sabato 15 settembre 2012

su Mimmo Paladino, Suite Faenza, i dormienti e altro (Museo internazionale delle ceramiche, Faenza)

























“L'oro è per me materia alchemica, di mutazione, qualcosa di folgorante che viene dal sottosuolo..intendo dire la luce dell'oro come per i bizantini, una qualità luminosa che vuole annullare questa specie di horror vacui” di vacuità o orrore del vuoto, vago, divorante creando figure che fluttuano in una sorta di sospensione luminosa, nella brillantezza aerea del loro proprio effimero darsi . Figure, forme, concrezioni materiche emergono allo stesso modo nel lavoro di Paladino da un mondo oscuro delle origini che affonda le proprie radici nella trasmutazione alchemica della materia, nell’inconoscibile, nell’ermetico, nell’inconscio e si ricollega a un pensiero magico e religioso dell'antico per annullare il vuoto della superficie bianca, lo spazio neutro del fare minimalista o la logica formale dell'approccio concettuale.


Le sculture di Paladino recuperano una tale memoria arcaica, onirica o primordiale nutrendosi della tradizione della propria terra, quella sannita, d'una serie di rimandi all'antichità etrusca, classica greco-latina, al sostrato di mediterraneità insito nel crocevia millenario di influenze, stratificazioni e tracce sedimentate nell’Italia del sud. Da un lato l’artista incrocia trasversalmente la storia, dall'altro la filtra entrando nel territori del simbolico, dell’inconscio o dell'immaginativo attraverso una soggettività impersonale lasciata all'ordine primo della materia.

La scultura qui appare trovare una propria ragione d'essere all'interno, una giustificazione formale in sé stessa; non è forma di rappresentazione esteriore della figura o dell'evento, ma forma che vive e viene da sé come potenziale espressivo insito nella materia, nelle sue formazioni, deformazioni, contaminazioni, o frammentazioni.
Si presenta come una “poetica della materia in atto”, la trasformazione della medesima attraverso infinite sperimentazioni lasciate alle sue intrinseche possibilità e rivelate nel processo compositivo.
La scultura, in seguito, come linguaggio entra in maniera primordiale nello spazio, si confronta ad esso, lo inventa con il suo esserci, lo modifica, lo contamina, entra in questo rapporto puramente energetico con l'ambiente plastico, entra in un dialogo di metissage e contaminazione tra l'aperto e il chiuso, il concreto e l'astratto, la materia bassa, quotidiana e la sua trasmutazione in termini estetici. Installazioni scultoree come “I dormienti” sono state inventate e re-inventate in contesti differenti, ogni volta ridisegnate dai luoghi, nell'unicità degli spazi in cui si trovavano ad essere accolte, ogni volta re-immaginate, riadattate assumendo nuove valenze, sfumature o reinterpretazioni nella particolare energia d'un luogo- il sottosuolo innondato d'una chiesa, uno spazio pubblico,  il chiuso d’una sala museale. Esiste una forma di influenza che si trasmette dagli elementi plastici allo spazio, alla luce che interagisce, agisce e trasforma la fisicità delle cose in rapporto al loro ambiente espressivo. Qualcosa accade, deve accadere lì ogni volta quando la densità d’una materia entra in un luogo, in un tempo singolare, perché lo spazio divenga un’esperienza abitata, un ambiente plastico fatto di segni, simboli e parole, un enigma di sacralità e astrazione, un corto-circuito tra materia, spazio e luce.




Esiste, alla base del lavoro di Paladino, la concretezza impura, spuria della creta come materia plasmabile, duttile lasciata al processo imprevedibile di lavorazione, cottura, rifinitura. Esiste la fisicità umile della terra come materiale a portata di mano, semplice, quotidiano e insieme infinitamente modulabile – terra cotta, lavorata, ossidata, manipolata, ridipinta, aggiunta di polvere, sabbia, detriti di marmo o schegge di vetro. La ceramica implicitamente rovesciata dal suo statuto apparente d'oggetto decorativo si fa portatrice d’una serie di valenze simboliche che ne potenziano il dato figurativo apparente. La materia è trasfigurata, re-figurata, riappropriata secondo un ritracciare, riscrivere post-moderno: rintracciare un percorso dopo averlo perduto, perderlo e continuare a ritrovarlo in infinite vie possibili, ogni volta smarrirlo e reinventarlo ripartendo da una tabula rasa, ma anche re-imprimere i propri passi all'indietro identici sopra quelli tracciati d’altri, 
sopra quelli sedimentati nel passato,
identici nel luogo, differenti nel tempo.

Esiste una libertà totale d’azione, di manipolazione dei materiali e dei linguaggi espressivi in Paladino, la compenetrazione tra pittura e scultura, la contaminazione di generi e d’epoche differenti:
dipingere il bronzo, ossidare la terracotta, rivestire d’ossidi e smalti la ceramica, aggiungere oggetti trovati alla scultura, creare pitture scolpite, sculture dipinte ;sculture con aggiunta di ingobbi, frammenti di materiali bassi: tegole, rami d’alberi, cappelli. Aggiungere segni, , tracce che l’artista dissemina nel suo lavoro, tali graffi, lacerazioni, buchi come il manifestarsi d’un gesto primordiale, l’incidere d’un gesto espressivo lasciato al potenziale intrinseco alla materia.















"La meridiana" (1983)

Effluvio, scoria, lascito, detrito su spiaggia per questa scultura deposta dalle maree su terra ferma la cui testa è staccata, volta verso l’esterno, una parte dell’avambraccio rotto, un piede mancante.
Deposta come residuo nell’inarrestabile sciabordio delle acque, delle onde e delle correnti, nel loro apparente infrangersi a riva riassorbite dal fondale sabbioso per ricongiungersi al moto contrario, sotterraneo e inesausto delle maree .
La testa reclinata su un lato, leggermente distaccata, piede, dita della mano rotta. Quasi su un fianco volta. Accanto a lei, accasciata al suo fianco, è il lascito d’un'altra forma affusolata, un vaso visibile nella foto sovrastante di cui resta qui solo la base. Abbiamo questo viso femminile stranamente tenue in ceramica dipinta dalla testa leggermente staccata dal corpo, apparentemente dormiente. Abbiamo questo corpo dipinto come di spighe, d’ondulazioni, di linee gialle e rosee che lo rendono femmineo, sottile, volutamente lasciato l’abbozzo non-finito della nascita. Abbiamo questa massa di ceramica che è base d’un vaso amputato. 
Accasciato alla roccia di cui si fa misura, meridiano nella variazione dell’asse solare su terra, il suo corpo si fa vettore, pure se spezzato in parti, meridiano, simbolo dell’inclinazione del sole, e attraverso quella, indicatore del tempo, del passaggio delle ore sul quadrante terra. Asse proiettata su una linea di semicerchio che lega il tempo alla vita attraverso il battito d’un corpo, d’un cuore.

“Sua Maestà”: serie di volti, maschere, figure de-figurate, riconfigurate di sé

E’ un volto inciso su terracotta ridipinta come fosse quello rifatto a graffiti dalla mano d’un bambino, il collo-ingobbo di materia simile a quello d’una giraffa si espande plasticamente verso l’esterno dalla cornice in ferro battuto.
E’ il viso d’un uomo su una superficie ridisegnata dalla mano d’un bambino con l’impertinenza dominante d’una materia elementare che si amplifica in verticale nello spazio.
E’ un contorno rifatto di simboli incisi su un fondo di terracotta ossidata, rugginosa, volutamente ricondotta a uno stato di ferreo livore, incisi come segni ma volutamente lasciati fluttuanti nello spazio-cosmo. 
Sono serrature senza lucchetti, altrove chiavi senza serrature che aprono o chiudono porte, bocche, occhi aperti, parti del viso fluttuanti su un fondo ramato. Sono chiavistelli, chiavi, ancore, serrature, accessi aperti o negati, chiusure sul confine fluttuante, appena individuabile d’un viso.
E' un viso posto su un manto di ceramica ossidata, granulosa, violacea in sospensione dalla terra; è la testa d’un viso reclinata all'indietro, quasi rovesciata sulla nuca, staccata dal corpo e deposta su quella materia violacea, espansa in granuli che a poco a poco ne corrodono la sua interna misura, il suo esterno contorno.

E' un viso-foglia nella sua essenziale ossatura sostenuta da uno stelo-corpo affilato su un fondo di terracotta smaltata, ocra e verde smeraldo.
E' un viso-macchia di smalto blu, intenso, traslucido, brillante impresso su un fondale grigio.
E' il viso visto su una scatola-cuore chiusa in metallo pesante riempita di diverse pietre, graniti, granuli, coaguli di smalti ferrosi.
E' una superficie bianca e verde smaltata, lucida, divorante con tratti incisi nel loro interno scavarsi: nella cavità degli occhi, nell'interna insenatura d’una materia cranica esplosa,
una massa biancastra di cervello in eruzione, in lavica ebollizione sulla sua corteccia esterna.
E’ un viso-ombra su un dirupo a strapiombo sul mare, una cavità, un abisso nero aperto ai suoi piedi simile a un precipizio senza fondo, smaltato,brillante, argenteo.
E’ viso immaginifico, enorme, espanso, appena delineato come nuvola svaporata che propaga da un piccolo essere in basso in ceramica bianca.
E’ un viso-nebulosa che si espande da un grido, che svapora e scarabocchia linee, rigature, graffiti casuali su ceramica.
E’ un viso-macchia, massa oscura di materia grigia fluttuante, in movimento sopra un piccolo ritratto immobile di testa.
E’un volto su un supporto di vaso di cocci rotti, ora su un mosaico lucente d’oro .
E’ il profilo intagliato dall’interna voragine d’un cervello, è un viso ritratto in nero graffito, graffiato come il volto di il bambino incredulo, esterrefatto.
E’ un viso ricomposto tra due cocci rotti, lucenti e bianchi di ceramica smaltata con un ponte gettato in mezzo.
E’ un viso-evaporazione di sé lasciato in un piccolo ritratto a lato;
 è un viso-diluizione, macchia, materia grigia espansa, informe, corposa.
E’ un viso-nebulizzato di smalti, ossidi dileguando nel loro informe darsi.
Appeso a un contorno, inchiodato, ferruginoso, tracciato in graffiti elementari, ridipinto; raggiunto di protuberanze, schegge di polvere e vetro esternandosi sul supporto in ceramica.

E’ carro armato, macchina da guerra, pasta granulosa dentro la cornice in ferro battuto, nuvola di vapore fluttuante su piccola testa, piccolo mondo, piccola figura.

"Dormienti"







Volutamente disconnessa nei legamenti degli arti tenuti insieme da giunture in ferro a vista sul corpo, la figura è raccolta, rannicchiata su un fianco, appoggiata al suolo, ricoperta delle polveri ossidate d’un eruzione vulcanica che li' ha investito ogni lembo del territorio . Il corpo è nascosto sotto rami secchi, pezzi di tegole, sbarramenti di terracotta, rannicchiato, come travolto da un uragano di polvere e terra che l’ha li’ portato, deposto, addormentato. Rannicchiato, dormiente, svegliandosi d’un tratto come si dovesse abbeverare a una ciotola d’acqua deposta vicino alle sue mani; porterebbe alla bocca un sorso di quell’acqua blu, densa, stagnante sul fondo della creta per dissetarsi. Sopra i pezzi di terracotta un altro oggetto è stato posto, una spugna porosa come dovesse essere lavato dalle colature intenzionali di vernice, dalle scorie di polvere e d’ossidi, dai pulviscoli minuscoli, diffusi, espansi che ne anneriscono la testa, parte delle spalle, delle gambe, delle braccia.
Deposto sulla terra, gli occhi chiusi, addormentato, dissepolto sotto questa polvere nera dalla quale non sembra potersi risvegliare.

In versioni successive la figura sarà reinterpretata in diverse posture, rannicchiata, accovacciata, distesa ma sempre coperta da questa fuliggine leggera, granulosa, appena palpabile tra le dita, d’una tessitura nera, carbonea, ossidante. Sarà sempre ad occhi chiusi, ravvolta su un lato, addormentata in un improbabile risveglio. In alcune versioni con giunture di ferro a vista tra le articolazioni, in altre con incisioni, buchi, rigature come di un'unghiata profonda oppure contornata d’oggetti trovati come l’aggiunta di pezzi di ferro, tegole o vetro.

In “Dormiente” (2000) resta la testa distaccata dal resto del corpo non più visibile qui evocato dalla scomposizione in molteplici punti di vista della materia bruta apposta in tegole irregolari o frammenti sagomati delle medesime su una piattaforma sferica dove il corpo precedentemente dimorava. Un braccio verticalmente sollevato, la testa reclinata nella piena scomposizione cubista della figura in termini anti-figurativi tendenti al discontinuo, al frammentario e all'astratto. In una sperimentazione ancora più estrema, la testa è schiacciata, sopraffatta da strani pezzi rotti di ferraglia a serrarla, stringerla come sotto la pressione d’una tenaglia, l’intaglio di creta d’un altro cranio appena visibile a comprimerla.
Diventa, ancora, una testa-armatura, in ferro battuto sembrerebbe (ma si tratta del processo d’ossidazione della ceramica) lasciandosi scorgere dentro un guscio rotto, anfora o involucro spaccato in tanti cocci irregolari tenuti insieme forzatamente di cui si ricopre come fossero le sue coltri. E’ la sua dimora-anfora-guscio rotto in cocci, in pezzi a vista dalla quale si dischiudono scorci d’una figura visibile a tratti, per parti, gli occhi chiusi. 
Guscio che diventa sepolcro, nocciolo di frutto svuotato all’interno, interna imbarcazione che lo porta, guscio vuoto, guscio della nascita che diventa cella di morte.
La testa volta da un lato, le gambe dall’altro, la figura è racchiusa dentro questo guscio nocciolo divenuto guscio-dimora, corteccia e involucro sepolcrale. Avviluppata, avvolta in tale membrana di vita-morte, calda, nascitura e fatale.







“Testimone”

E’ un corpo in terracotta dipinto, una mano sul cuore, grande, enorme, poi le braccia sollevate in alto coi palmi volti verso l’esterno dato in questa disarmante, ineluttabile verità di sé, gli occhi aperti, puntati fuori ergendosi sopra il busto possente, imperiale, offerto agli occhi di chi guarda.
In “Sera” la statua dagli occhi vuoti è rifinita, ridisegnata come maschera egizia con aperture, cavità che s’aprono entro il suo corpo come scatole-antri dei suoi organi, il ventre, i polmoni, il cuore. Si aprono come occhi segreti puntati fuori da una sorta di creatura primordiale nascosta nella sua cella-addome, oppure come un diamante a cinque stelle intagliato a vivo al posto del cuore. In una versione successiva il corpo, ossidato in nero su ceramica, ricompare come fosse ridisegnato dalla linea bianca e spessa tracciata da un gessetto su un fondo nero d’ardesia. Ridipinto per linee e assi geometrici , ritracciata in settori e comparti essenziali, ricondotta al proprio limite strutturale d’organi e parti vitali dell’organismo che lo individuano come umano, la figura appare divisa per gabbie o quadrature intenzionali che ne individuano loculi, cunicoli sepolcrali, recessi segreti, antri interni dove si nascondono questi dormienti appesi, volti verso il basso, a un filo legati, guardandoci dal fondo bianco,  illimitato, rischiarato di luce d’una strana prigionia interiore.



“Treno” (2007)

(Installazione in ferro e altri materiali che occupa nella sua estensione longitudinale l’intera galleria).














Treno di morte, treno per Auschwitz, treno merci dalle proporzioni smisurate, è fatto ancora di comparti stagni, celle, cellette, antri rettangolari, zone di compressione quadrangolare riempite di materiali vari, ferrame, qualche volta di corpi.


Trappole per animali, gabbie occlusive in ferro, ripartizioni d’oggetti secondo una loro interna classificazione, deposito di corpi in attesa d’essere trasportati altrove, viaggio con destinazione inimmaginabile, sconosciuta, senza ritorno.
Treno a un’unica direzione carico di merci e corpi dormienti , è completamente ricoperto, ossidato nelle intelaiature d’un rivestimento pesante, rugginoso, freddo al tatto, allo stesso modo lo smalto bronzeo che riveste i corpi appare sagomato e luccicante.
Le figure sono ancora una volta ripiegate, compresse dentro questi comparti-cellette ferruginose, incatramate, ancora una volta contornate da materiali pesanti, armi, tegole, o otri nella combinazione con forme geometriche astratte d’un implicito ermetismo e oggetti del quotidiano, scarpe cappelli.
 Scorie portate alla luce da un vero e proprio scavo archeologico.

Antri s’aprono in questa struttura a gabbia, in questo meccanismo a combinazione multipla d’oggetti trovati, sculture e ferro come in un andare verso l’interno, dei corpi, delle case, delle celle, come un aprire comparti, vani segreti, vivisezionare oggetti, organi, parti di corpi . Il treno è questa compilazione archeologica quasi d’un aprire “sezioni a vivo”dentro la materia e le sue imprevedibili possibilità rivelate dal fare stesso del lavoro scultorale. In Paladino sono le sezioni a vivo dentro il cranio d’una materia informe, porosa e espansa, dentro le anfore rotte i liquidi oleosi e densi deposti sul fondo, dentro i piatti, gli otri o le ciotole di terracotta i loro residui materici, dentro i cocci le loro condensazioni di nero pece.

Tutto è classificato, ordinato, deposto in cornici-gabbie ossidate, arrugginite, ferrose, catramate a terra, esposte e neutralmente date in sezioni nette a ripetizione, pronte per il trasporto verso un altrove indefinito, forse nessuna destinazione, loro già a metà presi in questo processo di sedimentazione, di incenerimento.
 Corpi dormienti, inceneriti, ricoperti di polveri e d’ossidi di ferro, raggomitolati all’interno ad occhi chiusi nella sospensione dolorosa che precede il passaggio verso un altrove inimmaginabile, indefinito, senza risveglio.