giovedì 15 giugno 2023

Obey, “Make art not war” ( riflessioni sull'arte liberamente tratte...)

 



Quattro le tematiche intorno alle quali si è svolta la mostra conclusa pochi giorni fa ai Magazzini del Sale  a Cervia in provincia di Ravenna_ donne, guerra, immaginario e ambiente_ paradossalmente in concomitanza con l’emergenza nella stessa area geografica delle violente  alluvioni e scompensi climatici che hanno stravolto in maniera inaspettata la quiete e laboriosa provincia romagnola. “Make art not war” “ create arte e non guerra” è la monografia e insieme l’excursus essenziale su uno degli Street  artist più noti in America e nella  blogsfera digitale  grazie ai canali mediatici e al web, ai suoi manifesti e t-shirt stampate e riprodotte in maniera seriale. Politicamente impegnato sul fronte della critica sociale Shepard Fairey, per tutti “Obey”,getta il suo sguardo ironico e disincantato sulle tematiche più scottanti del mondo attuale e soprattutto  del proprio paese realizzando nei suoi più noti manifesti un metissage singolare tra cultura pop, fotografia e grafica modernista.  

L’arte di Fairey sulla scia di altri noti predecessori come Banksy si dispiega attraverso le strade e gli spazi metropolitani sullo sfondo delle città di oggi, attraverso muri rubati e occupati da tag e manifesti; altrove, si sposta nello spazio virtuale della rete sulle pagine condivise del web e i suoi canali. Lo stile unico dell’artista emerge dalla combinazione personale tra muralismo messicano e avanguardia futurista russa in ritratti dai forti contrasti tra pochi colori vintage da un lato_ blu, rosso e nero_ e la necessità espressiva di un ideale condiviso dall’altro. Si immerge nel mondo contemporaneo con una imprescindibile punto di vista politico creando icone dissidenti rispetto al main-stream americano.


Come Obey afferma: “L’America è sempre più il paese del consumismo, il paese dove si mangia troppo, si spende il denaro che non si ha e si vive la propria vita come debitori, sempre in arretrato con i pagamenti. E’ il paese in cui si obbedisce.” Di qui l’ironia del nome che rovesciando la logica dominante del verbo “obbedire” incarna  ironicamente i panni di un’artista della controcultura divenuta nel tempo parte di un immaginario globale condiviso.

 “Stickers”, adesivi inizialmente incollati sui muri della cittadina natale americana, (il più noto: André the giant has a posse”) e più tardi manifesti di tutte le dimensioni hanno tappezzato la stessa intervenendo sul tessuto urbano, poi sullo spazio virtuale attraverso i social media fino ad occuparlo, imprimervi il proprio marchio in un appello visivo, fisico e sensoriale immediato atto a risvegliare una presa di posizione critica in chi osserva. Basti pensare al celebre ritratto di Barack Obama sottotitolato “Hope” realizzato in migliaia di manifesti per la campagna elettorale del 2008 che ha apertamente sostenuto l’elezione del primo presidente afro-americano negli Stati Uniti. La sua arte sulla scia di Banksy si vuole empatica, democraticamente condivisa sul web ma anche essenzialmente decisa ad affrontare tematiche scottanti come l’emergenza ecologica, le guerre, l’immigrazione spesso evidenziando le contraddizioni più palesi di un post-capitalismo globale del terzo millennio improntato sull’uso incondizionato delle tecnologie.  Vogliamo soffermarci in particolare su alcuni ritratti della serie, We the people esposti negli Usa nel 2017 in occasione della Marcia delle Donne: primi piani di volti femminili, il cui impatto visivo e dimensione estetica appaiono particolarmente significativi prima ancora di interpellare la critica sociale e il messaggio politico soggiacente. Emerge qui la forza espressiva e l’intimità di una storia raccontata attraverso un volto, in particolare nel dettaglio  espressionista dello sguardo per la serie dei ritratti.

 






“We the people” ( 2017)

Sono volti in primissimo piano di una limpida ed essenziale forza espressiva, semplicemente volti di donne:  afroamericane, musulmane, latino-americane scelte per rappresentare l’America come unità secondo lo slogan “we the people”, oltre e in funzione di tali differenze somatiche e culturali viste non come stigma o esclusione delle minoranze  da parte del discorso dominante bianco ma come forza inclusiva. Lì nel mosaico composito generato da tali minoranze risiede, secondo Shepard Fairey, la vera e più autentica identità americana da dover essere riaffermata con forza in tempi in cui la tendenza politica dominante nel paese con l’elezione di Donald Trump  appariva essere risolutamente  conservatrice e repressiva . Tali immagini condivisibili gratuitamente sul web dal sito dell’artista sono divenute simbolo della lotta per i diritti civili da parte delle minoranze. Rivendicano l’idea di una nazione più inclusiva e democratica per gli USA, una identità condivisa per sollevarsi oltre le discriminazioni o le palesi lacerazioni che ancora dilaniano il paese. La scelta delle tonalità a livello grafico attraverso il rosso, il blu e il bianco riprende volutamente i colori della bandiera americana riaffermando l’idealità whitmaniana di un’America vitale, unita e profondamente democratica proprio perché vista attraverso le sue mille sfaccettature, i tanti volti e diversi modi  di essere Americani.


Queste immagini di donne_ antidoto alla xenofobia e al razzismo diffusi nel paese_ risplendono in primo piano illuminate nella loro semplicità  e bellezza essenziale marcando una singolarità o differenza etnica e culturale: valore aggiunto di una identità collettiva espressa dalla variabile del  singolo e dalla sua peculiarità. Così il volto della giovane messicana dai capelli lunghi, mossi e corvini e gli occhi neri, grandi e profondi appare stagliarsi magnificente sulla carnalità delle labbra, di un rosso intenso che in contrasto al nero si ripete anche nel colore della maglietta. Un fiore rosso tra i capelli, una rosa secondo l’usanza messicana, e in primo piano il volto della giovane nella sua seducente bellezza. La giovane donna musulmana ritratta in primissimo piano in un altro manifesto è avvolta dai colori a stelle e strisce della bandiera americana che le funge da copricapo  secondo l’usanza delle donne islamiche mentre il viso dai tratti intensi e marcati, le labbra rosso vivo e gli occhi grandi e oscuri appaiono stagliarsi nella forza incisiva dei loro tratti arabeggianti sul velo a stelle e strisce. Ancora in un altro ritratto le treccine rasta dei lunghi capelli cerchiano il volto della giovane afro-americana dalle labbra carnose e i tratti marcati sotto lo slogan: “noi, le persone, ci proteggiamo gli uni con gli altri”. Ogni volta in ogni singolo ritratto condiviso sui muri è il volto come singolarità, differenza espressiva e significante nel melting-pot dell’identità americana mostrando una ricchezza e unicità da preservare; ogni singolo tassello di un grande mosaico di voci, identità e differenze.

Dalla serie  “Barack Obama” ( 2008)

Particolare rilievo, infine, meritano i manifesti di Obey dalla grafica straordinaria disegnati per la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008 che intendevano volutamente invocare un cambiamento politico e sociale per il paese, la svolta dalle precedenti forze politiche conservatrici e anacronistiche in senso utopico e democratico come sottolineato con forza  dalla figura di Obama. Citando McLuhan: “la maggior parte dei mezzi di comunicazione ha grande potere e influenza sulle persone. Il mio progetto invece vuole dimostrare come il singolo può ancora avere forte impatto sulla società; si tratta solo di tenere sotto controllo gli strumenti.[1]” L’arte di Obey si vuole fermamente incentrata su temi fondamentali di oggi quali la lotta contro l’emergenza climatica, il pacifismo o la giustizia sociale per contrastare violenza e discriminazione; un’arte decisa a cambiare o ricollocare la sfera politico-sociale del proprio paese_ l’America ma indirettamente tutta la società occidentale_ nel tentativo di abitare il presente ed esserne parte integrante. Il ritratto del nuovo presidente nel 2008, ispirandosi allo stile grafico di avanguardie storiche quali suprematismo e futurismo, incarna perfettamente questa idealità del volto in primissimo piano nel contrasto tonale del nero e del rosso, disegnato di luci e ombre, abitato da uno sguardo che si proietta lontano oltre il presente, abbracciando un destino differente per il proprio paese: una visione altra e utopica, forse irrealizzabile ma pure vista come orizzonte di pace e giustizia verso la quale tendere. La parola “hope”, speranza, come ultimo baluardo a cui aggrapparsi guarda lontano in questo appello deciso, chiaro e democraticamente rivolto alla nazione nella sua unità per invocare un’azione partecipativa, la svolta generata da un autentico coinvolgimento delle persone.

 

Diplomazia contro violenza: “Marianne” sulla guerra in Ucraina




“ Da quello che vedo, non importa quale sia la bandiera o l’ideologia che l’avvolge, la violenza è sempre motivata dall’ego, dall’avidità, o dall’impossibilità di cooperare in maniera diplomatica con gli altri. Nel caso dell’invasione ucraina credo che tutti questi fattori siano all’opera allo stesso tempo e molte persone stiano soffrendo in maniera ingiustificata. Questa immagine simboleggia il supporto al popolo ucraino e a chiunque creda che la pace sia preferibile alla guerra”.

Dare spazio alla creatività e alla diplomazia rispetto alla violenza; mostrare solidarietà al popolo ucraino, questi gli intenti del messaggio politico veicolato dall’immagine iconica rivisitata di una giovane donna “Marianne” simbolo della Rivoluzione francese in un primo tempo utilizzata dall’artista per rendere omaggio alle vittime degli attentati terroristici in Francia nel 2015. In questa nuova versione il volto della giovane è segnato da una lacrima blu che irrompe inaspettata  sulla natura epica e celebrativa dell’icona contornata di una ghirlanda di fiori nel contrasto violento del giallo e del blu sullo sfondo a ricordare la bandiera ucraina:  Make art not war” Create arte, date voce in maniera creativa al vostro potenziale umano e  immaginativo anziché alimentare la violenza, il conflitto fine a sé stesso e in senso più ampio la guerra su un territorio. Ancora una volta si parla di prendere una posizione chiara sull’attualità del presente per l’artista Obey veicolando valori democratici e un approccio costruttivo, impegnato sul fronte della resistenza attiva contro ogni forma di violenza e usurpazione. Anche in termini concreti i profitti ricavati da quest’opera sono stati devoluti in favore del popolo ucraino diffondendo un messaggio di solidarietà attraverso il web con i suoi poster riproducibili liberamente dal sito.

L’’arte si immerge nell’attualità e diviene militanza politica utilizzando il linguaggio del disegno e una grafica assolutamente unica intensa e inimitabile nel lavoro di Shepard Fairey creando immagini che come simboli o icone globali percuotono, risvegliano le coscienze e lasciano un segno.






[1] Cfr Sabina De Gregori, “Shephard Fairey in arte Obey” pag. 138