che in artisti  come Fontana, Leoncillo ecc. rigetta il “ritorno all’ordine” di tanta pittura italiana di quegli anni per esprimersi in forme esuberanti e barocche nell’esasperazione dei modelli classici e nell’esaltazione dei colori.  Diviene messa in scena dei suoi simulacri a partire dal secondo dopoguerra, evocazione in assenza di un vero originale, ritorno ironico o dissacratorio, in alcuni casi parodico a quei modelli nei termini più specifici della pop-art o dell’arte concettuale come per il celeberrimo "Envers de la peinture" di Duchamps all’interno di un campo d’azione artistico aperto e multiforme.

Il critico Marco Tonelli scrive: “Il tempo lo si può e lo si deve sentire all’opera nell’opera contemporanea che si mette in relazione  all’antico”, deve essere una traccia che si scolpisce nella finzione o nella messa in scena oppure l’ innesto dell´antico su un nuovo segno, perché non siamo più in un rapporto di continuità con il passato ma, invece, esso ci appartiene come alterità, come referente in assenza o come il negativo d’un immagine fotografica che non è più, non come memoria diretta ma come lascito indiretto, impronta in assenza.  Passato e presente abitano tuttavia la superficie delle opere contemporanee in una serie di “coesistenze” che divengono anche  sovrapposizioni e insieme “sovra-opposizioni” perché non è l’antico che è passato e il contemporaneo che avanza lasciandoselo semplicemente alle spalle ma l’uno che deflagra nell’altro, che lo invade, lo sdrammatizza, lo deride, mette alla prova il senso univoco d’un estetica dell’attuale in un ritorno all'antecedente, al modello illustre, all'archetipo svuotato con la coscienza del post, dell'estemporaneo o dell'attuale. Il contemporaneo si posiziona in una implicita alterità là dove esso attinge e affonda nel passato come a un reservoir- deposito di materia virtuale; vero e falso, originale e copia, reale e simulato appaiono sempre più in innesto inevitabile anche solo a livello di suggestione indiretta o non-voluta nell´opera contemporanea.

 Come afferma Georges Didi- Huberman nella sua definizione di “anacronismo”: “il passato non smette mai di riconfigurarsi in un’immagine nuova; non è il presente che cita il passato ma quell’immagine che ritorna e si riconfigura in forme e modi diversi parlando la nostra lingua”. Le sculture antiche giunte a noi in tante installazioni o opere d’artisti contemporanei al Mar di Ravenna  appaiono mutilate, acefale, frammentate, viste per parti, in montaggio voluto o in ricomposizione imperfetta, anacronistica , pur non esitando a ritenersi lasciti o simulacri di modelli d’una bellezza antica, assoluta. Devono portare in loro necessariamente la traccia e la scissione prodotta dal tempo, in qualche modo la traccia e l´impronta della loro inguaribile ferita temporale. Dunque l’antico sarà visto in queste opere piü vicine a noi temporalmente come un contenitore svuotato di una reale essenza storica da cui l’artista estrae con ironia, leggerezza, in modo intempestivo e in  costante movimento di linguaggi, modelli manipolabili  in una operazione di originale recupero del passato sulla superficie della contemporaneità.



Salvator Dalì,  “Metamorphose topologique de la Venus de Milo traversée par des tiroirs” (1964)

Il corpo in bronzo verde-rame, rilucente della sontuosa scultura di questa Venere della classicità  è visto in proporzioni massicce, granitico e magnificente su un piedistallo di pietra ma scomposto in comparti stagni, traversato da cassetti simulati, reservoir o comparti interni del corpo, depositi di oggetti, effetti ed emozioni, che s’aprono visibilmente dalla sua forma granitica in bronzo. Massiccia ma esposta e scomposta insieme la figura appare aprirsi, dispiegarsi per comparti stagni, per segreti nascondigli, in ardui ordigni pronti a esplodere a ripetizione. Fronte e mento, seni e gambe sono attraversate da lame, tagliate trasversalmente da piani apparenti come si fosse di fronte al gioco di qualche illusionista  che sezionando parti del corpo ne riversa in forme visibili all’esterno i segreti comparti.




De Chirico, “Piazza d’Italia” (1955)





Immensa e solitaria la piazza d’una anonima città d’Italia vista nelle ore più calde del mezzogiorno appare astratta nell’ambientazione e nitida nelle tonalità degli ocra degradanti sullo sfondo in gialli accesi, e verdi smeraldi tendenti a imbrunirsi in cupi blu crepuscolari al limite dell’orizzonte.  Ombre si prolungano immense oltre le figure reali, attraversano l’immensità vuota sullo sfondo metafisico e soleggiato della piazza, in lontananza il profilo della città. La citazione d’una scultura classica, statuaria in bianco al centro del dipinto domina lo spazio, arcate di edifici antichi si profilano ai lati mentre le ombre geometriche si prolungano nel contro-luce netto, incisivo, assoluto quasi generato dalla piena luce del mezzogiorno. Le due piccole figure a lato restano impersonali, anonime, viste a distanza mentre le proiezioni delle medesime dominano al centro della scena; abitano quell’ambientazione onirica, astratta portata dalla pittura fuori dal tempo e dalla storia, frammista a citazioni del passato e immersa in una immobile visione d’assenza.

Felice Casorati, “La dormiente”, (1924)

Lo sguardo scivola senza potersi soffermare su questa figura in gesso d’una dormiente in alto-rilievo: bianca della bianchezza della pietra da cui deriva, marmorea e levigata come le statue classiche ma in un ritorno voluto e invocato alla figura, all´umano, alla visione d´una creatura abitata da un soffio vitale per usare il termine dello scultore Martini. Tuttavia, la purezza ed essenzialità delle sue forme travalica il realismo della scultura accademica del primo novecento per darsi in una nuova sintesi plastica prodotta dalla modernità. Dormente, appare vegliata da un insolito rapace notturno  a lato,  vista in un sonno di morte, indeterminato, in attesa di risvegliarsi ma in un tempo a noi ignoto, oltre la superficie del piano, del giaciglio dove e´collocata nel presente, volta su un lato, gli occhi chiusi. Esile e stranamente abitato quel corpo, profondamente umano, in una sospensione simile a morte, nel simulato approdo su una terra di pietra delimitata da pochi segni, tronchi d´albero, un  involucro scolpito nel gesso per adagiarsi e il vuoto non ben identificabile dello spazio circostante.

Paesaggi,  nature morte, ritratti.







Il poeta T. S. Eliot afferma nella citazione riportata all´inizio della sezione: “La tradizione non la si può ereditare, la si deve conquistare a fatica, con grande sforzo”. Le nature morte dell´inizio del novecento qui poste a confronto sono l´emblematico esempio di tale operazione effettuata sull´immobile vita d´oggetti inanimati,  citazioni appartenenti alla tradizione di una pittura di genere nel tentativo di reinvestirli  d´una “miticità” , per usare l´espressione di Breton, di renderli oggetti investiti di un´aurea seducente e misteriosa  per chi guarda, capaci di risvegliare o portare in sé il senso e l’essenza di un´epoca. Allo stesso modo in Severini e Derain la “natura morta con pesci” appare abitata da forme di creature palpitanti, vive, quasi in trompe-l´oil sul quadro, che soprattutto in Derain sono viste in primo piano appoggiate su una tovaglia o, in Severini, quasi trasbordando dai piatti d´una bascula da mercato. Ancora vivi e con i loro occhi vividi  i pesci appaiono divorare la superficie della rappresentazione per arrivare fino a noi,  rompere la bidimensionalità della tela e imporsi in animata presenza.
Nella composizione astratta di Morandi, al contrario, gli oggetti, vasi e bottiglie in immobile presenza, sono visti a distanza nei colori opachi e sfuocati, in tale atmosfera metafisica particolarissima e a lui sola di sospensione del tempo e della  materia, di dialogo segreto con la loro più intima verità che l´artista sembra stabilire. In tale assolutezza di visione essi appaiono, quali intrinseche presenze parlanti in sé, essenziali e insostituibili al centro della scena, in dialogo segreto con il pittore, espandendosi nell´aurea luminosa della loro più autentica presenza.

Il ritratto



Reinterpretare il volto come un bagaglio di esperienze emozionali, sociali e temporali che pesano sull´individuo e ne modificano o ne conformano  i tratti fino alle piu´ ´intime sfumature del viso, fino a quell´aurea originale e particolarissima che contraddistingue e differenzia ogni individuo, non solo una soggettività da un ´altra ma le singole fasi di un´esistenza in veri e propri  paesaggi dell´anima nei quali un volto si definisce, si plasma o si scolpisce attraverso la temporalità dell´esperienza.  Così, se il ritratto di Capogrossi (donna con veli, 1931) e´ un volto di giovane donna sfuocato, avvolto da doppi strati di veli quale figura semi-celata assumendo un´aurea quasi mistica, irreale in una matrice ancora simbolista o pre- moderna, il volto di Donghi (1944) ritorna a noi nel nitore estremo d´una incisività quasi fotografica, nell´opposizione tra il verde intenso della camicetta, gli occhi neri brillanti e il nero del cappello sulla capigliatura d´un giallo-ocra innaturale mentre l’ essenzialità e il purismo dell’impostazione lo avvicina alla fotografia modernista della stessa epoca.  Nel 1964 Picasso in “tête d´homme barbu”- alle spalle l´esperienza di cubismo e avanguardie, dalle  più svariate o ardite sperimentazioni pittoriche a un ritorno massiccio e classicheggiante alla figura- crea questo ritratto dal segno istintivo, mosso e vivace utilizzando un gesto pittorico libero e primitivo. L´uomo visto di profilo appare scomposto, doppio, multiplo e frammentato secondo il lascito cubista ma presente e incisivo nella traccia dei neri e nel segno del contorno dal tratto elementare, naif e marcato a vivo sulla tela che lo avvicina quasi all’art brut.
Scomposto ma presente, multiforme, irriducibile a unità ma incisivo attraverso uno sguardo percuotente  pur nella irrimediabile scissione.  Il ritratto nella molto più recente versione de “l´uomo seduto” di Zoran Music (1992)  diviene ombra di sé stesso, figura de-figurata e sfatta, sfumata e immensa, avvolta in un’ aurea oscurante che come alone nero avvolge il corpo rendendolo massa inerte di materia, volutamente aspirato dal fondo  materico, dal moto dileguante del sé identitario.

“La nostra anima e´un paesaggio scelto” scrive Verlaine come leggiamo all´inizio dell´introduzione di “paesaggi”. Il paesaggio visto qui n una risonanza dell’antico al di fuori delle sperimentazioni avanguardistiche tende tuttavia a risuonare d’una sensibilità moderna, d’un riflesso interiore dell´ordine di una verità più intima, o del riflesso storico-sociale di un’epoca. Paesaggio dell´anima quando essa appare oppure d´una essenzialità che rinnega la natura estetizzante della rappresentazione.


Leoncillo,  “Tevere” 

La città sale, il paesaggio e´ un fiume, una corrente, una scia d’acqua che cresce e si estende in verticale, in espansione gioiosa verso l’alto , una costruzione fittizia fatta forse solo di parole.
Un insieme di case in movimento attraverso quel tracciato fluido e bluastro.
Ci sono porte, antri e finestre, scale e scalette facendo pensare a villaggi greci affacciati sul mare, e ancora a case bianche di pietra lavata o levigata, alla mobilità di forme dinamiche nello spazio come nelle sculture in movimento di Boccioni. La città per Leoncillo e´un porto di mare, una soglia, già la presenza della porta aperta d’una casa. Simile a una visione mossa di Gaudi´le sue architetture fluttuanti, gioiose e decorate in linee fantasiste appaiono come un esubero di forme salendo, flessuose, verso l´alto immerse nella tonalità acquatica del blu. 



Leoncillo, sull’immagine

La pelle lucida e umida di un albero giovane dove ci sono tanti buchi scuri, il nero che sta dietro le case e che viene invece avanti dopo averle girate dappertutto intorno, una figura cui la luce dissolve tutto il volto ed ha ombre sottili che gli scorrono addosso come rigagnoli. L’immagine viene da dentro e assume il volto di tutti quei sentimenti o emozioni sottili che ci agitano, e prende il senso della gioia esaltata che vorremmo afferrare, della tenerezza ferita che nascondiamo, infine dello scuro e fermo riposo dove vorremo trovare pace.” 
Trovare una forma visiva per queste immagini, un segno, un colore e una materia che risponda alle fluttuazioni sottili di questi paesaggi interiori, questo l’esito e il tentativo delle inedite sperimentazioni neo-barocche di artisti come Fontana, Leoncillo, Scipione ecc. che reagiscono al ritorno all’ordine del filone classicista nella pittura italiana degli anni ‘30 andando a risvegliare una sensibilità moderno-barocca impressa di pathos. Il suo diverso paradigma giustamente supera i limiti del modello classico per sfociare in palesi finzioni visive: linee mosse e vibranti, figure tortuose, volti carichi di drammaticità.


Mirko, “Il prigione” (1945)

Appoggiato a un supporto quasi fosse sul punto di precipitare, liquefare o lasciarsi disfare al suolo, il corpo dalla figura esile e tortuosa appare scolpito nel vivo di un gesso dipinto e vibrante, mosso e insieme intagliato, inciso a vivo sulla pietra. Il gesto violento della scultura resta impresso a vivo sulla materia; appare soprattutto nel processo del togliere, dello scavare, del rendere la pietra abitata, tormentata o svuotata dall’interno, in alcuni punti presa a colpi di scalpello e volutamente compromessa, segnata da quello. Sostenuto da un supporto trasparente in vetro il corpo tortuoso e scavato nega volutamente la bellezza levigante e perfetta della forma classica, così come l’armonia delle sue proporzioni e la statuaria della sua visione anatomica d’insieme. Modernamente barocco nell’eccesso dell’intarsio fin quasi alla deformazione e nella sproporzione voluta delle forme, il corpo nudo è intaccato, preso in una “prigionia” dell’essere, nel fuori-figura e fuori-contorno. E’ carne nuda in assenza dell’io, immagine perturbante di sé impresso nel gesto violento e non-finito della scultura.

 “L’Arpia” di Leoncillo (1939) è leggibile come un’ulteriore sperimentazione neo-barocca della scultura negli anni ‘30 attraverso la suggestione raccolta da un mito classico che, ugualmente, trova nuova rivisitazione figurativa nell’arte moderna. Masticato e rigettato fuori come archetipo appartenente all’immaginazione collettiva, è la storia di un mito che, ancestrale e universale, riesce a rigenerarsi e dare vita a nuova personificazione attraverso la scultura.  Il busto appare come una figura in terracotta invetriata dai seni irti, le unghie rosse policrome e i capelli d’un nero corvino lunghi e brillanti da fiera del mondo. Il volto appare quasi reclinato all’indietro nell’eccesso di pathos e rabbia. Traslucida, la materia scintillante scorre appuntandosi negli estremi rosso-magenta dei seni e delle unghie; in disfacimento, in liquefazione, in esubero di sé per l’effetto che la terracotta colorata e invetriata produce. Marmorea e scintillante alla vista, tale creatura mostruosa dal corpo a metà di donna e a metà di fiera rapace appare ergersi indomita e feroce, ispida e lucente nella disfatta.



Mito e memoria: “Crocifissione” , Salvator Dalì (1954)


Il corpo del Cristo nella crocifissione di Dalì appare meravigliosamente limpido e puro, polito nella figurazione dall’eco classico, non affetto dal dolore della carne o dallo scorrimento del sangue sul suo costato. Si dà nella nudità  palesemente non taccata della materia-corpo in attesa o già proiettato verso un altrove divino mentre il fondale immerso nell’oscurità surreale del mondo appare popolato di brume, tempeste, nuvole cariche di pioggia, figure appena accennate e lievi cavalli alati. Se il corpo si staglia meravigliosamente nitido in primo piano il volto appare distolto dal nostro sguardo, proiettato  verso l’altrove, assente e già rivolto verso l’ascesa celeste, il ricongiungimento al piano superiore del divino.  Surreale la pittura di Dalì è immersa nell’oscurità discesa sulla terra durante e dopo la crocifissione, il momento della totale assenza di luce,la notte dell’anima come la morte annunciata del figlio di Dio ma anche la prefigurazione del ricongiungimento a lui, dell’annunciata risurrezione come l’alba di un sogno che trapela attraverso l’oscurità in lievi figure e bianchi cavalli alati in lontananza.