lunedì 2 dicembre 2019

Il sogno di Chagall (a Palazzo Albergati, Bologna)






















“Chagall sogno e magia” attualmente a Palazzo Albergati a Bologna ripercorre l’universo poetico e visionario, la dimensione onirica e immaginativa dell’opera di Marc Chagall a partire dal 1925 fino ai giorni nostri : il suo stile unico nella più totale libertà espressiva insieme ai temi ricorrenti di tutta una vita; la memoria d’infanzia nella cittadina russa natale si intreccia alla profonda spiritualità Biblica, infine l’amore come forza unificante e creatrice del suo intero universo poetico.

La stile originalissimo di Chagall nasce, infatti, come sintesi di tre culture che si intrecciano sul suo cammino: quella ebraica di discendenza famigliare ritrovata soprattutto attraverso la lettura biblica, quella russa dell’infanzia e della prima giovinezza da Vitebsk a S. Pietroburgo, infine quella europea, o meglio francese al crocevia di tutte le nuove avanguardie trasferendosi a Parigi dal 1910. Chagall,tuttavia, pur assorbendo alcuni elementi della nuova arte a stretto contatto con gli artisti dell’avanguardia persegue sulla sua via creativa con la più totale libertà espressiva in una visione unificante dove la vita e l’amore nutrono la sua arte, colorano il suo linguaggio e connettono in qualche modo il piano individuale e onirico della sua esistenza a un senso universale della natura e del cosmo.

Dopo alcuni anni trascorsi in Europa dove Chagall comincia ad acquisire fama internazionale l’artista decide di tornare a Vitebsk alla ricerca delle proprie radici, forse per quel legame primordiale alla propria cultura russa e ebraica. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trova in Russia costretto a restare nel suo paese durante la rivoluzione bolscevica fino al 1922; sposa Belle musa ispiratrice di tanta sua arte e nasce la figlia Ida. Dal 1923 ritorna con la famiglia in Francia dove resterà fino agli anni ’40, costretto allora a rifugiarsi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste come molti altri artisti ebrei in Europa. Una vita di erranza, di dislocazione e esilio scelto e imposto a lui da quel destino di “ebreo errante” cui il tema dell’esilio fa da sfondo alla metamorfosi creativa di un mondo reinventato dai colori della sua immaginazione. 



“Là dove sono queste casette ammassate, là dove il sentiero sale, là dove il fiume più ampio scorre, là ho sognato la mia intera vita. 

Di notte un angelo attraversa il cielo. 
I tetti delle case sono immersi in una luce abbagliante che predice per me una lunga, lunga vita. Il mio nome si solleverà sopra quelle case..

Popolo mio è per te che ho cantato ..è una voce che proviene dalle profondità riempita di tristezza e inumana melodia. E’ per te che ho dipinto fiori, foreste oscure, persone tra le case, come un barbaro ho sfregiato il tuo volto ma ti ho benedetto giorno e notte”. ( Marc Chagall)




Chagall e la Bibbia

“La Bibbia mi ha affascinato da quando ero bambino, mi è sempre sembrata la più bella fonte di poesia di tutti i tempi. (.. ) Un eco della natura che, insieme, rappresenta per me l’enigma che  ho cercato di cogliere da tutti i tempi”[1].





Chagall l’ebreo errante, il poeta da sempre alla ricerca delle proprie radici, l’esule o eterno esiliato in Europa dalla propria terra natale per scelta o per destino. Chagall tutta la vita trae ispirazione dai testi biblici, non smette di leggerli, tradurli, interpretarli e  restituirli attraverso la propria arte. Negli anni '30 si reca in Palestina nel corso di un viaggio sulle tracce dei luoghi sacri, in Terra Santa  alla ricerca della storia del popolo eletto. Dal viaggio scaturiscono sessantasei stampe realizzate tra il 1931 e il 1939, poi una serie di incisioni a tema biblico permeate dalla luminosità intensa della terra palestinese, dai colori caldi e vividi riscoperti a contatto con i luoghi sacri e, insieme, di una rinnovata fede spirituale che investe della sua natura divina l'uomo come ogni aspetto del cosmo.   L’esodo del popolo ebraico dalla terra di schiavitù in Egitto alla terra Promessa nell’Antico Testamento al centro di tutte le incisioni diviene paradigma e possente allegoria  nella pittura di Chagall delle persecuzioni del popolo ebraico in epoca nazista in Europa fino al tragico esito della shoah. Si situa, là, forse anche per Chagall il tentativo di interrogare la propria identità insieme russa e europea, cosmopolita e intrecciata alle radici culturali ebraiche nella propria infanzia a Vitbsk pur non appartenendo strettamente a quella religione e cultura, non a una terra in particolare, lui che da sempre aveva scelto di ricreare con la sua pittura un mondo onirico e immaginativo per riscrivere e abitare quello reale.

“Davide e Golia” (gouache)

 Al centro il gigante Golia sconfitto al suolo e circondato da una massa di folla mentre il giovane re Davide sul trono innalza nel canto un inno a Jaweh e al suo popolo. Nell’ accumulo delle figure in cerchio troneggiano i colori espressionisti delle tuniche rosse e gialle di Davide e Golia poi il verde e l’oro della veste del re e della sua corona. Davide canta e suona per Israele, la sua terra, il popolo eletto e lui il prescelto, celebra un inno grandioso a Dio avvolto dalla luce solare di Palestina. È la luce di un Dio che lo privilegia, lo gratifica e lo pone a guida e al centro del suo popolo. La saggezza e la forza di Davide rispendono dell’amore assoluto che Dio gli dona o gli concede e la grandezza luminosa del giovane inonda con la sua musica e danza la folla sotto gli occhi di Jaweh.

Giosuè” in un’altra   incisione arresta il sole in un raggio rosso pronto a inciderne la tunica bianca in primo piano mentre il popolo si staglia come una nuvola ocra sullo sfondo. Giosuè ancora appare guidato dall’angelo mandato da  Dio che avanzando gli apre il cammino, la testa rivolta indietro, lo sguardo a contatto con il suo sguardo per condurlo senza indugio mentre il corpo dell’angelo avanza nella direzione opposta a quella del giovane. E ancora, Mosè prima dell’esilio biblico immerso in un blu celestiale, poi in un rosso rivelatorio riceve le tavole sacre, la legge delle Scritture affidatogli da Dio per Israele. Infine le acque del mar Rosso sono viste aprirsi nel gesto possente del profeta, la guida, colui che conduce ed è a sua volta condotto dalla volontà di Jaweh . Nel disegno quasi espressionista in pochi tratti di colore si staglia il giallo vivido e intenso della tunica di Mosè, le grandi onde bianche e bluastre sospinte ai lati dal nugolo di folla in rosso, infine l’angelo del Signore che sovrasta la scena per permettere al popolo ebraico di fuggire dall’Egitto.   

“Dream room”. Immagini in movimento dall’opera di Chagall ( video-installazione)



Le figure si sollevano in volo portate dalle ali dell’amore, del sentimento o della fantasia: sopra i tetti di Parigi Belle sospesa in volo afferra la mano del pittore ancora a terra in abito nero. Il sogno ad occhi aperti contagia la realtà e i tetti delle case, i quartieri, i paesaggi si tingono di verde, le strade di blu o di rosso secondo l’emanazione sensibile, luminosa e soggettiva di ogni momento. Mazzi di fiori di fronte a noi nella loro forma espansiva, vibrante di luce, ora rose bianche si accompagnano a visioni di angeli, celestiali figure o a una giovane sposa. Bouquet rossi e creature alate simili ad animali antropomorfi scorrono sul video in forme sinuose e irreali, a testa in giù, poi, un gallo viola compare in primo piano sullo sfondo blu e una luna a metà disegnata; accanto il profilo animato della torre Eiffel. 
Tale animale è simbolo in Chagall di una forza viscerale e insieme vitale nella creazione.

La sposa: scintille di luce cadono su di lei a pioggia eterea, segue il volo oceanico degli innamorati, fluttuanti, stretti insieme in amorevole cura. Lampi e uragano irrompono sul video all’improvviso: l’oscurità, l’esodo dalla città natale. Un ospite alato e nuvole bianche scorrono sullo schermo mentre un angelo suona la cetra. 

Un cielo stellato, scintillante fa da sfondo alla figura del musicista, saltimbanco o artista di strada. Il suo volto è dipinto in verde, la sua giacca in blu e violetto; alter-ego del poeta sullo sfondo della città straniera.

Un mondo è ricreato dentro questo sogno ad occhi aperti di Chagall: una pioggia di fiori, un cavallo alato, Belle la musa ispiratrice, un sole rosso infuocato sullo sfondo del cielo blu oltremare.

Un angelo giunge in sogno a visitarlo, una pioggia di fiori. La creazione è vista avvolgere e avviluppare del suo moto continuo un cosmo mosso dal fluire universale dell’amore come forza unificante là dove gli amanti sono visti sollevarsi in volo sullo sfondo della città che rimpicciolisce a distanza lasciandosi alle spalle l’incubo dell’esilio e della guerra.

Una nuvola bianca, una stella rilucente nel firmamento divino.

Parole scritte sulle pareti dei cieli in controluce all’oscurità dilagante; parole limpide e luminose, solari e stagliate contro le pareti di tenebre della notte. 

Il divino e l’umano si intrecciano nell’universo di Chagall impregnato di fede e spiritualità.


“Il gallo viola”, “gli innamorati con l’asino blu      

Nubi minacciose incombono sulle tele a partire dagli anni ’30 mentre i colori si iscuriscono e le ombre aumentano insieme alle effigi tragiche del Cristo che accompagnano quelle dell’ebreo errante. Nel 1939 Chagall è costretto all’esilio negli Stati Uniti e, successivamente, esposto al dolore terribile dell’improvvisa scomparsa della moglie Belle. Smette di dipingere per qualche tempo ma l’arte rimarrà sempre la risorsa estrema che lo salva dall’ oscurità e dalla disperazione. 

Devo dipingere la terra, il cielo, ciò che porto nel cuore, la città in fiamme, la gente in fuga, i miei occhi pieni di lacrime, o devo fuggire, verso chi E volare via..”[2] 

L’artista  rientrerà in Francia definitivamente nel 1948, stabilendosi nel Midi e ritrovando una rinnovata felicità creativa accanto alla nuova moglie Vava a partire dalla fine degli anni ’40. Nei suoi quadri ritorna estensivamente il tema e la presenza allegorica dei fiori, accanto agli autoritratti simbolici di sé come dell’inizio di una nuova vita.   

Chagall scrive a proposito delle sue scelte cromatiche: 

Il colore trascende le forme, è la forma dell’emozione, del sentire e non è ristretto alla realtà. Si muove e da origine alle tele nei loro voli e fioriture[3]. 

Il colore è fantasmagorico, soggettivo, vibra di luce insieme alle sensazioni colorate che emanano le tele, ora in una visione evidentemente più rasserenata rispetto agli anni ‘40. Le tele si colorano di blu, le finestre aperte lasciano entrare,come afferma Chagall, l’aria blu, l’amore e “i fiori per dimenticare le tragedie della vita”. Sbocciati, riempiono nuovamente le tele e proliferano in forme aperte e rose bianche oppure in mazzi fluorescenti e colorati .



Un fondale intensamente blu riempie  in modo immersivo la tela in “gallo viola” (1966) mentre il poeta in uno dei suoi autoritratti in costume rosso circense porge un mazzo di fiori luminescenti e colorati alla giovane sposa seduta su un asino verde, e un gallo indaco appare in alto a testa in giù a scrutare la scena. Il mondo naturale di cui i fiori, gli animali, gli oggetti simbolici disseminano il paesaggio sono avvolti e  ricompresi, ancora una volta, dentro questa visione più ampia del cosmo intrisa di un profondo senso religioso dove tutto si connette e ritrova nell’unità una propria completezza. 
L’amore inteso come forza unificante è, generalmente nella visione chagalliana ciò che unisce la natura e lo spirito perché come si narra nella leggenda hassidica:  “quando il fiume dell’amore divino si riversò nel vaso del mondo questo si spezzò in migliaia di frantumi dando vita alle singole cose in ognuna delle quali era rimasta una scintilla dell’amore divino”[4].

 Gli innamorati con l’asino blu” (1955)

Nell’abbraccio oscurante della notte due amanti stretti insieme in una visione intima del quadro appaiono avvolti in una linea continua  che dalle loro teste prosegue fino al capo dell’asino in blu in una simbiosi totalizzante tra tutti gli elementi: le figure umane,  il profilo dell’animale, il mazzo di fiori espansi a lato, la piccola luna calante ai loro piedi. L’abbraccio amoroso della notte inonda pervasivo tutto l’insieme.




Ritratto di  Vava”.

Quando gli alberi divengono minacciosi e il cielo svanisce nella distanza i tuoi occhi mi toccano.
Quando ogni passo è perduto sul prato, quando le onde si muovono rabbiosamente nella mia mente e dal blu qualcuno mi chiama, con te sono giovane.

 I miei anni cadono come foglie e qualcuno riempie di colore le mie tele così che esse risplendono per te.  E il sorriso sul tuo volto è radiante, più brillante delle nuvole più brillanti, così corro là dove sei, 

là dove pensi a me e attendi me.” (Chagall, “A Vava”)

Il fondale è rosso, il volto bianchissimo e puro incorniciato dai capelli corvini, la figura netta e limpida appare in primo piano nella camicetta bianca e la gonna blu. Un mazzo di fiori meravigliosi e aperti in una fantasmagoria di colori sono lì accanto a lei mentre l’autoritratto dell’artista si staglia, indaco in profilo sullo sfondo, per ricomprendere ancora una volta i due esseri nell’ incanto della natura e nel fluire dell’amore universale.














[1] Cfr.Chagall, Sogno e magia, Catalogo della mostra, 2019
[2] Cfr. Chagall, Sogno e Magia, Catalogo 2019
[3] Ibid.,
[4] Cfr. Chagall art dossier, pag. 47

lunedì 16 settembre 2019

Un libro e una città: Marguerite Yourcenar a Ravenna









Scriveva Marguerite Yourcenar in visita a Ravenna nel 1935 a proposito della città in un articolo poi confluito nella raccolta postuma “Pellegrina e Straniera”( 1989):



“Per queste strade fiancheggiate di case basse, dove di tanto in tanto esplode il banale fragore di una fanfara, tra negozi che espongono le loro lusinghe fuori moda, ogni tanto emana il sentore di noia delle giornate troppo lunghe, dei doveri monotoni, e l’Invidia è il più vezzeggiato dei sette vizi capitali. Le sole chiese_ nascoste qua e là dietro le loro facciate di mattoni ruvide, quasi sotterranee, accessibili solo attraverso corridoi lunghi e sinuosi_ si aprono come spiragli di un mondo dell’anima”.

 “Non c’è altra città dove si risenta maggiormente dello iato tra interno e esterno, tra la vita pubblica e la segreta vita solitaria. Sulla piazza il sole riscalda le sedie di ferro di fronte la porta di un caffè. Bambini sporchi, donne debordanti di maternità sfociano nelle strade tristi. Ma qui in questa purezza di tenebre, ben presto resa trasparente dall’abitudine, rilucono qua e là fuochi limpidi, come quelli di un’anima in cui lentamente si formino i cristalli della sventura.”

“Uno dei confini di Ravenna sta in questo confine dell’immobilità con la velocità suprema; essa conduce alla vertigine. Il secondo segreto di Ravenna è quello dell’ascesa nel profondo, l’enigma del nadir. Letteralmente i personaggi dei mosaici sono minati: hanno scavato in sé stessi enormi caverne nelle quali raccolgono Dio. Affondati nelle viscere dell’estasi partono alla ricerca di un sole di mezzanotte, ai mistici antipodi del giorno. La loro esperienza contraddice lo slancio gotico che tende le braccia a Dio. Rinchiusi in un sogno, imprigionati sotto la campana da palombaro delle cupole, sfuggono alla frenesia del mondo nella serenità del baratro.”  

In una simile parabola di “sogno, silenzio e catalessi” definisce Ravenna la scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar; un’imprescindibile  contraddizione resta qui insita tra lo splendore del passato_ gli ori dell’epoca imperiale, le basiliche irridenti di luce, di blu oltremare e verde smeraldo degli antichi mosaici_ e il lento inesorabile declino che seguì nei secoli successivi della dominazione ecclesiale. Di quell’immobilità facevano specchio i corsi d’acqua stagnante, le paludi, gli acquitrini di cui la città era circondata come le mura e le roccaforti che ne cingevano il perimetro esterno.

Tale immagine apparve a molti e illustri visitatori di Ravenna nel passato, per prima la Yourcenar,  una città dai colori e le prospettive infrante in un prisma riflesso tra ciò che era e non è più_ baluginante di splendore_ e l’aspetto immobile e austero, riservato e schivo che gli ha impresso addosso la storia successiva. Eppure, in quel prisma dovrebbero comparire, oggi, anche altri riflessi: la città tale che potrebbe essere domani, la città nel mentre del suo trasformarsi e divenire altra oggi, infine il volto segreto del centro antico dove scorci di basiliche e mausolei, archi in pietra a vista o esedre si lasciano intravvedere tra l’azzurro del cielo e il verde della residuale pineta.
Là, riflessi d’oro e cieli stellati avvolgono le cupole al loro interno.  
 

Forse vorrei invece parlare qui di un’altra città, di un volto differente, nuovo e inedito che esula dal centro storico, dalle case basse, serrate all’esterno e i sentieri bianchi in pietra a vista:  antico sepolcro di una capitale d’epoca gloriosa e remota. Vorrei parlare di una via navigabile, di un canale e una zona industriale esterna le mura costeggiando la quale si giunge attraverso la pineta alla porta d’accesso al mare. 
Vorrei parlare di una via aperta, percorribile dall’immaginazione, che attraverso le acque collega idealmente l’antico polo culturale della città alla fascia verde, balneare e costiera. Vorrei parlare un canale artificiale e un vecchio porto, la Darsena circondato da stabilimenti produttivi, aree libere e altre dismesse che sarà  riconvertito nel progetto di recupero urbanistico previsto per Ravenna nei prossimi anni.

Sembra ai miei occhi che questo passaggio di prospettiva trasformi la piccola vita di provincia di una cittadina statica e conservatrice in una ventata di freschezza e vitalità che traspira il sentore del mare, la salinità delle acque, i colori della verdeggiante pineta.
Qui, aghi silvestri si intrecciano a millenarie cortecce e chiome di pino sempre-verdi mentre la cinta muraria apre le sue porte a un fuori periferico, rigoglioso e costiero.  Il progetto della nuova Darsena attraversa e incorpora l’apparato industriale, il porto commerciale ricostruito a partire dagli anni ’80 per giungere ad aprire una finestra sul litorale adriatico. Quest’arteria commerciale, fulcro economico dalla città, balugina di infra-strutture: costruzioni industriali e container luccicanti di acciaio e cemento frammisti a mucchi di sabbia, ghiaia e colossali impianti chimici.
 


In particolare nella zona Baiona si fronteggiano da un lato le strutture futuriste, luccicanti e tentacolari del nuovo polo ravennate_ i ritmi frenetici, i suoni assordanti e le ecclettiche illuminazioni_ dall’altro  le piallasse stagnanti, le acque verdastre nell’immobile luce solare e le reti tese dei capanni da pesca. Rimandano al silenzio della fine del giorno,
a spazi ampi e vuoti, a un tempo dell’inerzia, dell’attesa.
 In tale specchio deformante un’immagine della città si riversa nell’altra: l’immobilità e la folgorante innovazione, la vacua lentezza e la velocità suprema che conduce alla vertigine. 
E, ancora, è la dicotomia tra il dialogo aperto con le nuove culture o etnie straniere e l’occlusione dei vecchi cerchi cittadini.

In tale prisma infranto vedo Ravenna e i suoi molteplici volti oggi ma, anche, in un corso d’acqua artificiale lungo il quale si sposta il nostro sguardo: punto di contatto, forse, tra le due anime eterne della città.



Fotografie di Ravenna industriale di Enrico Fedrigoli








martedì 30 luglio 2019

"ALL WE EVER WANTED..", Julian Charrière ( al Mambo di Bologna)





























"All we ever wanted was everything and everywhere”,Julian Charrière ( immagini liberamente tratte dalla mostra)

Prima luce dell’alba, paradiso perduto, noci di cocco divenute ordigni nucleari
Finzione nel cuore del Pacifico
Non siamo al di sotto, non al di sopra ma all’interno dell’oceano
Affondati dentro le acque per scrutare il sole atomico e oscuro dell’isola
in mezzo a promesse infrante dove eravamo soliti fluttuare.”


Iroojrilik, (Video 2016)

Nelle isole Marshall, varie imbarcazioni militari furono portate dall’esercito americano nell’atollo di Bikini per sperimentare diverse bombe atomiche. Questa specie di flotta fantasma, giace al fondo del Pacifico, là dove gli Stati Uniti avevano posto le loro basi logistiche per testare gli ordigni nucleari. Lì furono deposte,  lasciate all’erosione lenta e inarrestabile dell’oceano al fondo delle acque insieme ai bunker costruiti sull’isola per documentare i lanci atomici.  Avamposti di una fantomatica impronta coloniale, essi si ergono nella loro massa di cemento estraneo come  intrusioni violente e brutali sul territorio, in un rigurgito di materia difficilmente assimilabile dal processo di rigenerazione naturale. 
Charrière filma tali strutture atomico-industriali al largo del Pacifico insieme ai relitti depositati al fondo della laguna divorati dal tempo e dalle maree. Le immagini originali scattate dalle immersioni sottomarine evocano l’affiorare di una nuova Atlantide, riemersa dall’abisso come l’ombra sommersa di una civiltà perduta.






La prima immagine che si imprima nitida ai nostri occhi dal video è questa spiaggia arsa dalla calura incontenibile della crosta terrestre, surriscaldata come se la terra fosse preda di un processo di graduale auto-combustione, nella secchezza inumana della pietra divenuta roccia carsica in assenza d’acqua e di vita. Un sole rosso infuocato e immobile, semicoperto dalla densità nebulosa dell’atomica si erge sulla superficie opaca della crosta terrestre.

Una seconda immagine: le profondità marine. La vita scorre al di sotto, attraverso forme infinitesimali, acquoree e indistinte dove fluttuano molluschi, piante, alghe e anfibi d’acqua in un rifiorire di vita semi-sommersa e rigogliosa nelle profondità del fondo marino. Una grande corazza ferrosa e pesante simile al relitto del naufragio biblico domina incrostata di muschi e alghe al centro di quell’immensità oceanica.
Rocciosa e gravida di scorie la costa a riva è sovrastata dalla grande nube atomica, esplodente o a esplosione fissa. 
Costruzioni, blocchi di cemento armato si ergono oltre la foresta amazzonica in piccoli squarci aperti sulla spiaggia arsa in mezzo all’oceano. Tale luogo di una natura primigenia e incontaminata diventa non-luogo violato dall’irruzione della presenza umana, usurpato e devastato dalle scorie degli ordigni atomici. Un sole rosso infuocato sovrasta la spiaggia granitica e solarizzata dopo  la grande esplosione.

I detriti pesanti sono al fondo, come una grande macchina da guerra o sottomarino affondato e ricoperto di muschi e piante acquatiche. Inquadrata a distanza ravvicinata un’immensa zolla di terra fluttua pesantemente tra le acque; poi, sulla costa  si snodano stormi, alberi e foreste pluviali, palme e felci coralline ancora frammiste a cemento e buchi neri: una varco in ferro  intaglia uno squarcio oscuro sul blocco armato del bunker americano .

"All we ever wanted ..." (installazione)








 Di quel teatro sottomarino di navi sommerse nella video-istallazione bolognese resta solo un’elica in primissimo piano  ricoperta di muschi e alghe marine, quasi a segno della deriva di scienza e civiltà prodotta da un’ideologia di illimitato progresso e indiscriminato dominio dell’uomo sulla natura. Là, ricerca scientifica e tecnologia sembrano aver dato all’umanità il potere di auto-distruggersi nella detonazione di qualche secondo, in un battito di ciglia, per un ordine dato dall’alto, per un calcolo errato di probabilità oppure per l’innescarsi in pochi istanti di un qualche ordigno devastante e distruttivo per l’intera umanità.

L’oceano se l’è ripresa, l’ha ricoperta della vita propria delle piante, delle alghe e dei flussi marini, l’oceano l’ha riappropriata rendendola un relitto singolare, un oggetto totemico, simbolico, ritualizzato dallo scorrere delle acque che goccia a goccia l’hanno ricoperta, avvolta e arresa alla potenza inarrestabile per quanto sommersa delle profondità oceaniche. 
Un abisso silenzioso e immobile in primo piano_ 
in questo mondo di mezzo, ultra-regno marino dove domina il silenzio assoluto, la non-assenza di forma in sé, l’arrendersi della vita allo stadio liquido e primordiale delle acque_ 
solo qualche  pulviscolo bianco e infinitesimale, simile a pioggia, cadenza goccia a goccia nel silenzio avvolgente e si lascia udire sullo sfondo del grande respiro cosmico.  
Come in un ritorno all’immensità acquatica della natura che silenziosa avvolge e avviluppa tutta la scena,
quel rudere pesante in metallo è ripreso dalla forza incontenibile e illimitata delle acque.

Nello spazio immenso, soffuso e tenue della galleria dove la luce divaga a tratti, il cammino per raggiungere quell’unica finestra aperta sull'oceano  è accidentato, costellato di massi e punti metallici grevi, pesi e ostacoli che spezzano pesantemente e si frappongono al suo libero scorrimento. 

Solo la bianchezza lieve e trasparente dei sacchetti d’acqua salata appesi, composti insieme in lampadario di cristalli liquidi, scorrevoli allo sguardo, restituisce leggerezza a quell’ ambiente carico di ombre e multipli riflessi, ingannevoli nell’oscurità. 

Un respiro emana dal sottofondo ritmico della sala, lieve,  appena percettibile lasciandosi avvolgere dal silenzio che precede  il comporsi di una melodia o segue il battito innato di un cuore o di un respiro; qui Charrière  convoca quel “sentimento oceanico” concetto freudiano che è insieme dissoluzione del sé e compenetrazione in una totalità più grande dell’ universo, in una unità universale associata all’anima o a Dio.





"Silent world" (installazione)











L’acqua rischiarata dalla luce lunare ricompare nell’ installazione lasciata in oscurità nell’ultima sala al fondo dell’esposizione. Lì sono i sommovimenti intimi, impercettibili quasi, ora violenti e inaspettati, i flutti continui delle acque nel riflesso lunare mentre un baluginare di luci si inseguono e si riflettono sulla superficie. Come in un film muto dove non esistono dialoghi, parole ma solo accadimenti, sguardi, o l’affiorare limpido dei volti  la serie continua dei fotogrammi si susseguono l’uno all’altra mentre la luce irradia a tratti e s’apre sulle profondità immobili e divoranti delle tenebre. Luce che viene dal fondo, dall’oscurità della pelle, del tempo o della memoria, qualche volte dal sussurro o dal canto dell’anima,  irrompe per sprazzi o guizzi improvvisi, mentre spirali libere e fluttuanti si disegnano, affiorano, prendono forma e poi dileguano per essere riassorbite dal nero del fondo. 

Si creano o si rendono visibili là dove c’è movimento, mobilità e vita. Dall’oscurità immobile scintille d’acqua generano nuove forme , superfici riflettenti, immagini in movimento.







“Where water meets…” (fotografie)


Charrière cattura con la fotografia alcuni tuffatori subacquei mentre si immergono nell’abisso delle grotte calcaree messicane, dette cenotes  mentre fluttuano lentamente e scompaiono in una nuvola sottomarina.

Là dove l’acqua incontra la durezza della pietra, la profondità dell’abisso, l’idea di vita che senza sosta rinasce, germoglia e si rigenera;

là dove l’acqua incontra la pietra, la porosità della roccia calcarea che ritorna alla memoria liquida del prima; 
dove conchiglie marine ricordano d’essere stati pesci, anfibi o creature d’acqua. 

Là dove l’acqua incontra la superficie levigata e calda dei sassi sulla riva insieme al calore che li avvolge e li riscalda trattenendoli sulla sabbia a ridosso della costa.

Là dove l’acqua incontra la massa vischiosa e impregnante del fango, la densità dell’arenaria, la motilità del limo invischiato alla sabbia nelle maree;
là dove l’acqua incontra la profondità oscura di buchi neri e spaventosi che s’aprono sotto il fondale di pietra di alcuni tratti
poi, la trasparenza limpida d'altri mentre la superficie si veste delle sfumature del fondale al di sotto: riflessi smeraldo, ora madreperlacei variegati di luce, d’azzurro o di verde marino.






martedì 4 giugno 2019

"OLIVIERO TOSCANI' S MAGNIFICENT FAILURES, al MAR Ravenna








Oliviero Toscani, ovvero più di 50 anni di meravigliosi fallimenti là dove l’errore, la caduta, il tentativo o il percorso in via di definizione sono visti dal fotografo come pura possibilità, sperimentazione o ricerca “in progress” altro dal sentirsi arrivati per aver definito uno stile peculiare o essere giunti a un punto di indubitabile affermazione. Per Toscani, al contrario, fotografare significare costantemente uscire dai sentieri battuti, rompere gli schemi etici, estetici o di costume, le categorizzazioni entro cui la società e dunque l’arte dell’immagine pensa sé stessa in particolare rispondendo a logiche di mercato o di profitto alla base di molta fotografia commerciale d’oggi. “Sono un testimone del mio tempo con l’arte che conosco, la fotografia, usando un cervello, un pensiero , un cuore”, afferma Toscani, anche e soprattutto nel contesto della foto di moda dove l’artista riesce a ritagliarsi uno spazio di indipendenza, libertà e critica sociale con Benetton in Italia a partire dagli anni ‘80. La retrospettiva su Toscani attualmente al Mar di Ravenna ripercorre la carriera del fotografo con oltre cento scatti che spaziano attraverso le sue campagne più famose su temi come il razzismo, l’omofobia, la pena di morte , la guerra, anoressia ecc. 


L’artista deve “avere il coraggio di essere contro”, afferma Toscani perché “il conformismo uccide la creatività e finisce per annientare l’umano”; deve avere il coraggio di affermare una propria soggettività attraverso uno sguardo, cioè il proprio modo unico, assolutamente soggettivo, parziale e forse a tratti distorto o velato dalle proprie ombre, eppure non schiavo dell’industria culturale o dal processo di omologazione e appiattimento culturale in atto. Se, come egli afferma, non esiste un’immagine unica di realtà ma che la fotografia è l’immagine attraverso la quale rendere la propria visione, dare ad essa una storia, uno sguardo e un colore, farne, insomma, la propria immagine, “bisogna essere bravi autori: usare la fotografia per vedere quello che si vede, non quello che si guarda”.



Progetto “Human Race”









Toscani fotografa decine di migliaia di volti, visitando città, piazze, paesi in Europa e nel mondo fino a rendere le strade il suo studio itinerante nel corso degli ultimi anni di lavoro. “Impronte somatiche catturano i volti dell’umanità”, la morfologia degli esseri umani semplicemente secondo il fotografo per capire a un primo livello “come siamo fatti”, nelle nostre differenze somatiche, sociali e culturali come umanità. Una infinita galleria di ritratti di una anonima serie di volti, le fotografie non sono mai casuali istantanee ma osservazioni minuziose,attente e approfondite, non la semplice copia ma un’ appropriazione sottile dei volti in primo luogo per giungere a catturarne un’essenza di verità. 



La razza umana appare qui come una soggettività collettiva, una miriade di sfaccettature, un prisma colorato e multiforme, l’apparente composizione o collage di volti che insieme giungono a comporre questa immagine multipla e sfaccettata, rizomatica e interconnessa che in sé stessa confuta una visione unilaterale e monolitica della nostra società. L’intero spettro dei volti, come una vibrazione fatta di tutte le frequenze possibili è là per frantumare l’idea omologata e globale di un sistema dove tutto si uniforma, si clona, si copia e si riproduce in assenza di un originale. La fotografia qui, ancora, visualizza nella sua essenziale messa a nudo dei volti la coesistenza e la forza intrinseca a tali differenze costitutive della nostra contemporaneità, del nostro reale metissage etnico e sociale, culturale e di vite . I ritratti frontali, a colori, rappresentati con uno stile essenziale e diretto, prima di ogni manipolazione o contraffazione dell’immagine, si vogliono uno studio del volto, un modo di esporre una differenza semplicemente guardando. 







Esporre il volto "nudo"di fronte all’obbiettivo, è forse nell’idea di Toscani, voler inseguire l’aspirazione ultima e assoluta di ogni fotografo: riuscire a cogliere attraverso l’immagine "l’irrappresentabile", vale a dire attraverso la materia del mondo lo spirito, assoluto, eterno e lieve che la abita, la sua anima. Sono individui associati a etnie e tipologie fisiognomiche precise di ogni età e estrazione sociale , volti scorti in strada, in grandi metropoli come New York o New Dehli o sul sottofondo di luoghi sperduti, marginali o ai margini della terra, dalle steppe nordiche alle savane africane, dall’Italia, agli Usa al Medio Oriente: arabi, ebrei, russi, indiani, asiatici, volti caucasici, medio-orientali, africani, latini o europei.
 Eppure ogni volto, ogni immagine è amplificata, sublimata, espansa di fronte ai nostri occhi annullando a poco a poco ogni altro sfondo, esposta senza giudizio o condizionamenti politici o ideologici di ogni sorte. Il volto, come quello di questa bambinetta del Guatemala dagli occhi trasparenti e lavati di pianto, fisso su di noi di fronte all’obbiettivo, appare in primissimo piano limpido, epurato e intenso nella sua intrinseca semplicità come una “ricerca dell’anima” del soggetto e dell’immagine secondo Toscani.
 I ritratti dal mondo, invasivi, espansi, magnificenti dalle pareti della galleria arrivano a noi entrando in un dialogo sottile e autentico nel loro darsi nitido, immediato ed essenziale  in qualche modo sfidando il nostro  sguardo.

“Il conformismo uccide la creatività e finisce per annientare l’umano”, afferma Toscani e ancora: “La soggettività è vedere le cose con il proprio sguardo, non come vuole il mercato” perché un bravo fotografo deve essere anche e soprattutto un bravo “autore”, vale a dire saper usare la fotografia per vedere quello che lui sceglie o giunge a cogliere intimamente, assolutamente, il più sinceramente possibile e non quello che gli passa di fronte agli occhi ordinariamente, casualmente o senza importanza. In questo senso il lavoro di Toscani pare essersi scavato uno spazio dentro la fotografia pubblicitaria e di moda più convenzionale, dentro l’immagine come necessità commerciale e di profitto. Si scava uno spazio contestando  le posture d’uno statuto sociale, dentro le leggi inflazionate dell’apparire. Se la moda è universalmente riconosciuta come ricerca assoluta di stile, sublimazione di bellezza e glamour per Toscani, andare oltre nelle campagne Benetton è fotografare corpi nudi in una composizione etnica di volti e figure di diverse razze e colori posti sullo stesso piano in una linea di assemblaggio che li mixa e li compone come magma intricante e colorato, gioioso e lieve perché sprovvisto di ogni giudizio etnico e estetico. O ancora sono le campagne di Toscani per Benetton con tematiche sociali come il razzismo, l’omofobia, l’anoressia ecc.







"Against Racism"




Grande mano bianca, piccola mano nera, il gesto di offrire, prestare, condividere la tua mano, tu che appartieni al mondo, bianco, ricco e occidentale all'altro lato del mondo, all'altra parte o emisfero del pianeta che è agli antipodi del nostro, nella relazione tra Europa e Africa, tra questo epicentro e il mio sguardo decentrato al di fuori. Grande mano bianca, piccola mano nera, una stretta, un contatto, uno spazio di pelle, come condividere qualcosa al di fuori dell’inegualità. L'immagine suggerisce un terreno comune di interazione e dialogo, politicamente: un interfacciarsi dall'uno all'altro nel proprio modo d’essere, di dirsi, di dialogare sincronicamente nel mondo.




 “White, black, yellow hearts” , titola la fotografia figurando tre organi cardiaci estratti a vivo e mostrati come parti anatomiche in primissimo piano, ravvicinate a raso dell’immagine.
 Appaiono lì visti come cuori nudi, carne  animata  ancora dalle pulsazioni del battito vitale, come se  tutti gli individui, gli esseri umani volessero essere posti su uno stesso piano, riportati a quel livello primario, primordiale e vitale di pulsazione che anima il vivente, del battere e fluire della vita in primo  luogo attraverso il più basilare battito cardiaco.  L’immagine riporta la dialettica dell'appartenenza e identità etnica prima di ogni gerarchia culturale o di potere alla carne nuda mostrando come le strutture culturali agiscono da sempre per costruire le gerarchie del mondo dalle quali siamo determinati.




Maglietta esplosa da uno sparo d’arma da fuoco, sangue intriso in ogni centimetro del tessuto sul petto, il foro del proiettile a lato mentre il corpo dissolve, svapora liquidato sotto l’uniforme militare. Resta il suo segno tangibile, una sorta di impronta a vivo, incisa e disseminata, simile a una sindone sacra arrecante i segni, le stigmate, il marchio a vivo, diffuso sul corpo trucidato. 
Più evidente è qui sottrarre che non mostrare, lasciare spazio al corpo cancellato, lasciarlo parlare dal luogo della sua assenza.


Wart è acronimo di war and art, guerra e arte, montaggio video di immagini in accostamento rapidissimo, shoccante e fulmineo ispirandosi in qualche modo ai principi del montaggio filmico russo. Immagini inflazionate dalla tradizione pittorica si alternano rapidissime ai violenti conflitti contemporanei con risvolti a tratti perturbanti di recenti guerre e massacri intorno al mondo: Guernica di Picasso e l’attacco alle torri gemelle di New York nel 2011, ancora le guerre in Iraq e Siria con scene di fucilazioni della tradizione pittorica neoclassica, la zattera di Gericaux in mezzo a mari tempestosi e sbarchi di emergenza di navi clandestine cariche di profughi e immigrati sulle nostre coste al largo del Mediterraneo. Accostamenti azzardati e volutamente assurdi, paradossali o violenti nella loro portata visiva sono lì a ricordarci che pur nel mutamento di linguaggi e tecnologie, di spazi e stili, nello scorrere del tempo e della storia i paradigmi di violenza e sopraffazione, dominazione e sopruso sull’ altro continuano a ripetersi ciclicamente quasi intrinsecamente perpetuando istinti costitutivi al fondo della nostra umanità che non la storia ne i suoi massacri ripetuti di interi popoli sono riusciti a modificare.








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