venerdì 28 giugno 2013

“ELOGIO DE "LA FOLLIA", coreografia di Simona Bertozzi, al Ravenna Festival 2013, (Teatro Rasi)







Sincronia, corrispondenza speculare tra i gesti dei due danzatori nello spazio ma più spesso sono divergenze, dissimmetrie volute, avvicinamenti e sospensioni, ascesi di corpi in equilibrio e il loro sprofondare in caduta libera protendendosi in diverse direzioni come per una sorta di gioco, corteggiamento o danza figurata su un precario equilibrio. Giungono a sfiorarsi, riprendersi per poi scontrarsi, deviare, prendere direzioni diverse, altre vie. Vicini alla vertigine, avanzano per linee spezzate, irregolari, a tratti in avvicinamento, in prossimità o in tangenza occasionale, raramente in sovrapposizione perfetta dei gesti dell’uno e dell’altro, più spesso in una ripetizione ironica, distaccata, giocosa della sequenza che in qualche modo deride o si fa beffe, sottilmente del rigore formale del linguaggio classico da cui pure trae una lontana origine o dalla sintassi strutturata d’una danza in duo figurata.

In alcuni momenti tra i due danzatori è gioco di corrispondenze, di commistione o di continuità organica nell’immagine d’uno specchio che rinvia simmetricamente un movimento dall’uno all’altro e il disegno è intessuto a partire dalle dinamiche fluide che si instaurano tra i due corpi in azione , dallo sgorgare di un movimento spontaneo, irriflesso, improvviso appoggiandosi più sulle aperture, sulle occasioni, sulla disponibilità che si presenta, su una disposizione al ricevere, al rispondere che è innanzitutto riposta dall’uno all’ azione dell’altro. Più spesso, tuttavia, la variazione a due s’arresta di fronte a un movimento spezzato, alla cesura, allo strappo inatteso, al cedimento improvviso di gambe o braccia che si piegano, che si accartocciano intorno alla colonna rammassando le figure su loro stesse come se le ginocchia o le giunture degli arti d’un tratto saltassero, e i corpi si protraessero in avanti in scatti inattesi, in cambi repentini di direzione, in pause improvvise, in sospensioni o momenti di congelamento, di ineluttabile immobilità per poi riprendere quota e ripercuotersi in nuovi slanci. Scardinata, pulsionale, organicamente legandosi a tutto ciò che è istante, accadimento, impulso, non-danza, questa scrittura come dialogo a due o a quattro tra i corpi ripercorre la dialettica tra saggezza e follia alla quale la pièce si ispira nell’ omonimo titolo della celebre opera di Erasmo da Rotterdam. “L’Elogio della follia” come forza impulsiva, sragionata, liberatoria, istinto o passione che ci salva, quella parte di irrazionalità che agisce in infinite casistiche umane per sua natura come una sorta di incoscienza necessaria e dovuta alla nostra sopravvivenza diviene qui “l'elogio della follia dei corpi” nella danza, scardinati, organicamente portati da una scrittura coreografica spezzata e sospesa contro la compostezza, la quadratura, il rigore matematico della sua lieve tessitura musicale.



Più tardi nello spettacolo il duo diventerà quartetto e l’intreccio dei corpi sostenendosi l’un l’altro, si lascerà portare dai loro spostamenti di peso fluidamente passandosi il movimento dall’uno all’altro; in circolo uno a uno si sollevano e poi sono rideposti al suolo, qualcuno finisce a terra e poi è aiutato a alzarsi, in gruppo all’unisono si trascinano nello spazio, si spostano, si lasciano portare da questa sorta di vague, onda fluida, energetica, vitale che li unisce. Si lasciano portare dal movimento, sono uno stormo, un’ondata, una marea, si tendono, si piegano, trasferiscono il fluido dall’uno all’altro in una corrente attraverso lo spazio, in un correre, scorrere, lasciar circolare, lasciare accadere nel gioco organico della continuità, dell’interscambiabilità, della tacita comunicazione tra i corpi; disponibilità aperta dal loro divenire-fluido, divenire-organico, divenire-animale.










Barocca la musica nelle composizioni di Arcangelo Corelli, “Sonate per violino”, nelle “variazioni sopra la follia” di Scarlatti, nella “Sonata dodicesima” di Veracini, riprende un noto tema di musica popolare con variazioni su un basso ostinato. Scrittura monodica con basso continuo sorta intorno al ‘700, essa fungeva da tema a una danza popolare detta “della follia” per le sue movenze concitate; la musica da camera eseguita dal quartetto Delfico Ensemble proviene da un fuori scena, da una sorta di nicchia o cupola illuminata di tenui bagliori, di calme, rosee-violacee tinture, separata dalla semi-oscurità della scena circostante. Tale, una sorta di antro lunare illuminato dalla “levità poetica” di questa musica nella sua armonia d’insieme dandosi come una melodia monodica, ripetitiva che si lascia comporre in ornamenti e variazioni convocando la pacificazione dei sensi, la quiete dell’anima iscritta, tuttavia, nel “vigore matematico” della sua partizione. Dunque il tema della follia nel lavoro della Bertozzi si presenta come questo confronto dialettico tra l’armonia, la linearità, il rigore della composizione musicale e la scomposizione, la frammentazione, il movimento spezzato d’una scrittura coreografica dell’estremo contemporaneo che insinua o suggerisce “la follia dei corpi” in un movimento organico, pulsionale sottilmente andando a scardinare la visione ordinata e simmetrica la quadratura geometrica del codice danzato classico o moderno. La coreografia riprende a tratti la musica barocca aderendo ad essa in alcune sequenze lineari e ripetute della variazione ma, costantemente, tuttavia non può fare a meno di sovvertire quella composizione iscritta nel codice danza; ironicamente è come se le facesse il verso rifacendola, prendendone le distanze beffardamente, sottilmente, insinuando in essa sospensioni, crolli, cedimenti, cambi repentini di direzioni con l’aggiunta di passi estranei, incongrui, incoerenti con quello che sarebbe la logica abituale d’una variazione danzata: deflagrazioni date per movimenti spezzati, poi il gioco dell’imprevedibilità, di quello che agito, non previsto accade, ironico, casuale, feroce o ineluttabile a volte come un destino riversandosi sulla vita d’un individuo.

In questo senso la coreografia si ispira o riprende la dialettica tra saggezza e follia come conciliazione degli opposti nell’animo umano dal noto testo di Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia. Rigore musicale e follia dei corpi nella danza, composizione e scardinamento del linguaggio coreografico, razionalità e impulsività, luminosità e oscuramento, faccia a faccia di luce e ombra tra musicisti e danzatori sulla scena, seriosità o insostenibile saggezza contro sragionevolezza e cosciente leggerezza dell’essere. Ugualmente ne l’Elogio di Erasmo ritroviamo la dialettica tra uomo sapiens e insipiens, la conciliazione degli estremi tra grandezza e miseria dell’uomo ricompresa all’interno d’un atto di auto-coscienza sulla sua intrinseca molteplicità e insieme ambiguità. La follia per l’uomo del Rinascimento non è dunque ancora percepita come sbarramento o diniego della ragione, non dunque barrata o reclusa sotto il segno del rifiuto o della condanna del soggetto razionale quanto ricompresa come parte dell’animo umano, ricondotta insieme alla ragione alla complessità della sua natura, anzi vista come forza critica, maschera liberatoria, potente strumento espressivo per demistificare l’apparenza, l’inganno, l’ipocrisia o la falsità della realtà. Nei suoi vari gradi e generi la follia è infine definita come “ il sale della vita, l’irragionevolezza, gli istinti, gli impulsi, le cose che ci allontanano dalla tragicità dell’esistenza “ , come la maschera che permette di svelare la verità, perché “ la verità parla sotto il berretto a sonagli del folle”. E’ ancora quell’irrazionalità, quel furore poetico, quella felice sragionevolezza che agisce in infiniti casi del genere umano, visibile nella “ follia degli amanti, estasi dolcissima d’amore”, nella follia religiosa, che è estasi o rapimento in Dio, infine nella follia come passione del Cristo sulla croce. Il “miracolo dell’uomo” nell’espressione di Pico della Mirandola, è ricompreso in quel punto di totale libertà in cui egli crea sé stesso, il prodigio dell’uomo è visto anche nella conciliazione degli opposti, nella sua duplicità, nella sue innate possibilità simile a Dio, votato alla grandezza come alla miseria, tra le mille maschere di cui si copre il volto in quel nodo indissolubile tra saggezza e follia che è la sua natura.




martedì 11 giugno 2013

"La boule de neige", coreografia di Fabrizio Monteverde ( visto a Ravenna Festival, 7 giugno 2013)








Ispirato al testo, Les enfants terribles, di Cocteau la pièce coreografata da Fabrizio Monteverde nell’84, in scena nell’odierna versione del Balletto di Toscana junior, si distacca dal filone post-moderno d’una danza di pura energia e astrazione ricondotta nella sua essenza formale a Cunningham per trovare invece un’ispirazione letteraria nel testo di Cocteau. Predilige qui una gestualità rarefatta quanto abitata, epurata ed essenziale che convoca insieme il lirismo del teatro d’opera e la forma del teatro danzato: quel mondo
d’ incandescente desiderio scaturito dal legame tra i due protagonisti, fratello e sorella, poi l’adolescenza con i suoi turbamenti e i suoi trasporti, la sua leggerezza e le sue crudeltà. Il rapporto al testo letterario non illustrativo né didascalico, non nasce dalla trasposizione d’una trama narrativa in danza quanto da un’urgenza espressiva che trova qui un fertile terreno di ispirazione capace di nutrire l’immaginario poetico propriamente coreografico. Si è in un rapporto di introiezione personalissima al testo letterario, visceralmente abitato, appropriato in senso quasi esistenzialista da Monteverde per estrarne nuclei tematici, nodi poetici essenziali ai quali dare un corpo lirico attraverso la danza: espansi, giustapposti o ricomposti in forma sparsa, non volutamente lineare come in una serie di quadri danzati.

Il testo, reservoir di immagini, nutre in qualche modo il fare coreografico frammentando la fonte originaria per rispondere all'urgenza espressiva del lavoro, per quello che del materiale letterario, del suo sostrato poetico sostiene e amplifica l’impulso al movimento. Più importanti per la danza divengono i vuoti, il non-detto che la parola oltre la narrazione lascia intravvedere, i silenzi che convoca là dove oltre la trama si sottende il legame esasperante, eccessivo o ambiguo, il sentimento d’amore ineguagliabile, lieve quanto morboso, atroce quanto indicibile che è motore primo del rapporto tra i due protagonisti. La parola, dunque, come fonte letteraria apre la via all’ astrazione per Monteverde, alla rarefazione, all’essenzialità di un linguaggio coreografico che traspone il non-detto convocato dall’immagine poetica piuttosto che la trama narrativa.

Un fratello e una sorella, come leggiamo nelle note di regia, una camera, uno spazio chiuso, vincolato dove i due danzano e agiscono, insieme ai loro doppi similari, due altre figure narcisisticamente date sdoppiandosi dall’uno e dall’altra che accettano di essere lì testimoni, di seguire la loro storia fino al tragico epilogo. Amore assoluto, interdetto, negato quando convocato tra i due in questo luogo claustrofobico, chiuso, in questo circuito incandescente di incontro tra eros e fatalità o interdizione sotto gli occhi complici di due testimoni adolescenti presi nella trappola del loro guardare. Una serie di quadri traspongono tale gioco amoroso soprattutto attraverso la forma del duo, ora gioioso, leggero, ora sensuale, crudele o rabbioso, colmo a tratti d’una struggente malinconia. Tale legame totale, senza limiti, al limite dell’interdetto tra Paul e Elisabeth è insieme suggerito e sottaciuto su scena nel modo dei danzatori di cercarsi e di respingersi, di attrarsi e di negarsi, di essere insieme, di scivolare nella stessa forma o energia d’una polarità condivisa e insieme di assumere direzioni opposte, d’essere in contrappunto, d’attirarsi respingendosi. Nella storia originaria alla prima coppia si sovrappongono queste altre due figure in una mescolanza di ruoli maschili e femminili, in un gioco di sdoppiamenti dove Paul subisce il fascino perverso di Dangelos e in seguito si innamora di Agathe che gli assomiglia in modo sorprendente mentre Elisabeth preda di gelosia fa precipitare Agathe nelle braccia di Gerard. Gerard e Agathe esistono in questo legame di dipendenza, fascinazione e sdoppiamento nei confronti di Paul e Elisabeth.









Il gioco amoroso prende forma in immagini danzate che vanno dal più assoluto narcisismo degli assoli dove un interprete vive e si incarna danzando insieme alla propria ombra mentre gli altri guardano, alle composizioni per duo dove si evoca l’amare l’altro simile a sé, il proprio doppio. Nei duetti gemellari si alternano momenti di abbandono sensuale con movenze delicate e avvolgenti come onde, vagues continue che passano dall’uno all’altra idealmente delineando un unico corpo fluido, lirico e musicale disegnato dalle singole figure all’unisono a momenti di contrappunto, di cambi repentini di direzioni, di arresto o rimbalzo di fronte all’interdetto, dunque di direzioni contrarie, dell’essere separatamente eppure insieme nella musica.

La camera chiusa è evocata da semplici luci a neon su scena: atmosfera livida, soffusa, opaca quanto oscurata, gettata delle lampade basse sullo spazio circostante, da un letto, una sedia, un catino d’acqua trasparente , un muro che a volte compare per dividere. In altri momenti la scena diviene incandescente, vuota, rischiarata da un bagliore blu elettrico sotto una tempesta di candida neve, come luce argentea viva, abbagliante nell’ossessivo ripresentarsi dell’eros convocato e schermato in diverse forme danzate, tinto a volte dalle sfumature d’una inspiegabile nostalgia.






Il movimento appare ondulatorio, circolare e lirico nel gioco di seduzione tra i due danzatori, convocando e insieme ponendo punti d’arresto, deviazioni o sbarramenti al desiderio; ora si disegna in una micro-gestualità da film muto lasciata all'espressività di mani, braccia o singole parti di corpo per un solodanzatore, (Monteverde si ispira anche alla versione cinematografica di Jean Pierre Melville tratta dal romanzo), ora esplode in ampie parti sinfoniche concertate per quartetto o insieme di corpi all’unisono.


Dualità e sdoppiamento nella ricerca d’un impossibile completamento: nel duo i due corpi amanti danzando si sovrappongono, insieme scompaiono nell’evanescenza della luce, insieme sono destinati a morire, dissolvere attraverso l’escamotage dell’effetto ottico sulle arie di Orfeo e Euridice. Nell’assolo Paul nudo fino a metà busto su scena come il “fauno nel pomeriggio” di Nijinsky appare in questa espressività di corpo a metà umano a metà animale ,e mosso da estasi, inizia a danzare; più tardi è sospeso alla parete a pioli in un dialogo di voci fuori campo con la danzatrice su scena. I due ritrovano infine completamento nell’ immagine statica, sculturale ricomposta sulla parete dalla figura maschile e femminile insieme nella dissolvenza della luce. Ancora, i corpi rotolano insieme al suolo all’unisono, si avvolgono, si confondono, si mescolano in una confusione voluta dei sensi, Agathe come Dangelos, Elisabeth come Paul. Su tema di un tango sensuale in bianco e nero due danzatrici rivali-complici in forma speculare si muovono in una serie di scambi fluidi, in continui passaggi di testimone, in volteggi circolari dall’una all’altra, in un motivo che si costruisce per continuità e concatenamento delle due figure in passi laterali, in giri molteplici in forma circolare rimandandoci a questa immagine della figura e del suo riflesso allo specchio.


Tela di fondo della pièce resta, infine, il motivo della neve, “la bolla bianca” del titolo, illusione anche alla cocaina dalla quale Cocteau si stava disintossicando nel 1929 durante la stesura del testo; un sasso ricoperto di neve colpisce al petto Paul all’inizio del romanzo come una pallottola di veleno esplosa anticipando quella che gettata contro i due danzatori sancirà la morte metaforica della coppia alla fine della pièce. Nel balletto sono petali, grandine, una cascata di neve bianca, di pulviscoli bianchi che scendendo a nugoli dall’alto, come una tempesta ricoprono e avvolgono il suolo, i corpi sollevati, la loro stretta in aria nel volo, nell’abbraccio divenendo scenario, sfondo all’idillio amoroso, al momento dell’incontro tra i due amanti nel duo danzato. E’ polvere bianca, ancora, questa neve o “droga innata” secondo Monteverde che come veleno iniettato si infiltra sottopelle e attraverso le vene penetra fino all’interno dell’organismo al cuore e oltre; iniettata conduce alla morte reale e simbolica dei corpi, al destino inevitabile, mortale del desiderio incarnato dai medesimi posti di fronte al proprio interdetto. Una bolla di neve bianca, eterea e candida all’apparenza esplode, infine, come proiettile gettato: scagliato provoca una deflagrazione infinita; è grandine che discende, ricopre e sommerge ogni cosa sancendo la morte annunciata dei due protagonisti, l’amore e il suo fatale dissolvimento.