lunedì 23 settembre 2013

Ram 2013, “Trasumanar e organizzar” Pratiche trasumananti, (al MAR di Ravenna)


(Vito Acconci, "Intersections", Venezia 2013)



Trasumanare, dall’uso dantesco del termine, è l’andare al di là dei limiti della natura umana, trapassarla, trascenderla facendo l’esperienza del divino: alterità assoluta, illuminante rivelatoria attraversata o vissuta come visione che a fatica e solo parzialmente si renderà al potere del linguaggio. Nel filone tematico di questa esposizione “trasumanar” si rovescia nell’estremo opposto della “trasumananza”, “trasumanante”: cio’ che è per sua natura l’erranza, lo spostamento periodico, la trasmigrazione da un luogo all’altro, da un’identità all’altra, all’origine nella pastorizia. Si è scelto di parlare di “pratiche trasumananti” nella duplice valenza di questi due termini per inquadrare il lavoro dei giovani artisti esposti al Ram 2013. In primo luogo “trasumanar” come movimento nomadico è l’essere viandanti del pensiero, dell’esperienza in un nomadismo strutturale che si rifà alla sensibilità di tutta una generazione, a un modo d’essere del presente: sinonimo d’ inter-connettività globale, d’una mobilità reale facilitata, di viaggi low-cost, connessioni rapide e senza fili rese possibili dal digitale espanso, a banda larga utilizzato senza limiti da una comunità virtualmente costruita sulla rete. Dall’altra nomadismo diviene sintomo di instabilità reale, il disagio della precarietà strutturale, sociale o lavorativa, e dunque la necessità di trovare alternative praticabili , di divenire creativi nel pensiero rispetto a tale limite costringente del reale, camaleontici nell’identità rispetto a tale condizione d’essere determinata dal bisogno e dalla sensibilità.





Un passaggio percorribile a duplice senso attraverso le opere ci porta dalla transumanza come condizione assunta o vissuta d’una generazione al trasumanar dantesco come un cambiare di segno nel venire in atto del lavoro artistico: metaforizzare l’esperienza, operare passaggi metonimici dal singolare all’universale, trovare queste aperture rivelatorie nel linguaggio, nel segno, nella materia come un rendersi divini, ricongiungersi al divino in loro.

(Luca Barberini, Folla n. 6, 2013)



Naghmeh Farahvash, (mosaico)                                     




Griglia primordiale, spinta nomadica delle cellule in configurazioni differenziali ripetute;
sono connessioni di punti in movimento dove quello che conta è il tragitto, “l’andare verso”, il mettere in relazione prima come erranza casuale di punti poi come aggregazione ordinata dei medesimi in un “andare insieme” che è anche un “andare verso”: ricongiungere elementi tra loro insieme tendendo verso qualcosa . Le tessere si aggregano in sequenze periodiche sempre più vaste, in composizioni equilibrate giocate visivamente attraverso i colori come un cucire insieme cellule in un campo d’azione, in un tessuto, sia esso organico o vegetale, d’un corpo o d’un tappeto. Le origini persiane dell’artista si ritrovano in questa paziente tessitura come di fili diversi giorno dopo giorno orditi insieme generando la purezza cromatica d’un disegno regolare e astratto dove tuttavia riemergono cellule viventi, punti di bianco rilievo che oltre l’apparente assenza di colore del tassello mancante appaiono risalire in superficie dal loro proprio campo magnetico come veri e propri fulcri luminosi. Ed è in quei punti che la luce vibra in intensità dal suo proprio nucleo espressivo, irradiante in lui solo.








“Infestanti””, Fabiana Guerrini





Infestanti, infestate maschere di animali-umani; “animali ibridi con la coscienza di semi-dei egizi”; nate dalla commistione dell’umano, dell’animale, del vegetale.

Sul retro contro la parete dove discendenti restano sospese come maschere sono le ceramiche dipinte a freddo dei loro supporti, impresse in filigrane di finissimi scheletri di foglie, in mappature trasparenti, semi-invisibili impresse in bianche nervature del micro-cosmo vegetale.
Sono identità in divenire, nomadiche e per questo ibride, perché riecheggianti come animali all’umano ma aprendo a lampi di coscienza sulla divinità. Trasumananti per condanna genetica, condannate a questo loro trasumanare incessante attraverso una serie di divenire,
nell’infra-umano, infra-genetico, nella zona fuori dal tempo catturate in questo loro stato di indeterminazione da uno stadio all’altro, da un regno all’altro e lì lasciate in tale sospensione o congelamento senza tempo.
Trasumanare è anche dal ritratto vivente, dall’ io identitario del luogo di realtà alla scultura come maschera lapidaria, marmorea, fuori dal tempo oppure all’icona come rappresentazione sacra trasfigurata, qui apparendo ormai lontana dal piano dell’incarnazione, più vicina nella maschera rituale d’un rito iniziatico.





Stefano Pezzi, (fotografie)




Volti situati a migliaia di kilometri di distanza interconnessi alla rete globale tramite Skype vengono ripresi e fotografati nel corso di conversazioni-video al computer. Il fotografo gioca con queste presenze differite, non esistenti se non in immagini video virtualmente date, simulazioni di presenza, presenti in sfocatura intenzionale come oggetti ottici costruiti dal medesimo.
Tale la misura in cui il digitale cambia la nostra percezione del mondo nel rapporto tra vicino-lontano, presente-assente, reale o virtuale, ricercato o temuto, desiderato o messo a distanza. Cinquanta scatti al minuto affidati più all’automatismo della macchina fotografica che non a una presenza autoriale fissano istantanee di questi volti in una imperfezione fotografica voluta, in una sfocatura intenzionale prodotta in maniera del tutto aleatoria. Le immagini-video di questi ritratti divengono i volti di un “l’ultra-umano prodotto dall’appendice tecnologica”[1], prodotte dal video come immagine elettronica in un suo proprio “trasumanare di segno”[2]. Rimpicciolite o ingrandite, inquadrate a lato o espanse sull’intero schermo, vicine o lontane, precise o più spesso sfuocate, trasposte dalla loro realtà immediata di soggetti. L’immagine subisce la metamorfosi del video, video che “genera una propria materia” nell’espressione di Jacques Rancière come se “ la forma troppo pura” o “l’avvenimento troppo carico di realtà” fossero “ messi fuori da loro stessi”[3] sostituendovi una logica discontinua dei caratteri discreti del digitale. Volti dell’alterità dell’immagine elettronica, dell’ultra-umano prodotto dall’appendice tecnologica.







“Figli dei figli”, Alessandro Camorani, (fotografie)






Panni stesi, case popolari, cemento grezzo e fumo di sigarette, laideur repandue sullo sfondo di giovani della marginalità nei sobborghi urbani italiani. Il nomadismo è qui quotidiano malessere esistenziale causato dalla mancanza di mezzi, dal disagio o l’insofferenza nei confronti di un presente rigettato o vissuto con difficoltà, con precarietà, di un passato che sfiora i limiti di droga e illegalità. La fotografia segue i trasumananti di queste periferie urbane, i reduci di questi naufragi moderni del presente, li fotografa da vicino nella loro realtà al quotidiano, esposti, in presa diretta, con un approccio quasi intimista, personale e insieme messo a distanza in sospensione di giudizio. Il nomadismo è sinonimo di scollamento totale dal tessuto sociale e lavorativo, il fardello dell’eredità genetica e famigliare a incidere sulle loro esistenze fino a farli abdicare dalle regole del gioco, del mondo,
della partita in atto senza saperne imporre o creare altre, le proprie contro l’improprio di cui sono imputati.
Tuttavia, la nascita della nuova nata nelle fotografie segna come lo spiraglio di luce, il desiderio di riscatto, il momento fuori dall’ordinario o "l'extra-ordinario” del suo “venire alla luce”. La piccola viene a noi di fronte all’obbiettivo nel suo etereo, indifeso arrivare nel mondo, all’improvviso, in questo suo bisogno estenuante di cure, di attenzione: minuscola, vulnerabile, indifesa quasi per la nascita prematura tra le braccia della giovane coppia.
L’immagine segue questo trasumanare come passaggio o trasmutazione verso un atto di grazia, un momento fuori dall’ordinario passando dal precario, indigente e sordido di quel presente subito più che scelto, sopportato più che vissuto, verso il gesto colto dall’immagine del “prendersi cura”.
Nell'abbracciare con tenerezza la piccola  sorge nel giovane padre la consapevolezza di dover centrare il proprio campo d’azione su di lei ora, di dover apprendere un’attenzione diversa e rimpicciolire il proprio punto di vista per prestarle una cura fuori dall’ordinario.
Sui volti dei protagonisti la meravigliosa scoperta, l’inaspettata meraviglia per l’evento del suo esserci come il senso rivelatorio d’un riscatto, d’una salvezza non prevista per loro.







Maria Ghetti,( installazione)


“Contro l’apparente dualità” come titola l’installazione qui, di categorie dicotomiche imposte dal pensiero occidentale, contro i binomi mai neutrali del nostro sistema epistemologico o sociale in atto volti a stabilire la supremazia d’un elemento su un altro, dominatore/dominato, mente/corpo, intelletto/intuito, uomo/donna, occidentale/non-occidentale, sorge il multiforme dell'immagine catturata e rifratta dalla mobilità di questa installazione di multipli specchi interagenti tra loro. L’instabilità dell’immagine spezzata, rifratta per molteplici punti di vista, per tagli diversi della medesima crea questo effetto prismatico come d’un raggio di luce che passando attraverso un prisma ottico diverge e dunque deriva dall’uno, dall’unico, in senso nomadico scomponendosi in diverse altre rifrazioni ottiche dell’intero spettro del visibile. Gli specchi sono posizionati al suolo, deposti di fronte a un tappeto, accostati l’uno all’altro, tra loro frammisti, incastonati insieme a pezzi di foggia antica, arrivando come schegge di un vecchio mobilio, pesante, in legno, d’altri tempi, pesantemente imponendosi allo sguardo di cui restano solo, tuttavia, frammenti dentro cornici, in pezzi di mobili oppure sparsi, qui ricomposti tra loro in questo montaggio di superfici riflettenti.

Da distanza il corpo si rende visibile solo per parti contro gli specchi appoggiati al suolo: qui i piedi, lì le gambe e le ginocchia, parti del bacino, sezioni date per tagli visivi e simultaneamente visibili tra loro. Ora sedendo in ginocchio sul tappetto si rifrange il viso insieme di profilo, frontale, in primo piano, a lato, più distante il corpo senza testa, ora solo la testa sorpresa da uno specchio posizionato sul retro della figura di fronte a un altro.
Scrutarsi non visti, guardarsi criticamente, frontalmente, ora solo attraverso mani affusolate, lunghe e nodose, serrate in diverse posture.
Ancora, l’installazione di specchi messa a sistema riflette e respinge, rimanda indietro la propria immagine, riproiettandola a distanza come scudo riflettente nel processo che la rifrange e la frantuma, la rinvia e la scompone in diverse altre rifrazioni ottiche possibili: io soggetto, sé inconscio, l’io attraverso tutte le sue posture o imposture d’essere, l’io attraverso tutti i suoi travestimenti e trasformazioni, temporanee posizioni identitarie che si rifrangono nell’instabilità di immagini catturate e riflesse.



Giovanni Lanzoni, “la grande fuga” (pittura) 



Una scena vuota forse in attesa dell’umano, sedie vuote sul fondale rosso d' un tappetto intessuto di colori.
Platea, teatro vuoto della fine o dell’inizio, sala di spettacolo o luogo di preghiera dopo che l'evento ha avuto luogo, dopo che il rituale sacro o profano, teatrale o religioso si è compiuto, è passato lasciando le sue tracce, scie di fumo, l’aria consunta dai respiri o bruciata dagli incensi,
sedie qua e la in disordine, il sentore dell’evento, la potenza del momento che è passato lì poco prima.

Ancora quella scena vuota lì visualizzata è il luogo dove tutto è già stato o tutto deve ancora compiersi, l’ancora possibile; rosso è il colore dominante, vivo, arancio e giallo i complementari andando a riempire gli spazi vuoti, i toni cupi della precedenti pitture-cartoline della serie come la fine di qualcosa che si sentiva cupo e grigio, di scenari squallidi e angoscianti, e d’un tratto la visione si anima, diviene immensa nel colore, vivente.

Sono sedie vuote, alcune sparpagliate qua e là, anarchicamente rovesciate,
trasumananti, trasposte su un palco vuoto:una scena di teatro, una platea, un’apparizione,
una cartolina.
Un disordine apparente, una pretesa incoscienza,
l’incipit d’una storia da raccontare, d’un dipinto da dipingere,
una serata danzante immersa in colori caldi, che invitano alla vita.




“Home”, Samantha Holmes (installazione)



 




































Casa-io-corpo, leggera, svuotata, sospesa eppure solida se non in volo;
anche se trasparente quasi, di impalpabili radici alla terra connessa e espansa, riproiettata tutto intorno attraverso lo spazio in forme altre, in nuove emergenze.
In espansione, esternazione, estroversione fantasiosa di sé, ciò che implica solidità, radicamento.
Aperta perché affonda le sue radici in questo denso, profondo sottosuolo che porta in sé ovunque dal suo primo nucleo vitale.

E, ancora, questa casa fantasiosa e aerea, è intessuta di fili fatti di vento.
E’ l’aperto che implica radice, è l’infanzia, è l’io-mutevole e giocoso in tutti i suoi lati;
è la tenda nomade della trasmigrazione, dell’andare verso l’altro, verso l’altrove,
è il bianco leggero del ritaglio, impalpabile, di carta tra le dita.

E’ la valenza immaginifica o metaforica dell’io, è lo spazio espanso che dal suo corpo diventa la sua seconda dimora;
 è lo svuotamento delle strutture reali di mattoni per dare spazio alle strutture effimere del pensiero, alle visualizzazioni creatrici dalle sue immagini.

Questa casa somma dei suoi infiniti ritagli è luogo di incidenze sottili,
di leggerezza calcolata, voluta, simile a costruzione di carta trasparente, effimera quasi,
sospesa a un filo eppure espandendosi nell’aperto delle sue impensate possibilità.












[1] Cfr. R.A.M 2013 Trasumanar e organizzar, p. 47
[2] Ibid., p. 47
[3] Jacques Rancière, « l’image pensive », p. 137, La Fabrique, 2009