lunedì 20 febbraio 2012

Danza e poesia: "Medea", Carlotta Ikeda, Pascal Quignard, Paris-Villette



Una serie di quadri coreografati si susseguono su una scenografia essenziale iscritta in grandi  arcate intagliate a vivo nella pietra dello spazio neutro, denudato d’un luogo sacro. 
La scena vuota, lasciata al nero del fondo, nel silenzio una voce impersonale dai margini della medesima, riporta in luce il mito greco di Medea nella riscrittura poetica di Pascal Quignard. Uno dei miti fondanti della cultura occidentale rievoca qui la verità mostruosa, il terrore, la trasgressione dell'atto omicida compiuto da Medea verso i propri figli,  tale l'atto tragico o il punto di non ritorno che infrange le leggi della città e dello stato, l’ordinamento vigente come i limiti della soggettività aprendo a una dimensione tragica più antica, arcaica dalla portata altamente catartica.

Interiezioni di suoni, stridori, granuli di sabbia o sassi rotolanti a terra, rimbombi o eco di rumori provenienti da lontano rompono il silenzio di parole essenziali, scandite una a una nella purezza distante del racconto.  
Terminata la lettura, la scena si svuota, siamo nell’oscurità, in questa cornice d’una purezza sostanziale, tracciata, delineata dalla voce fuori campo in attesa che l'atto, l’ombra o il suo riflesso possa passare, apparire, lasciarsi affiorare.

Nel nero attendiamo, l’attesa, l’evento o la sua convocazione. Solo a questo punto, in questo luogo e momento preciso la danza può avere inizio.








 “Medea è la figlia del tempo, è il tempo arrestato in essa. A mezzogiorno, arrivato al più alto del cielo, il sole arresta la sua corsa, depone i suoi reni.
Mezzogiorno, Medea, medita.”

Primo quadro. Di fronte all’esilio, nell’abbandono del corpo, nel dolore della perdita, la donna venuta d’altrove, lasciato tutto, sacrificato il fratello per seguire lo sposo Giasone, di fronte al tradimento di quest’ultimo , si ravvolge su sé stessa, discende al suolo in gesti lentissimi, le mani intorno al capo, si raccoglie con i drappi dell’abito trinato seguendo le fluttuazioni del suo essere interiore, ora invocando le braccia verso l’esterno nel viso contratto, immobile, ricomposto in una maschera impassibile  di dolore. Ogni istante della sua presenza é abitato, scavato dall’interno in micro-movimenti di braccia e mani che coagulano densi, scanditi, goccia a goccia dall’uno all’altro mentre il corpo è in tensione al centro della scena.
Il viso é preso in questo tremore raccolto, incomprensibile, in questo tremare, tramare, pre-meditare un destino già là, iscritto, inciso, visibile infrangendo le leggi degli uomini e degli dei.

“Medea, meditando, la spada sul sesso, gli occhi chiusi. Chi è questa donna sulla quale cado, questo viso dalle palpebre abbassate, questo corpo immenso che affonda, il torso in avanti, le pesanti mammelle cadenti?”

Medea é nella luce affilata del mezzogiorno come nell’oscurità indicibile che la riassorbe al fondo della scena. Retrocede in gesti lentissimi, ipnotici, in passi impersonali, quasi portata,
sollevandosi dal suolo. Le braccia si dispiegano ora in orizzontale nel rosso del tessuto che l’avvolge; ne lascia cadere le coltri a terra come deponesse le squame d'una prima pelle al passaggio.
In questo semplice gesto, il volgersi improvviso della figura verso il fondo,
in questa linea incisiva del rosso, nel taglio netto della luce che s’apre al centro della scena per riassorbirla, che s’apre come un antro, un passaggio, la linea d’ un tessuto,
dispiegato, sollevato,
una linea  tesa, sospesa sul fondo, in questo gesto preciso il momento tragico può  portarsi a compimento.

Medea é corpo avvolto d’una luce crudele, omicida, nel bagliore accecante che lo precede, nell’orditura fredda del suo atto, nel gesto premeditato, nella risoluzione incomprensibile dei suoi occhi abbassati.
 E’ volto d’una straordinaria bellezza, nella lucidità spietata del dare la vita, dare la morte, portare la rovina, nelle trame ordite dalla sua mente.
E’ nella potenza accecante del sole come nella follia d’una luce bianca, incomprensibile;  porta in sé il potere della nascita, della fecondità, della proliferazione come, in un movimento inverso, “d’un tratto volgendosi semplicemente su se stessa”,  il sangue del la vendetta, il disseccamento della  morte, la potenza della distruzione.

Medea , maga,  cospargendo d’unguenti fatali l’abito nuziale per avvelenare la nuova sposa;
Medea,  all’ombra del palazzo in fiamme, tra le sue ceneri brucianti di polvere e fumo, oltre sé stessa, al di là dei legami di sangue e filiazione, procedendo verso una spaventosa alterità.
Nell’abito nero, nel tessuto nero che l’avvolge attraversa le soglie dell’umano;
è la maschera di cera o gesso immobile che la ricopre, nell’atto di morte freddamente perpetuato contro i propri figli.
Nella tempesta della glaciazione, nel gesto senza volto, nel terrore omicida , nel punto di perdita, nella luce tagliente del mezzogiorno,
nel punto più alto del giorno che illumina il suo volto affilato e inconoscibile.
Svuotandosi i viscei, la vulva come le ultime tracce del figlio non ancora nato,
tra le rovine del regno bruciante.




C’è un di dentro, un di fuori quando si nasce? C’era una volta, c’era un di-dentro ed è perso.
Il mondo del di-dentro comincia a perdersi nel grido nella prima nascita e continua a perdersi nel linguaggio senza fine”. 

I gesti lenti, posseduti di Ikeda, dalla presenza ieratica indiscutibile, vanno a cercare molto lontano, affondano  in strati spazio-temporali antichi, nascosti sotterrati al fondo d’un corpo-matrice incosciente di cui portiamo in noi, ancora, le tracce. Affondano in questa non-memoria ,  ritrovano l’innato del corpo al suolo, questa immagine d’un di-dentro-di-fuori nell’atto di nascere a sé stesso senza fine, stato oceanico d’unità con il tutto che implica una cancellazione del sé o il suo superamento, stato energetico di pura presenza, nell’essere, incarnato nella sua metamorfosi in infinite forme. La danzatrice  affondando nel mito di Medea attraversa una serie di tali metamorfosi , 
dal ripiegamento del corpo in abbandono, dall’esitazione di un tramare, tremare, premeditare, al terrore dell’atto inenarrabile, alla convulsione, all’annientamento del grido che ne segue.   

Ultimo quadro: Medea ritorna dal luogo di morte. Ikeda é ora vestita nella sobrietà d’un abito nero, velato, semplicissimo. E’ una maschera dal volto trasfigurato, dalla presenza inavvicinabile, nella potenza di tratti incisi, scavati come a colpi di  pietra. L’ultimo grido della lacerazione come il primo grido della nascita, é lanciato, emesso dai visceri del corpo in una specie di follia bianca, grido fuori di sé,  il momento estatico della danza butoh .
Il dissecamento della figura svuotata del proprio cuore, dei propri organi, é portata all’esterno in una sorta di revulsione, di contrazione del torso e degli arti al suolo. Danza nel pallore della morte, già con un piede sulle sue rive, nella dissoluzione lancinante dell’ultimo grido di fronte alla propria consapevolezza.








venerdì 10 febbraio 2012

...Liberamente suggerito da Krystian Lupa, "Sala d'attesa" ("Categoria 3.1" di Lars Noren) Théâtre de la Colline, Parigi







“Sala d’attesa” si situa in una zona liminale, zona di stazionamento, d'attesa indeterminata, attesa di non si sa che cosa, senza ragione, condizione apparente o casuale ritrovarsi d'esseri respinti ai margini, spinti fuori, sempre più rigettati sui bordi o volutamente errandovi in preda a strani stati di narcosi .
“Categoria 3.1” di Lars Noren è perdita di realtà,  perdita di sé stessi;
bassi-fondi della città, della scala sociale ma, anche, fondo della psiche, sottosuolo dell’esistenza cosciente, buco nero dell’anima dove sprofondare. E’ il fondo dell’animalità che portiamo in noi, questa zona interdetta alla norma, alla normativa del vivere sociale o morale, questo “di fuori”  che sfiora, si affaccia ai bordi della nostra esistenza cosciente, qui volutamente portato in scena, fatto esplodere,  passando attraverso la distruzione di individualità nell’ esperienza-limite della droga, dell’alcool o della malattia psichica.

 “Categoria 3.1 é un immenso materiale drammatico” afferma Lupa, un magazzino, una specie di deposito a multiple entrate, senza sapere esattamente cosa andarvi a cercare, cosa portare con sé varcandone la soglia. Testo magma, multiforme riserva di voci al quale attingere, questo materiale é in primo luogo una lingua, lingua che si situa ai margini del discorso, lingua che retrocede, discende a un livello più primitivo, precedente l’identità, aderendo allo stato lacerato dei personaggi. C'é tale discesa voluta anche nell'ambientazione, un parcheggio disseminato di rifiuti o una discarica impressa di graffiti, fatiscente bassofondo dove la scena si insidia . 
E’ una lingua  che delira insieme a chi la porta, che impazzisce urlando oscenità a piena voce, é una lingua che sputa, grida e inciampa su parole mozzicate, poi sogna ad occhi aperti  sdoppiandosi nell'immagine video come uno specchio interno al personaggio sotto l'effetto di qualche droga o per altri stati alterati di coscienza.

E' una lingua che impazzisce, che impreca, che strepita e affonda come questi corpi al suolo, rotola insieme a loro sul cemento colante di lordure, scorie e scarichi di rimessa, si rivolta nel fango dell'esistenza, manda in frantumi vetrate o bottiglie vuote. Poi, dal fondo della dissoluzione ritrova una parola altra, in limine. Sulla scena la ragazza sotto l'effetto di qualche narcotico erra in preda a stati allucinatori per arrestarsi d'improvviso  mentre gli altri continuano il loro guazzabuglio di strepiti e oscenità. L'immagine video s'apre ,  allora, sovrapponendosi in sdoppiamento su un piano parallelo, conducendo verso un'anteriorità,  uno spazio del  'di dentro/di fuori’ sprovvisto d'ogni verità psicologica:  uno spazio d'affioramento al limite della soggettività, brevi folgorazioni al margine di coscienza resi visibili della proiezione video. Tali stati affiorano come passaggi repentini tra  il corpo e la psiche, il baluginare di segni appena percettibili  nel fluttuare d'una semi-veglia, lampi o intermittenze della mente qui tradotti in immagini distanti, apparentemente disconnesse da quello che accade in scena, poi dalla voce dei monologhi fuori campo provenienti da un altrove; altra voce, altra parola per flussi poetici continui oppure per intermittenze, per tentativi frammentari, per scosse, esitazioni e riprese aderendo alla corporeità in azione. Superare le frontiere dell'individualità, trasgredire i limiti che sanciscono l'individuo all'interno di un sistema costituito, abbattere le barriere che lo separano da uno stadio d'essere più primitivo, più vicino all’indistinto significa, paradossalmente, avere accesso a un altro uso del linguaggio, aprire un'altro spazio d'essere nella lingua che invalida la comunicazione razionale,  tuttavia dandosi in folgorazioni improvvise, strettamente connesse all' esistenza sensibile, a stati fisici, corporei qui  esteriorizzati attraverso il monologo teatrale.




“Capita frequentemente che il linguaggio non sia in fase con la nostra anima, afferma il regista; momenti in cui le cose che vorremmo esprimere diventano difficili o impossibili a dirsi. La lingua ha un ruolo distruttore, ha tendenza a annullare, a comprimere, a reprimere l'essere umano a partire dal momento in cui trasforma i nostri pensieri, sensazioni o paure attraverso la mediazione della parola”. Il testo esplora stati di coscienza alterati, individui gravitando in uno stadio di sospensione atemporale, di indefinita non- esistenzia, rigettati in questo“di-fuori” del vivere comune, d'un pensiero razionale, d'un linguaggio atto a  esprimerlo. La dissoluzione dell’io , la perdita di realtà, la perdita di sé come depersonalizzazione, tuttavia, danno accesso, paradossalmente  a una zona franca, a uno spazio d’essere del linguaggio liberato dalle costrizioni della logica condivisa e d'un pensiero da essa formulato.

E’ tale caduta, il precipitare verso il basso delle vite dei personaggi, lì dove la maggior parte non vorrebbe discendere, non potrebbe, anche volendo andare,  che  da accesso a tale zona- limite della coscienza dalla quale fare baluginare segni, parole, indici da un altro linguaggio.
 “Tutti questi gesti segreti, misteriosi, gesti remoti, famigliari, nascosti, dissimulati, gesti che emanano un certo odore e una certa intimità non teatrale dei personaggi, sprovvista di psicologia proveniente, tuttavia, da un nodo di vita non drammatico, un nodo di vita denso, caricato, pesante da portare, mal costituito... E’ un teatro dell’assenza di intrigo, d’avvenimenti d’ordine mentale, affioramenti di materia, d’esistenza, l’esistenza che scorre e la materia misteriosa dei suoi richiami…”

Spetta al lavoro di messa in scena  far affiorare queste escrescenze, queste aperture brevi e impensate, questi frammenti scintillanti d’un qualcosa d'abitato, vivente che si lascia illuminare nella carne del personaggio-interprete. Il lavoro sull’attore, nella simbiosi che instaura con il personaggio, poi il processo di improvvisazione  sviluppato intorno al monologo interiore, divengono strumenti centrali  per la costruzione dell’atto teatrale in Lupa, cio' che  dilegua, necessariamente, ogni idea di intreccio narrativo, racconto o storia.  Tanto più che un circuito è stabilito tra l’attore in identificazione libera al personaggio e lo spettatore nell'atto del guardare, direttamente interpellato, scosso, chiamato in causa, a volte violentemente indirizzato, chiamato a entrare nel gioco drammaturgico. Nell’ultima scena tutti i giovani attori sono seduti in proscenio di fronte al pubblico, in questo sguardo lento che si prolunga, si sofferma, s'offre senza mediazione;  maschere nude portando con sé il tempo dell’attraversamento, la prova della scena, i segni della fatica, dello spossamento fisico e emozionale,  semplicemente dandosi in questa esposizione senza riserve, in un guardare che a sua volta, domanda un altro sguardo di ritorno, riflesso, senza risposta.

“Comprendere l'altro é coagire con lui, entrare nella sua parola”, forse fino alla soglia della sua pelle, afferma Lupa. “L'artista é giustamente quel folle che vuole comprendere altri folli”, discendere insieme a loro per poi tornare indietro, riportare alla luce la propria visione. “Affondo interamente nei testi che adatto, mi privo dall' inizio della distanza perché so che, comunque, non riuscirei ad abolirla completamente”. I giovani attori sono chiamati, allo stesso modo, ad assimilarsi, a incorporare o portare parte del loro  immaginario dentro la partitura dei personaggi attraverso il lavoro di improvvisazione sui monologhi. Da una parte devono scavare, ritrovare in loro gli stessi meccanismi psichici subcoscienti, le stesse pulsioni distruttive abitanti la loro generazione tesa verso l’età adulta, gli stessi germi patologici d'astenia, di disagio sociale, di malessere esistenziale. Dall’altra parte, è come se il testo di Lars Noren debba  ricongiungersi alla materia vivente della scena, corto-circuitare, farsi carne e sangue, azione riflettente, dunque modificare il proprio stato stabilendo in questo modo un punto di giuntura, una continuità tra lo scritto e la materia abitata dei corpi.
Afferma Lupa: “Non so perché ma questa zona apporta al nostro immaginario un flusso simbolico. Abbiamo voglia di cadere insieme a loro, d’affondare, qualche volta, nei loro sogni d’orrore”. Il testo, in questo senso, è trattato come una materia bruta alla quale attingere ma dove non restare imprigionati per rispettare la sua letterarietà. Trascendendo i limiti  della sua parola, funziona come un palinsesto, sovrapposizione di strati dove si indovinano tracce di strati precedenti. Gli attori, dunque, per primi sono chiamati a discendere con il  proprio corpo, all’interno del testo a cercare, ad attingere da questo versante oscuro o zona di insondabilità celata, non visibile tuttavia tanto più presente, ambigua, intaccata della  psiche.

Nel processo di improvvisazione si pone una situazione data, una limitazione spaziale, si creano le condizioni perché qualcosa possa accadere, uno spazio aperto perché  un avvenimento oppure la sua assenza abitata, l' irruzione di qualcosa o un niente carico di presenza possa attraversare. Un pezzo di muro, un antro fatiscente dove andrebbe a ripararsi un mendicante, il tempo d'un ora e una telecamera per fare sorgere qualcosa, creare a partire da uno spazio dato.

Accollarsi al testo  apportandovi un proprio sotto-testo in questo incontro tra attore e personaggio, lasciare fare al gioco dei monologhi improvvisati, come a un magma vivente che deve lasciarsi scorrere, colare liberamente su scena. E' giustamente nello spazio dell'improvvisazione, per strane “alchimie corporee e della voce” che le situazioni sceniche più giuste, più sintetiche e rivelatrici appaiono. Lupa nomina, qui l'idea di “sotto-testo”,  minuscoli “movimenti d'ombra”, movimenti abbozzati, appena accennati, lasciati sorgere come momenti di verità, la giustezza d'una situazione scenica, quello che si é incapaci di esprimere a parole, perlomeno le parole  in senso ordinario e che passa per il desiderio di liberarsi delle regole del linguaggio di realtà, cercando un altro modo di dirsi, un'altra libertà attraverso la voce e il corpo.




( Blanchot, “l'uomo non sa nulla dell'intrusione del basso alla quale é esposto, si trova  all'interno d'un sistema di valori che  ha altro scopo  di coprire e controllare l'irrazionale attraverso il quale é portata la nostra vita sulla terra. )