lunedì 22 giugno 2009

Salia Sanou, Seydo Boro, Poussières de sang, coreografia per 8 danzatori, 4 musicisti e una voce solista

Sanou-Boro: « Questo tempo tormentato di un vento caldo e secco d’Africa solleva sulle nostre teste una polvere di sangue che ricade sugli ombrelli, sulle case e penetra nelle nostre camere. In una frazione di secondo tutto si muove trascinando con sé in una spirale di violenza senza fine. Allora comincia un’interminabile marcia per la vita che lascia uno strato di polvere spessa e rossastra nell’aria e sui nostri piedi. I corpi si sfiniscono, si consumano in quella marcia, gli spiriti si fragilizzano; la rivolta interiore cresce. Dobbiamo a poco a poco sbarazzarci degli oggetti pesanti, reali o immaginari, compresi i corpi quando divengono troppo gravi da portare”.

Una macchia rossiccia si allarga senza misura sulla scena evocando sangue e polvere ma anche il giallo e rosso dei colori caldi africani, traccia indelebile lasciata sulla sabbia ocra e dorata del deserto burkinese.
Dietro, sullo sfondo, un’enorme muro bianco, illuminato a vivi colori contro il quale i danzatori sembrano scontrarsi invano, dibattersi, lanciare colpi di mani e di addome, strisciare ricadendo
disfatti ai suoi piedi. Parete che continua a sussistere, a
restare presente, invisibile eppure presente, nelle scosse, nei gesti di violenza, di lotta, di impotenza o di caduta delle sequenze successive.

Vento caldo e secco d'Africa, solleva polvere di sangue lungo il cammino; i piedi cominciano a sanguinare, i vestiti a dissecarsi contro i corpi consumati nella fatica,
le menti a estenuarsi alla prostrazione . Cammino infinito fatto di passi all'avanti e all'indietro, di strettoie, dossi, deviazioni, svolte, passaggi che conducono a impasse,
ritorni sui propri passi, circoli chiusi, salti nel vuoto, scalini di una scalinata senza fine.
“Corpi e voci camminano per necessità, senza una certezza, soprattuto quella di esorcizzare o guarire i mali del passato, i torti di uno o dell’altro”.
Parole di corpi per scrivere una traccia, per disegnare frammenti d'esistenza.


Lotta contro mura, barriere reali o immaginarie contro cui ci si dibatte, ci si accanisce invano con forza di rabbia o di disperazione, rimpiccioliti, raggomitolati al suolo;
Gruppo di schiene nude, luccicanti, scolpite al momento della caduta,
della lacerazione sottile, nell’oblio di sé, nell'inerzia devastante del corpo e dello spirito.

“Polveri di sangue si appoggia su stati di corpo che hanno vissuto tempi di tensione estrema. Esplora la nostra memoria individuale e collettiva, tragedie che ci traversano, individuali e storiche, vicino a noi o dall’altro capo del mondo”.
E' lotta al suolo di mani e di gambe che lanciano colpi, di schiene che si piegano prese da scosse convulse, all’interno e all’esterno,
di teste che ruotano fino a perdere la nozione della loro umanità,
di corpi che rotolano al suolo presi a calci da qualcun' altro,
oppure in un duo dove l’uno fa da schermo opponendo resistenza all’altro.

La rivolta contro l'ingiustizia, i meccanismi di potere che schiacciano l'individuo, la sofferenza del mondo, la propria e quella degli altri.
I danzatori si sollevano, si lanciano con violenza contro quelle barriere, usano tutta la potenza il loro peso, il respiro, la potenza di quei corpi apparentemente indistruttibili nella loro bellezza eppure nudi di fronte alla durezza della pietra.
Si caricano dell’energia l’uno dell’altro fino a insorgere, a diventare gravi, pesanti, ammassati in un insieme unitario, sollevandosi in un grido collettivo di rivolta che la musica non puo’ che sostenere. Il grido cresce, esplode violento, senza poter più essere trattenuto, poi viene come riassorbito contro quel muro di silenzio, muro contro cui i danzatori sono costretti a fermarsi, immobilizzati.
Massa inerte di schiene nude offerte e insieme volte contro chi guarda.

“ Quando non c'è più parola altro sorge: un gemito, un grido, una melodia, un lamento”.
Si risponde attraverso il canto ai divieti, alla violenza inaudita che gli esseri devono subire.
“Quando non si può’ parlare si canta, si contorna l’ostacolo, si cerca di resistere.” I musicisti prendono posto su scena dall’inizio alla fine dello spettacolo, il suono vibra di una densità fisica nello spazio, la musicalità prende il sopravvento sulla parola come per dare libero corso ai movimenti interiori dalla sconfitta all'inerzia, dalla lotta alla rivolta.
Quando i corpi sono inerti, allungati al suolo a occhi chiusi, é la voce solista della cantante burkinese a insinuarsi lentamente, la musica restando il filo conduttore sulla scena e in stretta simbiosi con la danza. Prima lamento, dolce, malinconico, avvolgente per dire il ripiegamento d'esseri feriti; poi invocazione che si solleva a poco a poco, prendendo forza come per scuotere, risvegliare, come usando quella forza, quella densità per sollevare gli individui dalla lacerazione sorda che li consuma fino a incitarli a rimettersi in piedi. La stessa immagine ritorna nel corso dello spettacolo quando qualcuno scuote, prende a calci un altro con ostinazione, con rabbia, come per rimetterlo in piedi, per farlo sollevare mentre lui continua a rotolare al suolo.

“[..] La caduta di un corpo che si rompe e cerca di ricostruirsi a partire da frammenti di vita, di polvere, di detriti”. Immagine di un gruppo di interpreti al suolo, estenuati, incapaci di reagire, alternandosi al gruppo di danzatori che si solleva gettandosi all'avanti con il busto e il torso, poi al gruppo di donne gettate all'avanti e spinte di nuovo indietro come da una sferzata d'aria gelida.
In ginocchio, le vediamo, infine, levarsi, aprirsi una strada, pronte a schivare l’ostacolo aggirandolo questa volta con la flessibilità e non con la violenza, con l'intuizione più sottile sulla fluidità in divenire del corpo contro la sua forza statica mentre un’ombra invisibile continua a sussistere in tutti i loro gesti anche quando le danzatrici si saranno infine sollevate dal suolo.



domenica 14 giugno 2009

Artaud I "Il teatro e il suo doppio"















La presenza fisica, incontestabile del corpo in teatro ricorda all’uomo che é nello spazio, che e` incarnato, lo riporta alla sua realtà prima. Per Artaud il corpo é semplicemente reale diversamente dal pensiero. Le certezze crollate una a una resta “l’evidenza dolorosa del corpo”: la prima e ultima realtà, la nostra sola possessione, la nostra sola certezza.
Luogo dove l'uomo puo' ritrovare una sorta di unità tra pensiero e vita perché “l’esistenza é compresa nel suo essere sensibile come carne”.

Spazio teatrale. E' lo spazio abitato, esistenziale, spazio interiore che prende forma all’esterno come movimento, nell'azione o nella sua assenza, dal gesto alla voce.
Non solo prendere coscienza dello spazio altrimenti in teatro ma plasmarlo, costruirlo, attraversarlo come nell'atto di esistere, abitare, esserci, “essere là” come presenza.

Il luogo originario dove l’uomo si confronta alla propria finitudine di soggetto e insieme a quello che lo supera, lo attraversa, d’un al di là come dell’infinito che passa attraverso il suo corpo. “Spinto” fuori, intorno a un punto morto, a un vuoto centrale e originario che lo abita, lui preso senza fine tra la pienezza e il nulla, l'eccesso e il vuoto.
“Sempre il vuoto. il punto centrale intorno al quale solidifica la materia”.

Il teatro e la peste: “al teatro della crudeltà la sola legge é l’energia poetica”.
Immagine di un teatro che ci restituisca le forze vitali, che sia come un bagno d’elettricità psichica per rigenerare l’intelletto, capace anche di risvegliare i nostri demoni sepolti.
La peste é qui come l’immagine di un’epidemia, qualcosa di contagioso che ci investe : la spinta verso un “al di fuori” e insieme un lasciare emergere il proprio fondo di crudeltà latente. Una forma in espansione, in contaminazione, una forza fluidica capace di risvegliare delle immagini dormenti. E' un disordine latente che spinge ai gesti più estremi;
sono gli umori imprevedibili che spostano i fragili equilibri del corpo,
le spinte infiammatorie,
richiamo di forze bruscamente risvegliate per liberare l’incosciente.


Il teatro sacro, rituale, quello più vicino alle origini ci restituisce l’immagine dell’uomo nella sua condizione originaria: l’uomo ombelicale e primo tale che esso appare nel teatro balinese; un corpo larvale, legato con tutte le sue fibre alla natura.
La cultura , in quest’ottica, é quella che riunisce l’individuo alle forze analogiche del cosmo: un sapere legato al suolo, alle lave vulcaniche, al sangue, alla terra, al respiro, ai fluidi delle acque, alle forze animate del vivente.

Ritrovare questa unità del tutto: riconciliare la natura transitoria dell'umano a un cosmo apparentemente infinito. Cosi’, il corpo e lo spirito si rispondono e il pensiero é in relazione con tutti gli organi, bagna in tutta la materia del vivente.


Crudeltà: é nella vita prima che sulla scena e se il teatro è crudeltà in Artaud, è perché esso si vuole all’immagine dell’esistenza. Crudeltà é lacerazione, la cosa viva, bruciante e dolorosa che agisce al fondo dell’umano: il “fuoco, l’impulsione sragionata di vita”; il gesto creatore,
l’andare fino in fondo su questa strada di necessità, il guardare in faccia con lucidità la condizione umana.
E ancora, la contestazione dell’ordine esistente in senso puramente poetico,
l'invasione contagiosa di un “di fuori” che non risparmia nulla e nessuno,
il riso che distrugge e polverizza le apparenze.

Il teatro e la creazione -Lo spazio é trafitto da grida, ritagliato, lacerato da parte a parte da gesti, frammenti, débris, briciole di “non-detto”, l’invasione di un grande di fuori.
Il corpo non é mai neutrale, per il fatto stesso d’essere, di divenire su una scena,
ora preso nell'impulso di generare, trasformarsi, superare sé stesso,
ora intaccato, contaminato, rivoltato nel suo fragile equilibrio ,
sofferente e colto nel momento estremo della propria perdita.
Corpo del grido per eccellenza.

I movimento: andare verso l’increato della rappresentazione.
Non imitare, realizzare, ripetere quello che conosciamo già ma ricercare questo movimento all’indietro, verso il gesto primo, l’atto primo forse, il più semplice, non importa,
come il grido della nascita, qui il grido che non esce. Risalire fino al luogo di emergenza del grido e per questo ridiscendere attraverso il corpo fino al punto remoto, dove esso si nutre.

Teatro dove un linguaggio si cerca come necessità interiore, d’espressione in primo luogo.
Spazio dove sarebbe virtualmente possibile rimettere tutto in discussione,
dove le forme non cessano di rinnovarsi,
l'uomo di rinascere, il mondo di risorgere dalle proprie ceneri.
Prima dell’opera o della forma il teatro é ANSIETA’ E INQUIETUDINE CREATRICE.



martedì 9 giugno 2009

Antonin Artaud : « Il teatro e il suo doppio»




















Premessa : é un libro fatto d’immagini più che di concetti, di visioni più che di nozioni concrete sulla messa in scena rivelando Artaud come un poeta e non come un teorico del teatro. E' un pensiero più vicino all’intuizione primitiva liberata, lasciata scorrere fuori al di là d' ogni preoccupazione retorica o analitica.
All’origine del testo é la necessità di ritornare alla domanda fondamentale su che cosa sia il teatro nella sua essenza: perché si fa ancora teatro oggi, qual’é il suo senso primo, in cosa consiste la sua portata rivoluzionaria, il suo potere d’espressione, di rottura, di sovversione, la sua carica creativa.
Il teatro balinese, possiamo dire più in generale tutte le forme di teatro extra-occidentale, rituali e antiche, tramandate oralmente e prodotte da civiltà più vicine alle origini si pongono in quest’ottica come la ricerca di un teatro riportato alla sua essenza nel tentativo di tornare “aux sources du théâtre”.

1- La riflessione d’Artaud parte da una critica del teatro occidentale: della centralità data al logos, al testo scritto, alla parola, al linguaggio articolato rispetto agli altri mezzi d’espressione ( danza, gesti, spazio, suono, musica, luci).
Il teatro occidentale consiste a mettere in scena un testo: é adattazione, traduzione, letteratura messa in scena. La sua realtà fisica é destinata a restare una realtà seconda, dissimulata dietro la letteratura come arte della rappresentazione; cio’ condanna il teatro all’accessorio, all’effimero, all’esteriore. Il teatro occidentale si é alienato alla letteratura, secondo Artaud appoggiandosi a dei principi ingiustificabili, aberranti, assurdi: il primato del testo sulla scena in primo luogo.

2- E’ nella messa in scena, nel lavoro fisico dell’attore-danzatore, nella ricerca fatta direttamente sulla scena che bisogna cercare il linguaggio propriamente teatrale, punto di partenza per il testo poetico messo alla prova dei tempi, dei ritmi e delle necessità interna alla scena. Una figura unica diventa quella dell’autore-creatore di questo spazio poetico, capace di dare forma, forza e corpo a una propria visione, di metterla alla prova, sperimentarla, ricercarla sulla via di intuizioni proprie partendo da un lavoro elementare e concreto: un’azione, una parola detta, la voce, il muoversi, il camminare
dalle molecole più elementari della materia fino alla costruzione di cellule complesse in un corpo animato e vivente.

3- “Il dominio del teatro é plastico e fisico”: l’essenza del teatro é la messa in scena in uno spazio concreto, tangibile e plasmabile perché fatto di una densità propria all’umano. La messa in scena, in questa prospettiva costituisce una vera e propria poesia fisica nello spazio nata da una pluralità di linguaggi:
l’immagine visiva,
la danza come scrittura del corpo in atto,
la parola come bisogno di una voce risuonante, ritmica, vibrante investita della forza stessa del grido
nel punto essenziale della parola
nel paradosso tra il non-potere del linguaggio e il bisogno estremo, assoluto, primo del linguaggio.

4-“Il teatro della crudeltà”, che si vuole metafisico e sacro é prima di tutto “un teatro fisico e dei sensi” : teatro dei nervi e del sangue, della stretta tangibile della sensazione
fa appello al corpo, cerca di raggiungere il corpo profondo della sensazione prima che l’intelletto.
Lo spettacolo deve produrre un’azione fisica sullo spettatore; la ricerca scenografica come ogni altro mezzo deve andare a toccare direttamente la sensibilità nervosa, raggiungere i sensi, l'immaginazione di chi guarda. Artaud usa per questo teatro il termine “envoutement”: un teatro-incantazione, magia, rituale; un teatro che risvegli il sensibile riannodansosi alla sfera dell’incosciente.

5-
L’attore deve riscoprire il potere magico del corpo, le infinite possibilità del suo potenziale fisico, conoscerlo e esplorarlo . In “Un atletismo affettivo” Artaud ritrova una tecnica del respiro capace di ristabilire l’analogia tra l’emozione e l’organismo. Il corpo si scopre espressivo in sé , il gesto non più ombra della parola ma in dialogo con lo spazio.
Riscoperta del gesto ma anche del grido : la potenza del respiro, la parola incarnata, la voce.
Non si é più capaci di gridare in occidente, si é perduto il potere, il senso liberatorio del grido,
la sua necessità primordiale come nell’atto della nascita: l’uso della voce in tutte le sue modulazioni contro un parlare astratto, controllato.
Il grido e il respiro, come il gesto, assumono una nuova densità e divengono un mezzo di far parlare lo spazio.
Anche la parola diventa un mezzo d’espressione specificatamente teatrale. Detta, lanciata, ripetuta, sussurrata, fatta risuonare, proiettata essa trova il suo posto nello spazio: "assume un’esistenza concreta sulla scena ”. Riconduce naturalmente il linguaggio all’oralità, alla voce, al respiro che é anche poesia del ritmo.
Il linguaggio é qui incantazione prima che senso.

Il teatro secondo Artaud : “una messa in scena concepita come poesia fisica nello spazio”. Esso si basa su un linguaggio fisico e concreto capace di agire direttamente sui sensi dello spettatore. Solo ritrovando questo linguaggio potrà diventare un’arte autonoma e ritrovare la propria essenza.


martedì 2 giugno 2009

Immagini scritte sulla danza















Si chiedono momenti d'essere su una scena, che le immagini ci facciano sognare, risveglino in noi i sensi e l'immaginazione, che diano corpo ai nostri sogni, alle nostre visioni, ai fantasmi che ci tormentano, ai volti, ai paesaggi di una memoria insieme personale e atemporale; che ci rendano, per un istante, liberi.

Qui tutto é dell'ordine della visione, del sogno, come le immagini oniriche, irreali, come le musiche atonali, incantatorie, monoritmiche, come i lampi che attraversano fulminei la scena,
come i colori che scorrono liquidi sullo sfondo dal blu marino al bianco al verde: dalla trasparenza di gocce d'acqua, al sole infuocato, a squarci aperti d'orizzonti illimitati.

Energia dell’anima che si propaga in immagini nello spazio.

Cerchio di corpi stretti in tute aderenti e capelli compressi dentro cuffie della stessa tonalità vagano nel buio; nel vuoto si fermano. Cercano qualcosa che non riescono a trovare, continuano a correre via, ripetendo lo stessa sequenza in un circolo all'infinito.

Solo danzato della prima interprete nera: corpo ondeggiante contro un muro, fuoco vivo e bruciante addosso, sensualità , nero di leopardo nel deserto. Poi l’immagine cambia come se qualcosa si frapponesse, e, a un tratto, un altro personaggio appare: lotta contro un muro, si dibatte invano come volesse liberarsi di qualcosa tendendo le mani in segno d’aiuto, mentre le gambe sono immobilizzate, fissate contro la parete.

Gruppo di figure femminili sullo sfondo di immagini di cielo e di vento :
abiti lucidi, luccicanti di seta argentea portati dal vento che scivola in loro,
movimenti liquidi sulla pelle...
Corpi maschili: energia d’animali liberi, selvaggi, incontaminati che volano, saltano nello spazio.
L’ irruzione repentina di una forza violenta, esplosiva, virile: corpi magnificati nel loro essere senza preoccupazione alcuna per la narrazione.


Danzatrici ora portate di peso d'altri , ricondotte a gesti meccanici, quadrati, ripetitivi un po’ come fossero manichini, oggetti e non soggetti, corpi appropriati, manipolati e mossi dallo sguardo d'altri.
A parte , su uno sfondo nero, una figura in controluce grida, non vista, quello che non saprebbe dire altrimenti se non danzando in questo bisogno di irrompere fuori, ridere e piangere, giocare e gioire insieme.

Oppressione e liberazione : corpi chiusi, serrati in tute aderenti e capelli stretti, raccolti in cuffie incolore, privati della loro femminilità, lottano contro un muro che gli cammina addosso per ritrovare un passo, un momento di libertà, con le braccia almeno, mentre le gambe strisciano contro quel muro e le teste vi si staccano a fatica.
Poi su uno sfondo di cielo quegli stessi corpi diventano gesti espansi, capelli al vento, libertà ritrovata di figure che volteggiano aeree nel movimento.
Solo di una danzatrice bianca: abito lungo, lunare, l’acqua che scorre sullo sfondo,
la sensazione di quell’acqua come l'immagine del corpo che danza.
Essere uno con il proprio respiro, danzare in duo con il vento che non ha dimora.


Duo di una interprete femminile e uno maschile: lei si avvicina, abbraccia qualcuno con lo sguardo, scivola sul corpo di lui e poi é come se scappasse d’un tratto; allora lui la prende di peso e la riporta indietro, trascinandola a sé. Ha i piedi nudi a metà, una scarpa perduta sul cammino; la riporta indietro, la depone al suolo e li' la lascia. Movimenti lenti avvicinandosi,
pause di immobilità, lotta silenziosa di corpi, chiamare e respingere l'altro, resistere e cedere,
tenerezza e violenza insieme. Nella lotta si ritrovano un istante, si sforano le labbra ed é come se scivolassero al suolo , come fossero avvolti in uno stesso caldo abbraccio. Ora sono stretti l'uno all'altro, non più freddo, non più paura li': sono salvati per un istante, ritrovano la perduta unità, la fusione irrecuperabile dell'origine, poi d’un tratto qualcosa irrompe dall’esterno e il sogno finisce.


















Corpo mai nato, ricoperto di bianco, stretto in un costume aderente, capelli raccolti,
larva, bozzolo o fiore dischiuso, essere fantasmatico, irreale, danza sulla schiena di un altro che tenta, invano, di liberarsi.
E’ bianco quel corpo, sottile, diafano, irriconoscilbile sotto la tuta bianca, l'altro oscuro. I due colori, le due pelli si confondono, si prolungano l'una nell'altra. Uno si proietta, si lancia contro l’altro come se lo tormentasse, lo abitasse tutto il tempo, gli rovesciasse addosso il suo peso, la sua presenza silenziosa, fosse li’ aggrappato a lui senza essere niente più che un’apparizione, un fantasma. I due finiscono per divenire il prolungamento l’uno dell’altro, per camminarsi addosso, per scivolarsi sopra, per percorrersi tutto il tempo, per rotolare a terra insieme in questo dialogo non si sa se dell’ordine del piacere o dell’ossessione. Non vede il suo volto perché é di schiena, non la vede completamente ma sente la sua presenza tutto il tempo; lui si volta e prende infine la direzione dell’uscita, lei resta li’ a terra mentre lui esce lentamente.


L'immagine finale: gioiosi dentro il sole questi esseri celebrano la bellezza della danza e la libertà ritrovata attraverso quella, sullo sfondo di un sole rosso, di musiche percussive, nell'eterno eco del deserto d’Africa.