mercoledì 25 febbraio 2015

Da "Too early too late", arte contemporanea, Medio-Oriente e modernità ( Pinacoteca di Bologna, gennaio-aprile 2015)
















“Troppo presto e troppo tardi” già e non ancora, un tempo anacronistico rispetto a quello storico, costantemente fuori dalla temporalità dell’attuale come il vento d’una rivoluzione mancata o a venire, cominciata troppo presto o che si è tradotta in atto troppo tardi,  costantemente traslata su un piano virtuale, indeterminato, oltre semplicemente come quel tempo dell’a-venire rispetto a ogni presente storico. Così il titolo del film di Jean-Marie Straub e Danielle Huillet, “Trop tot, trop tard”  fa da eco all’esposizione alla pinacoteca di Bologna inquadrando nei termini di tale temporalità differita o metaforica la relazione, per esempio, tra Medio oriente e modernità in Iran, tra arcaismo e una non riuscita democratizzazione imposta in molti dei paesi medio-orientali sul modello occidentale, ciò che si è ripercosso a più ampio raggio nel conflitto di civiltà, nella dicotomia aperta e ancora oggi irrisolta tra islam e occidente dopo la fine del bipolarismo mondiale. 

Nel film due temporalità storiche differenti sono messe in parallelo, quella delle lotte contadine nella Francia rivoluzionaria del 1789, poi quella delle rivolte anticoloniali egizie nel 1952 sullo sfondo di immagini svuotate, la campagna deserta francese, poi quella egizia scossa invisibilmente dal vento di eventi accorsi_evocati più che palesemente presentati _ il vento di quei processi rivoluzionari che scuotono alle radici lo stato di cose esistenti_ mentre una voce fuori campo legge la parole di Engels a Karl Kautsky sui lasciti della rivoluzione francese. In tale temporalità  dislocata, in tale orizzonte spazio-temporale aperto sull'area medio-orientale si situa lo sguardo scelto dalla mostra, sguardo gettato dall’Occidente europeo al mondo arabo, caucasico o dell’Asia centrale, dalla Turchia all’Iran dall’Egitto alla Libia, Siria e Palestina partendo da un preciso punto di vista topografico, l’Italia, nello specifico Bologna  al di là d’ogni stereotipo o visione orientalista. La scelta curatoriale di Marco Scotini resta infine quella di mostrare il lavoro d'artisti contemporanei medio - orientali nel loro interfacciarsi allo  sguardo d’artisti e critici occidentali rivolti alla stessa area geografica: tra i più noti riferimenti il “taccuino persiano” di Michel Foucault scritto per il Corriere della Sera durante la rivoluzione iraniana nel ‘79, le fotografie scattate da Gabriele Basilico a Beirut all’indomani della guerra civile negli anni ‘90, “i sopralluoghi in Palestina” di Pasolini nel ’64, infine il film dei coniugi Straub sulla mancata rivoluzione egizia.  


 Area Iraniana




Nel video d’apertura di Peter Friedl, “Tiger and Snake”, una  tigre all’interno d’una stanza dalle pareti bianche ermeticamente chiuse si accanisce miseramente, ferocemente contro  il simulacro d’un animale fittizio, un serpente ricucito in stoffa nel tentativo di sbranarlo e insieme ripetendo grottescamente il pathos sublime del dipinto di Delacroix  cui è ispirato. L’installazione mostra ironicamente quei dispositivi di potere militari, politici e sociali  messi in atto in Iran attraverso meccanismi di censura, dispotismo e corruzione qui volutamente sovvertiti a immagine della tigre, simbolo di potere, che si accanisce con ostinazione di fronte a un animale di pezza, sbranandolo con noncuranza. Secondo Foucault il processo di modernizzazione così come si è presentato in Iran è apparso “in sé stesso un arcaismo ”, processo non riuscito perché messo in atto attraverso meccanismi repressivi e di corruzione del regime e imposto a partire da un modello occidentale estraneo al paese; là la società tradizionale immobilizzata sul suo passato si è ripiega in un rifiuto in nome d'una religione e d'un ordine sociale millenario  mentre le aspirazioni della giovane generazione nel movimento rivoluzionario  sono risultate sconfitte dagli esiti della  medesima.




In “the portrait of the artist as a one year old child” di  Golshiri un volto è appeso a testa in giù, alterato e trasformato secondo un procedimento di “ reverse” rovesciamento e manipolazione dell'immagine giocando sul doppio significato del termine che in persiano si riferisce sia a un rovesciamento politico come una rivoluzione, esistenziale o di fortuna-_l'artista perde un figlio della stessa età_ che alla parola “fotografia”, scrittura o stampa su luce ottenuta tramite rovesciamento nella camera oscura del negativo in immagine di realtà.  Volto appeso, sospeso come da corde per volgerlo all'ingiù, volutamente rovesciarlo dal suo usuale posizionamento di ritratto. E’ un volto di bambino e vecchio insieme, volutamente grinzoso, appesantito, riempito di rughe intorno agli occhi, volutamente segnato sulla fronte da solchi e incisioni profonde come fosse stato sottoposto a un  lento processo di decomposizione, di decadimento o distruzione dell'epidermide nella sovrapposizione appunto di un'infinità di immagini, di micro-mutazioni visibili dalla nascita alla vecchiaia.  L'immagine del volto del figlio scomparso appare infiltrarsi attraverso, in qualche modo la percezione della sua assenza ritornante sulla decrepitezza simulata della figura in quegli occhi scintillanti, baluginanti di luce ma relegati a distanza su un piano più lontano, guardati come attraverso il filtro apparente dell' assenza, visti quasi, infine, attraverso un distacco velato di pianto. Alterare un volto è anche strategia per sovvertire i canoni d'una configurazione estetica  riconosciuta o ufficiale , mettere allo scoperto la manipolazione sulla fotografia attuando al contrario quel meccanismo di censura silenziosa, rendere visibile la contraffazione del volto, volutamente esacerbarla come atto di posizionamento critico del  lavoro artistico rispetto alla repressione politica imposta dal regime. Così  attraverso quel volto anche i termini di innocenza e corruzione, saggezza e maturità, i confini tra coscienza e cinismo, purezza e perdita di integrità dell’individuo come del corpo divengono più opachi, ambigui o di difficile individuazione nella sovrapposizione tra i diversi stadi d'esistenza, di età e di volti riflettendo tale evoluzione.


Nella stessa area espositiva montaggi su pagine di quotidiani iraniani raccontano a trent’anni dalla rivoluzione islamica la caduta dello Scà, l’ascesa di Khomeini e l’instaurarsi del nuovo regime; fotografie e dipinti spettrali di Bosch, Breugel et David si soprappongono in oleografia allo sfondo delle cronache dell’epoca insieme a mani apparse dal gioco della Morra, carta, sasso e forbici, l’artista Jinoos Taghizadeh dicendosi “destinato a scegliere la carta a rischio d’essere tagliato dalle forbici ma determinato ad avvolgere il sasso se solo le forbici lo permettono”. Determinato ad avvolgere la pietra, la durezza della politica e dello stato iraniano nell’aspetto vibrante e sottile della parola, della pagina scrittura, nella libertà d’espressione o d’immagine che diviene nelle sue mani strumento o arma per rovesciare quella stessa realtà. La serie dei montaggi esplora, come nella morra, gioco il cui esito è lasciato al caso nella  totalità assenza di razionalità, il destino della rivoluzione islamica nello scarto che avvenne tra le promesse nutrite della giovane  generazione e il rovesciamento del loro esito al prevalere in Iran di repressione e censura con il sopravvento di un nuovo regime. La morte di Marat assassinato da un fanatico rivoluzionario dipinta da David appare in montaggio oleografico sullo sfondo di articoli raccontando la sistematica eliminazione di scrittori e dissidenti nei mesi che seguono l’instaurarsi della nuova repubblica islamica. In un altro articolo è l’accostamento tra teste mozzate di famosi martiri della pittura classica e parole che raccontano la tortura e l’uccisione di prigionieri politici da parte della polizia segreta iraniana.  Ancora “il giudizio finale” di Bosch si affaccia in oleografia su fotografie di persone e uomini di stato dello Scià imprigionate e torturate a un mese dalla rivoluzione. Il “prestigiatore” di Bosch appare in un altro montaggio sullo sfondo d’una cronaca recensendo il referendum per la nuova Repubblica Islamica definito in sé stesso un imbroglio. Nel montaggio visivo le figure dei dipinti di Bosch appaiono grottescamente disumane, deformate nell’espressione dei volti, preda di forze oscuranti che ne devastano i lineamenti in tratti bestiali: testimoni o spettatori incantati da un gioco di prestigio sono derubati da un borsaiolo mentre una figura mefistofelica dallo sguardo sinistramente presente in primo piano, simile a maschera si affaccia nel gioco di prestigio in accostamento a volti di iraniani contemporanei. I volti si confondono tra presente e passato, le immagini sfumano volutamente l’un l’altra nell’oleografia sul fondo di parole cancellate: testimoni, vittime e carnefici, colpevoli e innocenti sono ricondotti all’ambiguità voluta del montaggio, nella sovrapposizione anche tra il passato del quadro e il presente del reportage fotografico.         


Moni Hatoum e Hassan Sharif


Oggetti preziosi e fragili in malleabile pasta intrecciati e intessuti a mano  compaiono dentro una vetrina trasparente. Forme in filamenti di pasta come filamenti di cristallo creano oggetti in minuscola tessitura: un sole e i suoi raggi, la ragnatela d’un insetto di ghiaccio, nidi intrecciati di fili, nugoli o sciami di libellule , filamenti di linee che si intrecciano e formano angoli e punti a intersezione oppure si liberano in forme fluide e organiche di pasta, morbide e informi plasmandosi nel movimento della composizione. Ora sono oggetti d'uso quotidiano come semplici sedie portate fuori dal loro contesto funzionale, messe in rilievo sul vuoto dello spazio circostante, isolate e trasposte come forme minacciose e estranee. Ora sono griglie di capelli finemente annodati insieme, fili da intrecciare e nodi da districare fino a costituire la tessitura d'una rete lieve , d'un quadro simile a una gabbia di linee ferree e trasparenti che s'allentano, si stramano, perdono il proprio filo fino a scomparire trasparenti su bianco, ora nero su nero.

Filed papers, colorful files” di Hassan Sharif sono ugualmente “oggetti trovati” della memoria,  archivi, depositi o ammassi di materiali cartacei ricuciti insieme a tessuti rossi e violacei nell’installazione dell’artista saudita.
Incongrue cartacce, scorie  e nuovi drappi colorati sono tenuti insieme a documenti senza appartenenza, anonimi e privi di data, stipati in cartelle di recupero e legati con fili di spago. Altre volte le medesime appaiono aperte, dispiegate come scatole di  cartone mostrando le loro interne linee di cesura, le loro strutture compositive rovesciate all'esterno e messe a nudo con un preciso intento estetico .
Come autentici luoghi della memoria, d'una memoria da ritrovare a posteriori insieme storica e personale i suoi “files” colorati divengono depositi, archivi, stratificazioni di cose la cui esistenza possiamo solo tentare di comprendere, di riconoscere o rendere significante a posteriori. Immagini della memoria, d’una memoria in sé stessa cancellata o manipolata dai meccanismi potere, censurata o non ancora negoziata da altri funzionamenti psichici inconsci se riferita a una grande o  piccola Storia, tali riemergono a posteriori in questa composizione eteroclito di frammenti,  ammasso e colorato di materiali ready made.
Gli “oggetti trovati” nelle opere di Sharif sono anche le  scorie del mondo contemporaneo, del mondo industriale o di consumo investite d'una nuova identità a partire dal loro precedente stato di residui: tazze recuperate di plastica colorata, cannelli di fili vuoti ammonticchiati a pila, fogli e cartacce ricucite insieme, tutti quei materiali “poveri” che rovesciano volutamente regole formali e  canoni estetici d’una precisa arte celebrativa o ufficiale per posizionarsi come gioco di creazione e  rivolta esistenziale.
  




Gabriele Basilico, Beirut




















L’area centrale di Beirut negli anni ‘90 dopo la fine d’una guerra civile durata quindici anni, una guerra assurda logorante e spietata che distruggendo migliaia di vite ha devastato il centro della città, reso gli edifici fino ai luoghi di culto più sacri cumuli di macerie, scheletri denudati, mura perforate da buchi di proiettile, facciate arse, esterni e impalcature crollate mettendo a nudo l’ossatura primaria delle medesime.  La fotografia per Basilico  oltre il suo ruolo di reportage giornalistico intende  “comporre uno stato di cose, un’esperienza diretta del luogo affidata a una libera e personale interpretazione ” rispondendo, anche alla necessità di costruire una memoria storica degli eventi. L’atto del fotografare  instaura un rapporto “personale e affettivo” con il luogo, diviene un modo per combattere o rispondere alla sensazione diffusa di rovina, per contro-effettuare quella presenza indelebile di distruzione cercando in essa una giustificazione estetica, un alone di bellezza malgrado tutto, una plausibilità del fotografabile. Immagina la città come spazio originario, vuoto, il vuoto nella fotografia, il vuoto di strade che si aprono come cunicoli scavati, come interni di condotti ventricolari  portando ossigeno ai polmoni e sangue al cuore ferito d’una metropoli medio-orientale attraverso passaggi o corridoi aperti tra i cumuli e gli ammassi di macerie. Immagina la città in questa radiografia d’una distruzione che si vuole nitida, senza commento, distante quasi della distanza d’un indagine clinica, senza compianto.  Una radiografia di distruzione che è anche la bellezza dei frammenti, dei crateri, delle pareti nude, dei detriti, il lavorio del tempo e della guerra su una superficie originaria e integra. Lo stato intaccato della materia su uno scheletro originario e  intatto. Nelle rovine scopre la suggestione di forme grandiose e barocche espandendosi gaudinianamente in derive e ritorsioni delle medesime, le fotografie indugiando su edifici distrutti di cui restano solo forme portanti e cumuli di cemento arzigogolanti in forme pittoresche e barocche su loro stessi. Uno strano alone di bellezza appare malgrado sé stessa attraverso il dolore della distruzione sulla pelle devastata della città come la testimonianza della sua metamorfosi in tempo di guerra.


Kutlug Ataman “Strange Space” da “Mesopotamian dramaturgies” ( video e fotogrammi in immagini del medesimo, Turchia 2009)






Attraversa a piedi nudi, bendato, il deserto solforoso di Turchia, la terra arsa, dissecata come pietra spaccata in crepe irregolari; come nell’antica leggenda mesopotamica l’eroe vaga senza fine nel deserto accecato dalla passione alla ricerca dell’amata, in alcune versioni ritrovandola solo per morire insieme a lei tra le fiamme del suolo incendiario. L’incontro è anche quello metaforico tra tradizione e modernità nel lavoro del giovane artista,  la difficoltà o l’impossibilità di negoziazione i due termini della questione, in ogni caso la dicotomia aperta e irrisolta  dal loro incontro.  Deserto di Turchia dalla terra arsa, brulla, dissecata alle radici, scavata e nuda,  aperta in fessure profonde, mentre l'immagine è esposta alla luminosità irradiante del mezzogiorno, in questo lago volutamente pervasivo di luce che si estende, come distesa lavica, dalla terra sommersa alle rocce arse, alle nuvole d'un orizzonte blu calmo e piatto in lontananza, ai paesaggi rocciosi, ispidi e brulli di Turchia. La purezza del cielo al di sopra, indaco immobile  all'orizzonte. Attraverso quella luce e contro il profilo acuminato delle montagne  la figura appare allontanarsi, rimpicciolire, scomparire a poco a poco fino a essere riassorbita dalla diluizione luminosa fino a diventare un punto nero minuscolo, irrisorio all'orizzonte. Resta la bellezza del vivente, arché, inizio e fine, origine e cominciamento, resta il senso d'un destino, d'una provenienza sconosciuta là dove quel punto nero scompare, dilegua al limite del nostro sguardo; è l'immobile presenza della divinità in quella luce espansa, invasiva, in quel paesaggio etereo, immobile e accecante.


Ayren Anastas, “Pasolini, Pa, Palestine” e Emily Jacir


Nel 63 Pasolini viaggia in Palestina per esplorare la possibilità di filmare il suo racconto biblico del “Vangelo” nei territori storici originali. Cercando ambientazioni per il suo film nei “Sopraluoghi in Palestina” la voce fuori campo del regista commenta sul filo del paesaggio, lo percorre in attraversamento video rievocando  brani del Vangelo e insieme testimoniando la delusione di trovare villaggi e ambientazioni troppo moderne e industriali per le sue immagini, volti e individui troppo miserabili per farne i seguaci della parola del Cristo.

Il video di Ayreen Anastas, rifacimento dei “sopralluoghi” adatta la sceneggiatura originale dell’itinerario pasoliniano alla mappa di un percorso che si sovrappone al paesaggio palestinese attuale. Nell’atto di “ripetere” l’esperienza originale Anastas afferma voler comprendere,citando Heidegger, il dischiudersi di possibilità finora sconosciute o impensate, d’una visione non scorta da Pasolini rispetta a un territorio, un paesaggio che si pone a lui come nodo identitario, simbolico e conflittuale. Pasolini era alla ricerca nei suoi sopralluoghi in Terra Santa di quell’aspetto arcaico e poetico di realtà rispondente alle sue immagini del “Vangelo”, di quei volti di povertà e umiltà che riflettessero in qualche modo il volto del Cristo; non l'aspetto moderno d’una Israele industriale e modernizzata ma la bellezza di paesaggi arcaici, quella striscia di terra vicino al Giordano dove Gesù passò i suoi ultimi giorni.  Decise infine di girare il film nelle terre aride e brulle dell’Italia del sud. Nel video di Anastas ugualmente sono villaggi nel distretto di Hebron vicino a Gerusalemme, masse di pietre a secco, sassi di un’arida regione graffiata dal sole; poi alcuni particolari geografici della Terra Santa, il fiume Giordano che “attraversa la Palestina come attraversa la storia biblica” dal battesimo del Cristo nelle acque fino alle sue rive viste oggi coperte di arbusti  e attorniate d’animali a pascolare, là dove il Messia andava a meditare seguito dalle folle, compiva miracoli e annunciava come vento rivoluzionario la venuta della Parola.


Le fotografie dell’artista palestinese Emily Jacir scattate ugualmente nella zone in prossimità di Gerusalemme documentano un volto completamente differente in quegli stessi territori: una guerra irrisolta, l’occupazione dei territori palestinesi frammentati e colonizzati da Israele, lo stato d’assedio costante e le forze sovversive che in esse agiscono attraverso la radiografia di luoghi  abitati e dilaniati dal conflitto. Sono scuole distrutte dai bombardamenti , edifici in cemento grezzo con vetri rotti e frastagliati, fili spinati, militari con armi da fuoco insieme a civili in strada nello stato quotidiano di cose. L’incancrenirsi del conflitto in cellule cancerogene di guerra è visto attraverso buchi e fori sui muri, pareti distrutte o scrostate d’edifici attaccati da bombe, segni di spari di fronte a manifesti di ballo flamenco, panni stesi  d’uniformi sinistramente ergendosi in linee orizzontali simili a schieramenti  militari o piani di guerra.  



 White house” (2005), “Brick sellers in Kabul” (2006) Video di Lida Abdul



Lida Abdul: “ L'Afghanistan è il paese dove sono nata, significa tutto per me, viene prima d'ogni altra cosa. I lunghi anni di guerra, dall'invasione sovietica ad oggi hanno lasciato nella mia mente solo rovine. Da queste riflessioni scaturisce il forte legame con l'architettura; “White house” è una riflessione sull'idea di casa-non avendo mai avuto una dimora fissa- in questo lavoro parlo di rovine, di architettura e del modo in cui entrambi rappresentano per me, come per molti afgani, l'idea di rifugio domestico.”

“ Vent'anni di guerra hanno mutato profondamente il profilo del paese, ho deciso di tenere gli occhi aperti, e di non lasciare che i miei ricordi occupassero prepotentemente le opere per cogliere le continue suggestioni che il presente, il paese mi offriva. Ci sono stimoli ogni giorno; penso spesso al disastro, alla violenza ma anche alla voglia di ricostruire. La guerra per me è un percorso doloroso, l'Afghanistan l'unico paese per cui sento un profondo coinvolgimento politico, il suo destino, il suo futuro. In quanto esule il concetto di abitazione è stato sempre presente nel mio immaginario, forse perché non posseggo un luogo fisico, un edificio che chiamiamo casa.”
 In un Afganistan martoriato dalle invasioni violente delle guerre e dall'imporsi dei regimi totalitari  immagini video minimaliste, poetiche ed essenziali insieme, drammaticamente documentarie raccontano "il volto d’un paese  espropriato che ugualmente tenta di proiettarsi verso un futuro possibile”.

 Vestita di nero vaga tra le rovine e lentamente a colpi di vernice le ricopre di bianco candore in un atto di compianto, in un gesto empatico e insieme di ricomposizione immaginaria del paesaggio, la sua tela a poco a poco divenendo tutt’uno con la superficie di realtà rasa al suolo della città. Sassi, rocce, macerie, l'artista in nero ridipinge simbolicamente di bianco la materia, i lasciti dei bombardamenti. E’ la in mezzo a quel deserto di pietre, sassi e macerie, in mezzo alla secchezza della pietra disgregata degli edifici, in mezzo ai macigni, ai massi, alle basi dei colonnati neoclassici rimaste intatte; dipinge e ridipinge, scrive e ricrea, vernice bianca espansa in nuova immagine di realtà come atto di testimonianza, anche, necessaria rispetto a quella immemorabile tabula rasa della storia. Un corpo sottile e avvolto da tunica nera solo in mezzo al deserto di pietra vaga attraverso questo regno di morti e rovine simile a un Ade moderno dove come figura spettrale a gesti lentissimi avanza lentamente ricoprendo e versando bianco ovunque sulle pietre pazientemente a piccoli tocchi di vernice. E’là in quello spazio disabitato, sospeso, in quel regno apparente tra la vita e la morte forse nel tentativo dopo il compianto di restituirlo a un nuovo candore.

In “Brick sellers in Kabul” (2006) bambini in fila indiana in mezzo al vuoto sgretolante del deserto, di rocce e ruderi alle spalle d’una Kabul rasa al suolo dai bombardamenti vendono mattoni recuperati dalle macerie attendendo il loro turno per ricevere pochi dollari in cambio dei medesimi di fronte a una figura lasciata volutamente a lato , un compratore nell’atto di ricostruire, ergere simbolicamente la base  di un nuovo edificio. Le loro tuniche, i loro corpi avvolti e spazzati via dal vento, poi lo spazio vuoto che resta quando pezzo a pezzo, pietra dopo pietra si smantella, si toglie tutto il resto, quando si giunge faccia a faccia all’ esperienza dell’azzeramento, del nulla, alla tabula rasa della guerra; là,  la ricostruzione d’un nuovo abbozzo di identità comunitaria, d’architettura a partire dal vuoto dello spazio in rapporto a quel che resta, alle pietre nude, ai ruderi, ai frammenti e alle parti elementari di cose in un loro possibile rimontaggio o ricomposizione e trasformazione per assurdo in altre possibili forme. Una fila di mattoni al suolo simile a una strada di pietre intercalata ai corpi è gettata in mezzo al nulla, bambini attendendo per vedere erigersi un  nuovo simbolico edificio su quel deserto arido e brullo.