domenica 27 luglio 2014

2004-2014, Pensare e vedere attraverso la fotografia contemporanea, (dalla Triennale di Milano fotografia)











L'immagine fotografica cerca degli spazi di possibilità, di affioramento, di un fare o lasciare traccia, spazi per l’evenienza, l’imprevisto, l’accidente o l’incidente reso possibile dall’automatismo del mezzo tecnologico come da un meccanismo che si auto-genera in tempo reale a prescindere dal controllo d’un soggetto-autore.
Sembra darsi degli spazi per lasciar affiorare in margine all’intervento soggettivo dell’artista, fuori dalla presenza d’uno sguardo direzionale e attraverso la macchina l’evento in sé o meglio l’impronta d’un pezzetto di quella continuità che chiamiamo vivente prima dei condizionamenti che portiamo e apportiamo in essa inconsapevolmente nel nostro modo di guardare il mondo. Per riprendere il termine di Franco Vaccari, “l’inconscio tecnologico”1 rivelato dal mezzo fotografico o meglio da un linguaggio utilizzato come mezzo per guardare il mondo piuttosto che come fine estetico in sé coinciderebbe con il “punctum” della fotografia barthiana, la sua veridicità in quel margine di dettaglio irrisorio, imprevisto o non-visto rispetto a un insieme di segni e indici presenti e connessi nel tessuto vivente del mondo.
Nulla da inventare, dunque, manipolare o voler mostrare ma soltanto, in tale estetica postmoderna, la necessità di innescare dei processi autonomi attraverso i quali la fotografia si manifesti come immagine-impronta o immagine-traccia a partire dagli indici accidentali, dai luoghi comuni o gli spazi del quotidiano, in estemporanea rispetto al tempo dell’attuale, al flusso di vita da cui siamo portati e attraverso logiche di straniamento o de-soggettivazione del mezzo tecnologico.

In quest’ottica fotografare è fare un passo indietro, ritrarsi dalla posizione di controllo e di dominio del punto di vista, prendere atto dell’impossibilità o della non-volontà di dare una versione definitiva, ultima degli eventi; porre sé stesso, il soggetto-autore, in una posizione di inconoscibilità, di dubbio sul reale o apertura ad altre possibilità percettive partendo dal superamento di quel limite di non comprensibilità. L'artista nell’ impossibilità veramente di racchiudere, di controllare fino in fondo quell’immagine di realtà, comunque destabilizzante, appare porsi egli per primo nella posizione dello spettatore, del soggetto-oggetto della sua fotografia,(Ghirri) in una posizione di estraneità, di estraniamento, di non-appartenenza rispetto a quel paesaggio post-moderno e post-urbano ma, anche, intravvedendo in esso possibilità percettive inedite una volta varcata la soglia del luogo comune. Tale estetica della fotografia contemporanea emerge come riflessione o modo di pensare la realtà attraverso il mezzo fotografico, di rapportarsi ad essa concettualmente; si vuole azione piuttosto che rappresentazione, mezzo piuttosto che fine in sé, riflessione anche sul medium fotografico e gesto di innescare attraverso la macchina processi autonomi di visione come afferma Vaccari in Fotografia e Inconscio tecnologico.
 Un pezzo di mondo appare là iscritto attraverso i suoi segni e tracce dall’attività indipendente d’una fotocamera sfuggendo al pieno controllo dell’autore, partendo dal linguaggio fotografico e aprendo alla possibilità di incontri fortuiti tra il mondo fisico nella la sua cartografia di cose, il luogo dell’immagine e una terza visione che scaturirebbe dall’accostamento tra i due.












Peter Bialobrzeski, dalla serie, Hong Kong, 2001






Il paesaggio post-urbano è portato fuori da ogni dimensione realista o storica e proiettato in una dimensione quasi visionaria o futurista prodotta dalla metamorfosi dello spazio attuale. Come se quell’immagine di realtà o del tempo presente la si volesse modificare per sintesi elettronica, per passaggio al digitale o nel ricorso a una fonte di luce estraniante, artificiale.

Edifici parallelepipedi sono visti come solidi cubici tridimensionali illuminati a giorno da una luce accesa di corrente elettrica negli ori, gli arancio, i grigio-rosso, gli argentei e i rame sfumati in aurea dorata. Una miriade di punti luminosi sono visibili entro solidi fatti di mille piccoli riquadri, antri e finestre rettangolari, poi fasci di luce taglienti nell’oscurità, linee e flussi luminosi di edifici su fondo grigio opaco neutralizzante. Il paesaggio diviene digitale, reso in metamorfosi futurista d'uno spazio elettrico, illuminato a giorno, vivificato dalla luce d’una visione astratta e utopista dell'attuale. Gli edifici appaiono investiti d’un aurea di sublime tecnologico generato dalle potenzialità delle neo-tecnologie digitali, nelle possibilità aperte dalle sue applicazioni per quello che di smisurato, assoluto o incommensurabile ai nostri occhi lasciano intravvedere partendo da una visione oggettiva di realtà: qui un campo di luce elettrica, conducente energia in punti luminosi nei solidi su tutta l’ampiezza della foto si apre dalle fondamenta degli edifici d' un anonimo paesaggio urbano della nostra contemporaneità .



Moreno Gentili, Lipstick n. 7, 2001

L’immagine immensa, sconfinata d’una metropoli vista esteriormente, dall’alto e nella sua interezza a distanza è completamente ricoperta da grattacieli, edifici, palazzi, strade e costruzioni geometriche a diverse altezze:  scale esterne, parallelepipedi e superfici estese o ritagliate, traslucide o opache in ferro o in cemento. Simili a ideogrammi di acciaio e vetro riflessi o riflettenti, o ancora, a schermi digitali di diverse altezze e dimensioni. Lo spazio appare completamente saturato dai volumi visti come filmando una pellicola in bianco e nero dall’alto su una città con ravvicinamenti improvvisi su scalinate o edifici emergenti in primo piano nell’ illimitato orizzonte urbano. Una linea rosso-vivo di vernice simile a tratto di rossetto riquadra la foto e ne traccia il passaggio indiziale da uno spazio puramente fisico al luogo proprio dell’immagine, ne traccia l’adesione totale al linguaggio fotografico e la sua presa di potere su quella presunta oggettività d’un paesaggio urbano lì visto con un pretesto di ordine razionale, a distanza e in una relazione limpidamente trasparente all'individuo.
Tale cartografia del territorio ricondotta alla misura dell’umano, data per volumi, forme e superfici geometriche appare in qualche modo insidiata dal tracciato rosso che riporta la griglia ordinata e geometrica delle forme al labirinto speculare dove l’individuo si inoltra o si perde senza altro orizzonte possibile che la sua ricerca di verità, d'una verità che si manifesti estemporanea, inedita, accidentalmente e malgrado sé stessa nel luogo proprio dell’immagine.

La città, spazio fisico reale, è traslata, anche, in luogo del desiderio veicolato dallo sguardo, e come tale soggetta a inquadrature o re-inquadrature costanti volute dalle fluttuazioni del vedere, soggetta a manipolazioni, occultamenti, tagli e rimontaggi d’ una traccia rosso a vivo di vernice o smalto quale azione e insieme riflessione del mezzo fotografico su sé stesso partendo dal piano di realtà. Soggetta, ancora, a meccanismi di taglio e ricomposizione in subliminali immagini sottostanti, possibili, intraviste o incrostate in essa come derivando della medesima per il potere implicito nel medium fotografico, qui sottolineate dall'intrusione d'un rosso invasivo.






Joan Fontcuberta, Googlegram 9, Homeless, 2005


Un uomo su una striscia di cemento riverso al suolo, con la bocca gettata contro, sull’asfalto contro un pezzo di cartone sordido, una breve striscia di cemento a contenerlo su cui una miriade di invisibili passi indifferenti, frettolosi, continui si susseguono calpestano, ricoprono occultano la figura nel contrasto stridente tra il singolo e il foto-mosaico composto di infiniti ritratti di sconosciuti. Il ritratto dell’indigente appare ricoperto da diecimila immagini nate dalla combinazione digitale di venticinque foto degli individui più ricchi del mondo. Lui disteso al suolo, ricoprendosi di giornali, da cui notiamo la postura dell’uomo rovesciato a terra, gli scarponi laceri, la magrezza del corpo gettato, la testa occultata nella posizione dell’emigrato, dell’indigente, del reietto della società capitalista. La violenza è celata nel sottosuolo di sguardi indifferenti, nella cecità d’uno sguardo politico e collettivo su quella figura nudamente esposta al suolo, poi nel paradosso assurdo, esacerbato dal contrasto stridente tra la miseria del singolo e lo sfolgorio delle foto-mosaico ricomposte nel ritratto.





 Sulla guerra israeliano-palestinese









Immagini spettrali recentemente sono comparse sui quotidiani o alla tv dopo i bombardamenti sulla striscia di Gaza. Morti in strada, case distrutte, persone intrappolate sotto le macerie.
Abbandonano le loro case per cercare rifugio verso quei “margini protettivi” ritenuti più sicuri,
al centro di Gaza o nei campi profughi limitrofi. Carri armati continuano a bombardare, e contraeree sorvolano la regione lanciando attacchi aerei puntualmente e senza sosta. Di tanto in tanto un “cessate il fuoco” di qualche ora viene stabilito per raccogliere chi è rimasto sulle strade e altrettanto rapidamente infranto mentre i missili di Hamas o Tel-Aviv continuano a colpire indistintamente.
 La popolazione palestinese fugge, in cammino sulle strade ricoperte di macerie, tra i resti delle case bombardate, rase al suolo o distrutte verso i campi di rifugio o d'emergenza La rabbia è incontrollata, per le perdite inutili di vite dei civili, prime vittime nel conflitto, per le popolazioni palestinesi obbligate a evacuare le proprie case a migliaia, a ridursi a condizione di miserabili sfollati, profughi o emigrati di guerra, per la violenza inaudita celata nel sottosuolo esacerbato dall’odio, dalla rabbia e dalla vendetta delle opposte parti. Hamas utilizzando i palestinesi come scudi e martiri alla propria propaganda, Israele intervenendo e punendo Hamas e le sue piazzeforti in sistematici, continui attacchi aerei freddamente lanciati su precisi obbiettivi militari che indiscriminatamente colpiscono l’intera popolazione.
Tale striscia di terra appare condannata come è stato scritto a “un’insensata coazione a ripetere”, all’esasperazione di un odio divenuto nei decenni uno stato di guerra permanente, un conflitto irrisolto e irrisolvibile di cui la vendetta e la violenza divengono le sole armi di negoziazione.



(Da un evento di recente attualità)


Sulle spiagge di Gaza a ridosso delle onde del mare, le distese sabbiose, le barche dei pescatori,
 i capanni dei caffè dai colori vivi e brillanti.
L’obbiettivo militare degli aerei israeliani doveva colpire quel giorno in quel punto. Quattro ragazzini sulla spiaggia a giocare a pallone, a rincorrersi, a correre, scalzi sulla sabbia,
il vento del mare in faccia e il volto abbronzato dal sole, a piedi nudi sfidando la guerra per continuare a vivere normalmente, come se nulla fosse cambiato nelle loro vite dopo la ripresa degli attacchi, nella calura d’una domenica mattina per loro come tante altre.
Missili aerei, un primo colpo: un boato improvviso, un’esplosione tuonante a cielo aperto. Il cielo sembra aprirsi a mezzo illuminato a giorno come una sfera infuocata. L’obbiettivo manca il bersaglio, uccide quattro adolescenti che giocavano sulla spiaggia quella mattina.
Un primo colpo come se i proiettili fossero lì a inseguirli, i quattro corrono in preda al terrore verso l’albergo più vicino per cercare riparo; un secondo colpo, il petto di uno di loro è lacerato da un proiettile. Dalla spiaggia urlano, invano, per farli smettere come se gli artiglieri israeliani potessero in qualche modo sentirli.

I primi soccorsi arrivano dall’albergo, troppo tardi, le piccole vittime sono già morte, l’esplosione le ha scaraventate a terra , i corpi dissestati, il volto sepolto, sanguinante contro la sabbia. Vengono trasferiti il giorno dopo nella più vicina moschea per il compianto dei famigliari .
Doveva essere solo un obbiettivo militare, si giustificano le fonti ufficiali israeliane, l’uccisione è stata un tragico incidente.


Gunter Brus, Ana






Il corpo è ripreso in un angolo di stanza, contro un muro gettato, dentro una cella di isolamento sullo sfondo atono e grigio in cemento in una sequenza di quattro posture: prigioniero o testimone di guerra, corpo contratto, scavato o torturato, o ancora, danzatore di butoh nella contrazione dolorosa del proprio interno sentire; infine tale corpo diviene simbolo o emblema figurale della tortura, della violenza agita o auto-agita in questo gesto sacrificale d’auto-immolazione quasi che è il suo arrendersi alla nudità, all’esposizione assoluta e senza riserve di sé. Disteso, ora ravvolto, su sé stesso contratto, contro un muro gettato, la testa a terra contro la polvere, ora coperto, ravvolto in fasce, ora a lato raggomitolato, la testa al suolo, le mani e i piedi legati da bende, dentro il proprio ventre rannicchiato.


Paolo Gioli, Sconosciuti, 2006

Stampa di volto, quasi, in radiografia dolorosa del grido, la bocca aperta, semi-cancellata nel gesto tensivo, gli occhi oscurati, a metà nei tratti sfuocati dal bianco al nero, resi volutamente irriconoscibili.
Radiografia del volto nel grido trasposto su superficie di nera lignite e come impresso su una sacra sindone di cui restano trasposti i punti di incisione, i segni marchiati a vivo; qui la tela è puntellata in nero e rigata da profonde tracce, segnata, striata, incisa in una sorta di radiografia del corpo nel dolore. E' grido del corpo trasposto attraverso quel ritratto sfuocato, elusivo, che sfugge tuttavia al nostro sguardo come a una ultima definizione a sé stesso.


Francesco Jodice, What We Want, Jerusalem, R31, 2010








Muraglia Bianca in cemento dando su uno spiazzo circolare, l'agorà concentrica apre sulla distesa di bianche pietre sottostante, su una scalinata di bianchi mattoni,
sul sentiero bianco, collinare, di pietra portando ai campi aperti, alle vallate, alle terre coltivate e, più lontano alla cinta muraria della città visibile a distanza.
Un gruppo di individui, di militari forse dal colore delle magliette, seduto sui gradoni guarda la distesa calma, pacificante ai suoi piedi, in quell’anfiteatro naturale aperto tra le rocce;
resta li' a respirare quell’aria d’una inusuale quiete e a sentire quella pace quasi religiosa, quell’aurea spirituale, colma di preghiera e silenzio e insieme, della bianchezza impensata d’un moto proprio d’ascesa in un territorio così segnato da guerre, violenza e distruzione.
Muro bianco del pianto a Gerusalemme, bianca distesa di pietre e di passi discendendo verso la vallata e la città oltre la grata in ferro dello spiazzo circolare. Là dove la mano d’un profeta, d’un rabbino d’un predicatore indica all’aperto, alla via della pacificazione, la via luminosa di quella discesa non ancora percorsa, la via della salvezza e della pace in quella terra di morte e di devastazione, la via abbracciata da uno sguardo collettivo, ricompreso da tutti quegli sguardi uniti insieme nella contemplazione silenziosa del paesaggio.

Roni Horn, Becoming a landscape









Rocce rosse carsiche, rosse come terra del deserto, di Palestina o di Gerusalemme, lavate, levigate, o scavate dallo scorrimento delle acqua al centro, dal passaggio del tempo su quelle scorso, lago o piccolo ristagno d’acqua come una cuna o una culla scavata nelle rocca a lasciarsi cullare dai suoi flutti. 
Un piccolo incavo, un pezzo di mare è rinchiuso tra le sabbie rosse del deserto, mosso e scosso da correnti, ora metallico, immobile e argenteo come ghiaccio riflettente, ora schiumoso, in ebollizione simile a torrente d’acqua in piena rifrangendosi in ondate violente, ora aprendosi in strati su strati dalle sue profondità geologiche più antiche.










1Cfr. Luca Panaro, L'occultamento dell'autore, la ricerca artistica di Franco Vaccari, Edizione APM 2006