sabato 9 dicembre 2023

VIVIAN MAIER, “ANTHOLOGY”, a Palazzo Pallavicini a Bologna


 













 


Il teatro “straordinario” del quotidiano in quanto svelato, semplicemente da una macchina fotografica nel suo versante ora poetico ora ironico, sempre e comunque spontaneo, tale appare la fotografia di Vivian Maier  in una “anthology” di più di cento immagini in bianco e nero e un piccolo numero di foto a colori accompagnate da un inedito Super8 mm attualmente presentate a Palazzo Pallavicini a Bologna fino al prossimo 28 gennaio.  Se il gesto del fotografare come quello scatto casuale e istantaneo, quella ricerca del dettaglio che rivela o modifica la visione abituale ha accompagnato simile a una necessità o un’ossessione tutta la sua vita, il lavoro della Maier è rimasto nell’ombra fino al 2007 quando centinaia dei suoi negativi e rullini sono stati portati alla luce e divulgati da un collezionista americano per una contingenza di eventi, infine apprezzati a livello mondiale.  La notorietà arriverà solo dopo la sua morte nel 2009 quando le sue fotografie saranno  divulgate e esposte in una serie di retrospettive in tutto il mondo. Oggi più che mai il lavoro della fotografa americana spaziando dagli anni ’50 fino alla fine del XX secolo esplora il nostro rapporto complesso e continuo con il mondo di immagini di cui siamo circondati e sopraffatti nell’era digitale; allo stesso modo nella sua costante produzione fotografica, estemporanea e casuale, si rispecchia il quasi parossistico uso del visivo sul web e i social media attuali.

Tuttavia per la Maier, non dobbiamo dimenticarlo, la fotografia porta in sé sempre e comunque, un riflesso della propria interna visione, quindi in definitiva un modo per cercare sé stessa in  quel costante rispecchiarsi o apparire come ombra, riflesso o silhouette tra le cose del mondo, in un mondo dove non trova pubblico ruolo o riconoscimento come  artista. Di qui la peculiare  serie di ritratti e auto-ritratti visibili nella mostra bolognese, rielaborati e ripetuti nel corso di una vita dove i tratti personali si sovrappongono costantemente a quelli dei soggetti fotografati.




New York, “Public library"
 (1954)

D’avanti all’imponente facciata monumentale della biblioteca pubblica di New York il volto di una donna appare, elegante, incorniciato da una collana di perle e da un cappello che le tiene raccolti i capelli con stile, in uno scatto rapido e fugace probabilmente da un autobus in movimento.  Lei, di profilo appare inaspettatamente  vista camminare, persa tra i suoi pensieri come un volto sospeso, arrestato in quello spazio-tempo preciso, in quel momento di intimità svelato dallo sguardo attento e quasi in sordina della fotografa. La strada è per la Maier un teatro dove scorre la vita, il movimento, la miriade di volti del quotidiano, tutti potenziali soggetti al centro del suo obbiettivo. Un dettaglio o un gesto sul quel palcoscenico fanno la differenza ed è lì che compare, si esprime al meglio il potenziale della sua visione, per  esempio in questo sguardo enigmatico, pensieroso quasi inquieto della donna colto sotto la maschera di eleganza e bon ton che ne cela l’apparenza. In quei dettagli si aprono spiragli unici di poesia, scorci eccezionali che ci fanno accedere alla sua più autentica visione.  


    












   Altri scatti nella stessa serie di “Street Photography”restano come punti di sospensione aperti sulla realtà: l’enigma di un gesto da interpellare, scoprire o cogliere semplicemente sul fluire della vita, del tempo o della memoria. Evidenziare un dettaglio come mani che si stringono tra due fidanzati, le scarpe di un uomo, i tacchi di una donna o lei vista di schiena perché secondo la Maier è nell’estemporaneo, nell’arbitrario, nel minuscolo non visto che  emergono le peculiarità, i gesti inconsapevoli, quell’aspetto unico e irripetibile di ciascuno di noi che costituisce un vero e proprio paesaggio dell’anima. Tale serie di foto  sottratte dal teatro della strada delineano un affresco complesso della realtà somma dei  dettagli evocativi del quotidiano: gambe che sporgono per caso sotto il ginocchio, gonne al vento, mani che nascondono, stingono, accarezzano altre mani. Si tratta, in definitiva sempre, di un punto di vista differente che sposta la focalizzazione piena e diretta della straight photography americana per iscrivere l’idiosincrasia, la differenza o lo scarto significante del reale.

 

Childhood                                                                                                  

L’infanzia è un tema che attraversa come una costante l’opera della Maier in quanto a stretto contatto con i bambini nel suo lavoro  quotidiano di “nanny” tutta una vita. I bambini compaiono in maniera inconsapevole di fronte all’obbiettivo con la più grande empatia dell’artista oppure sono ritratti con naturalezza in strada nel quotidiano. Sempre e comunque visti con semplicità e poesia nel loro contesto, lontano dai miti d’America o dalle immagini stereotipate di un’ideale di infanzia edulcorata e fittizia. Spesso, al contrario, lo sguardo della Maier misura la distanza tra il loro mondo e quello degli adulti scegliendo punti di vista decentrati rispetto all’ottica frontale oppure ritagliata a misura del bambino, sul suo sguardo, sui suoi gesti e pose.


In una foto del 1962 per esempio sono unicamente le gambe ad apparire, i tacchi a stiletto sul collant nero e la gonna al ginocchio per la donna borghese e altolocata, il bianco dell’abitino e calze a maglia della bambina, minuscola ,candida, irradiante rispetto alle dimensioni immense della madre vicino. Si tratta ancora una volta del vedere, inquadrare il mondo attraverso gli occhi del bambino tra la frustrazione verso una realtà che sfugge ai suoi occhi e la contemplazione del gioco,  posizionando l’obbiettivo lì, alla sua altezza o nel punto di fessura, nella discrepanza tra i due punti di vista.


Auto-ritratti





Esistere nel mondo, essere e fotografare come una donna e un’artista; lasciare un segno, una traccia, vedersi mentre si guarda l’esterno, per esempio nel riflesso distorto di sé in uno specchietto dell’auto. E in quel gesto, in quella traccia incisa di luce propria ritrovarsi infine come donna e come fotografa. Tale la serie degli autoritratti o delle immagini scattate prima in bianco e nero poi a colori dove la Maier compare in sordina tra le cose o incorpora sé stessa in composizioni dove irrompe quasi per caso il suo riflesso o la sua ombra.  In una immagine del 1955, la fotocamera Rolleiflex si staglia posizionata al centro della scena su un treppiede quasi fosse il fulcro di tutto il quadro mentre la fotografa appare poco più avanti offrendosi nel suo sguardo diretto e frontale a noi spettatori.  Mentre lei fissa lo sguardo fuori e il suo riflesso attraverso lo specchio si staglia speculare al centro dell’obbiettivo resta forse la macchina fotografica la vera protagonista della composizione o, meglio, come Maier la definiva:  “quell’extra paio di occhiali che ci aiutano a vedere il mondo un po’ meglio, un po’ più definito”.  Sia che si tratti di sé stessa frontale in primo piano con aria investigativa, instancabile osservatrice della strade e di chi le abita, sia che si infiltri come un’ombra allungata al suolo, oppure come un profilo che d’un tratto rimbalza tra le cose per sfuggire via dall’inquadratura, sempre e comunque è con l’autoritratto che la Maier si confronta del tentativo instancabile di autodefinirsi, nella questione aperta sulla propria identità messa in gioco per trovare una strada nel mondo come donna e artista insieme.


Ritratti


 


Si tratta di anziani, vagabondi o poveri colti perlopiù non visti per strada oppure in incontri reali, sempre e comunque tenendosi a una certa distanza dal soggetto fotografato. Nei ritratti sono spesso gli umili, i marginali o il decentramento del punto di vista dominante di un’America  bianca, puritana, liberale e perbenista a comparire o, in ogni caso, a destare maggior interesse. Così, le immagini che li ritraggono stabiliscono un rapporto di distanza ma anche di dignità restituita nel sancire uno spazio fisico e mentale, una barriera da non oltrepassare per lasciar parlare le loro intoccabile umanità, singolare e irripetibile. Altrove, la fotografa si avvicina con sguardo ironico e divertito ai ritratti delle classi più agiate, per esempio questo ricco uomo d’affari americano ripreso nell’atto di fumare un sigaro guardando compiaciuto dall’alto i grattacieli ai suoi piedi appena costruiti.  L’obbiettivo della Maier si insinua lì con ironia beffarda quasi tra le linee, mostrando con sarcasmo il volto di un’America perbenista, benestante e autoreferenziale, totalmente centrata su sé stessa e sui propri profitti. Tra i ritratti colti in  strada, agli antipodi,  un uomo intento a chiedere l’elemosine è fotografato a propria insaputa dalla Maier. La fotografa sembra quasi voler illuminare la sua invisibilità di indigente qualunque non visto in quella società luccicante di fasto e benessere economico, come fosse uno di noi, rendendoci parte delle sue stesse emozioni  sulla base di una comune umanità contro questa cecità di fondo del nostro tempo verso i marginali e i reietti della terra.  


Lo sguardo della Maier si posiziona ancora frontale ma a distanza con una certa empatia ritraendo una serie di bambini canadesi: il primo piano il volto imbrattato e gli occhi lucidi dopo un pianto, l’espressione della bambina seria e accigliata e lo sguardo di sfida frontale alla camera. Ancora due piccole si abbracciano in un momento di naturale empatia estemporaneo e fugace che solo i bambini riescono a manifestare nel gesto spontaneo di stringersi e guardarsi occhi negli occhi un istante. Infine, un bimbo magro e timido, diffidente e quasi schivo all’obbiettivo guarda fisso di fronte a sé la fotocamera come attraverso una barriera o un vetro invisibile che lo separa da noi spettatori. Perché, come ha sempre inteso la Maier, tutto il suo lavoro di fotografa nel corso di una vita  nasce da questa “interna visione”, ora spontanea e poetica, ora irriverente e ironica che illumina tuttavia il soggetto attraverso lo scatto fotografico. Sempre, la sua fotografia porta questo “ riflesso di sé” in ciò che crea, in quello che guarda. Sempre, l’artista si insinua come una “spia nel mondo” tra le strade e attraverso i teatri più comuni del quotidiano per “catturare voracemente quello che vede o che intende vedere”. E in quel riflesso, di sé e del mondo attraverso l’immagine fotografata, il lavoro della Maier non smette di porre la domanda sul senso e la fotografia resta quella “lente extra di visione” che tenta di rispondervi; una miriade di auto-ritatti per comporre l’intero quadro della sua visione.


                                                                                        

Tutte le fotografie © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York)



giovedì 9 novembre 2023

A proposito di “BurriRavennaOro”, al Mar di Ravenna

 









Alberto Burri, artista dal linguaggio poliedrico e assolutamente originale di cui non possiamo non ricordare le composizioni nei materiali più desueti come il catrame, i sacchi di tela juta, le plastiche e le loro combustioni approda al Mar di Ravenna con una monografia esclusiva, BurriRavennaOro, una selezione di opere ispirate alla cultura musiva della città in concomitanza con la parallela  Biennale di Mosaico Contemporaneo in corso.  Tra le cento opere in mostra la serie di tele denominate “Nero e Oro” (1993) attraverso la quale Burri rende omaggio in una sua interpretazione informale e prettamente materica alla grande tradizione degli ori bizantini mentre con il ciclo “San Vitale” realizza grandi monocromi neri in cellotex  cercando una via per trarre quella stessa luce intrinseca da sempre ai mosaici ravennati partendo da una valenza cromatica come il nero,  in sé stessa priva di luce. Altrove, infine,  pone al centro il contrasto netto tra l’oro e il nero, l’ombra e la luce. In questa stessa prospettiva si affiancano le serie di opere grafiche incentrate sull’ astrazione del segno ma ugualmente immerse in una grande potenza cromatica. Il nome dell’artista resta inoltre legato alla città attraverso l’opera in esterno al Palazzo Mauro de André del  “Grande ferro R” (1990) dove la propulsione della materia riemerge nel metallo in vernice arancio plasmato come un grande antro architettonico_ una gigantesca falange uncinata_ nella più grande libertà espressiva dell’artista.


“Oro”( 1992) una tra i primi monocromi esposti in foglia d’oro su cellotex appare come l’opera idiosincratica del rapporto tra l’artista e la città, attraverso la palese evocazione in termini informali e materici del sostrato di lucentezza emanato dai mosaici bizantini nella memoria collettiva. Tessuto di foglie d’oro splendenti irradiano dalla tela brillante come l’emanazione di un’energia che è propria della superficie buriana, lì dove si manifesta l’evento stesso dell’opera: segno, incisione o fessura nella sua sintesi ultima e estrema. Nella tela successiva “Sacco11” ( 1954) siamo posti di fronte alla combustione di materiali poveri, semplici o riutilizzati come la tela juta, poi ricomposti in collage insieme a colla, oro e lembi di sacchi bruciati. All’inizio dell’informale negli anni ’50 si sperimenta con il recupero dal basso dei più svariati materiali nel gesto di fare arte, nell’esplorazione di modalità espressive che spaziano dall’ happening, al dripping Pollockiano, alla polisemia di tracce e scrittura gestuale sulla tela . L’oro ritorna qui, ancora una volta, in margine all’opera, come l’esito finale e la metamorfosi ultima del sacco precedentemente bruciato, lacerato e ricucito in alchemica trasformazione mentre in una versione successiva esso scaturisce da un lembo di rosso colore.



Nero e Oro ( dalla serie “cretti, neri e oro”)



Aprire un varco, una strada concreta e materica, di corpo e di spazio su una superficie piana e astratta. Dare tridimensionalità, spessore e senso al fare dell’arte, così come dare nuova vibrazione al monocromo nero che poi si trasformerà in rifulgere d’oro. Si parte dalla bidimensionalità piatta del quadro per arrivare all’esubero di materia che esce dal piano e prende corpo, consistenza e vita. Una strada si apre di sassi, pietra e detriti in mezzo alla distesa piana e astratta del fondo nero in “Cretto” del 1973. Simile a crepa o fenditura, il “cretto” scavato dal sisma della cittadina siciliana di Gibellina cui Burri restituisce una memoria nell’omonima installazione in loco, ritorna in quest’opera informale come il varco che si apre sul rilievo in acrilico nero. Scrive Recalcati a tal proposito sull’opera di Burri: “L’arte non può accontentarsi di celebrare il visibile e il suo ordine, deve discendere nell’abisso dell’informe dove incontriamo insieme alle macerie del mondo le nostre.” Tale, precisamente, il tema dell’approccio informale in Burri secondo Recalcati, un discendere “ al cuore dell’urto, nell’abisso della materia e in quel mentre elevare il sisma, il vuoto della perdita a grande cicatrice plasmata dall’energia e dalla superficie dell’opera astratta. Dunque in “Nero e Oro  ( 1993) l’oro in foglia su tela rifulge in questa espansione luminosa, vibratoria e magnificente che si alterna e si intercala al monocromo ritagliato in nero dal quale sgorga per contrasto e complementarietà: rilucente come una sottile lamina dorata. Nella composizione successiva non è più il piano ma il rilievo, la concrezione materica del nero che emerge dalla superficie ancora in contrasto con il sottilissimo, lieve foglio d’oro. In un’ultima versione del 1994, “Cretto Nero e Oro”, la roccia bianca, arida e secca, screpolata da spaccature e distesa in acrilico a crepe sulla tela rinvia inevitabilmente alla grande installazione realizzata dall’artista a Gibellina nel luogo dove sorgeva l’antica città distrutta dal terremoto nel 1968. Là, una serie di blocchi di cemento e calce bianca composti con le macerie dei vecchi edifici rendono omaggio, ancora oggi, alla memoria storica della città scomparsa e disegnano grandi solchi simili a fenditure, “cretti” appunto,  che si intercalano tra un blocco e l’altro di cemento. Quella stessa cicatrice del territorio ricompare sulla tela di Burri, astratta e materica insieme, dove si contrappone alla controparte nera e si instaura, infine come cerniera d’oro, margine rilucente tra il bianco e il nero. Qui,  l’oro emerge come vibrazione luminosa e intrinseca alla materia che può emanare secondo Burri da ogni entità cromatica in sé, bianca o nera, chiara o scura che sia, immersa o sprovvista di luce propria.






Opere Grafiche

Nell’ultima parte della mostra appare una selezione di opere grafiche dove si intrecciano rigore estremo della forma e purezza espressiva nella cromia, opere che hanno valso a Burri il premio nazionale dei Lincei nel 1973. Nella serie degli “Otto cretti”, si ritorna al tema del grande “Gretto di Gibellina” con le sue fenditure e superfici in rilievo qui non incise sul territorio ma sui fogli di carta bianca utilizzando il retro della tecnica tradizionale dell’ acquaforte per creare il rilievo. Ancora nella serie serigrafica la rugosità, la screpolatura e l’infrazione della superficie piana rinviano alla crepa, cioè al cretto del grande sisma nell’opera ambientale di Burri. E’ il trarre il bianco dal nero, il nero dal bianco da un quadro all’altro della serie in una metamorfosi tonale dove gli opposti si ritrovano: dai  varchi sulla pietra ai  rilievi sul piano nel contrasto estremo dei monocromi.

 

 Serigrafia : trittico (1994)



La carta sottile accoglie al meglio l’alternarsi del nero, dell’oro e del bianco stampati mentre le foglie d’oro sono applicate finemente a mano sulla superficie piana in nette figure geometrizzanti che la luce delimita nei contorni. Siamo di fronte alla trasmutazione, alla metamorfosi: dal nero all’oro, dall’oro al nero, dal nero al bianco. Gradi di vibrazioni luminose si alternano scaturite da colori che per loro natura portano in sé la luce o la sua totale assenza. Le forme derivano da quella vibrazione  che definisce gli spazi, simile all’aurea spirituale che avvolge i mosaici nelle basiliche bizantine cui Burri rende omaggio tacitamente, sancendo come nella mostra, una sincronicità implicita tra la città e l’artista.

 

venerdì 6 ottobre 2023

Andreas Gursky: visual spaces of today ( al Mast di Bologna)






Per la prima volta in Italia Andreas Gursky, l’artista tedesco che ha cambiato il volto della fotografia creando icone contemporanee del nuovo capitalismo globale espone in questi giorni al Mast di Bologna  con immagini che spaziano dai primi lavori alle creazioni più recenti. Di vere e proprie composizioni visive, infatti, si tratta per opere di grande formato elaborate in post-produzione dove Gursky unisce alla visione prospettica ad ampio raggio la messa a fuoco precisa e dettagliata su ogni singolo soggetto  facendo della fotografia un’esperienza da vivere, insieme fisica, mentale ed emotiva sul mondo di cui siamo parte.

La selezione fotografica spazia dalle prime opere come Salerno (1990), alle ultime come Salinas (2021)  facendosi interprete, attraverso le sue più iconiche rappresentazioni dell’era globale dell’ascesi della new economy fino alle sue implicite  derive e contraddizioni. Le immagini abbracciano, tuttavia, in tale ottica, non solo i processi di produzione e consumo attuali  ma anche singolari scorci su paesaggi naturali di origine millenaria. Particolare interesse ricopre nel lavoro di  Gursky l’idea di collettività, il modo in cui i soggetti funzionano come moltitudine nella società, come le strutture sociali e collettive influenzano i nostri comportamenti e dunque la nostra produzione o fruizione di immagini. Spesso si tratta di visioni immense che prendono corpo sulle pareti della galleria con un uso del colore denso, pieno, quasi saturante, dove la prospettiva pur nella distanza permane nitida per effetto del montaggio di diverse immagini. Moltitudini si impongono circuendo il caos entro un universo ordinato dove ogni soggetto sussiste e si definisce nel proprio esserci ma, anche e soprattutto nella pluralità del quadro d’insieme a distanza. L’immagine in Gursky, sempre emerge e parla in sé, esiste in questa suo potere di ordinare il caos del mondo e allo stesso tempo di farci riflettere sul medesimo. Ci mostra realtà multiple e complesse senza prendere posizione aperta di giudizio o critica ideologizzante sulla stessa. Il fotografo decide di far parlare le immagini nella loro valenza estetica e insieme forza visiva rendendosi testimone silenzioso di un tacito punto di vista sulla realtà che lo circonda per lasciare a noi spettatori la capacità di giudicare o trarre conclusioni. Come se così facendo permettesse a noi di vedere meglio per indurci a pensare o  aprire una riflessione critica sul mondo contemporaneo.



“Salerno” (1990) vs “Salinas”, (2021) due visioni a confronto

Le cose, gli oggetti del mondo contemporaneo, nello specifico della città vista dall’alto con il suo porto, approdo di navi e imbarcazioni, container e dock colorati, divengono piccoli tasselli di un grafico perfetto e materico basato sulla simmetria degli oggetti- perlopiù delle auto parcheggiate- simile a un meccanismo a ripetizione in una realtà che diviene oggetto di astrazione logico-matematica. Tutto è calcolato, tutto “si tiene”, corrisponde, ritorna nel gioco perfetto delle parti mentre la sincronia dei moduli colorati e delle forme prende il sopravvento mostrando una visione della città astratta, tecnologica e insieme vivida nelle tonalità del bianco e del rosso.

Le saline di Ibiza, al contrario, si stagliano nel loro volto immoto e millenario  come paesaggio immenso riflesso nell’acqua in una percezione prospettica risolutamente nitida anche nella distanza per una alterazione voluta dell’immagine. I colori del paesaggio acquatico al tramonto appaiono permeati di bianco e di arancio come riflessi luminosi e brillanti quando il sole è ormai scomparso ma permangono i suoi bagliori, una luce diffusa, limpida e espansa al crepuscolo, immensa nel contatto pervasivo con l’acqua intorno. Fenicotteri nella salina e presenze umane appena percepibili come segni lontano all’orizzonte. La natura silenziosa e stupefacente si mostra nella sua limpida bellezza come espansione di luce, effluvio d’arancio diluito in puro riflesso vivido al tramonto. 

Nha Trang, (Vietnam, 2004)



Lavorano in una serie di passaggi meccanici e a catena su uno sfondo colorato di paglia e ammassi di vimini per costruire panieri in produzione industriale. Una miriade di uomini e donne appaiono in una serie di fotogrammi montati uno di seguito all’altro in sequenza filmica, parte di un meccanismo più grande di loro che sembrano non poter controllare né arrestare. Come un immenso quadro che si estende fino al limite del visibile, come non ci fosse altra prospettiva, altra via d’uscita oltre quel ripetersi monotono ed entropico del lavoro a catena, identico a sé stesso all’infinito ogni giorno.  Tuttavia l’immagine non è oscura nè un’aperta critica alienante del processo produttivo quanto  punteggiata di aranci come le magliette di questi uomini e donne visti semplicemente al lavoro in una grande macchina di produzione più grande di loro e al di fuori del loro controllo, uno tra i tanti esiti estremi del capitalismo globale.

La composizione è immensa e prospettica allo stesso tempo, dando la visione d’insieme e ogni singolo dettaglio chiarificato attraverso la il montaggio di immagini in post-produzione. Ci immerge letteralmente, in quanto testimoni in atto,  in tale processo di produzione a catena de-localizzato nelle regioni più indigenti del  sud-est asiatico. Gursky amplifica il quadro senza un’aperta critica sociale dando, invece consapevolezza e potere all’immagine, lasciandola parlare nella sua implicita dimensione estetica e simbolica , lasciando infine a noi spettatori la facoltà di  trarre le nostre conclusioni.


Les Mées (Francia, 2016)











La distesa enorme di pannelli fotovoltaici sulla  verde collina del sud della Francia si perde a vista d’occhio, ancora una volta in un’immagine dove realtà e manipolazione della medesima si fondono in Gursky. Ci parla di utopia di sostenibilità energetica, visione green e ottimista per un futuro dominato da energie pulite prodotte utilizzando la sola potenza della natura. Il fotografo visualizza  sentieri lastricati di pannelli solari, distese che seguono i morbidi pendii delle coline e si perdono a vista d’occhio oltre il presente del nostro sguardo. Come fosse una grande strada disegnata dai riquadri bianchi e neri di silicio conducendo a un futuro auspicato, qui in maniera utopica verso un altro mondo possibile nella svolta energetica necessaria al presente.

 

Amazon (2016)


Migliaia di pacchi e plichi di diverso colore e formato stanziano su scaffali ricolmi pronti per essere spediti in tutto il mondo. Palesemente comuni nell’immaginario collettivo, colmano lo spazio fino a saturazione in questo deposito immenso di Amazon  fotografato da Gursky come accumulo di merci tanto da non lasciare margine o altro spazio vuoto nell’immagine. I pacchi, catalogati sulla base di algoritmi di vendita per risparmiare tempo e incrementare l’efficienza della distribuzione, restituiscono in maniera quasi soffocante, un senso di pienezza, di eccesso, l’accumulo di merci spinto al proprio limite saturante e distruttivo quasi in un soffocamento di presenza. Il mondo è preda di un algoritmo di vendita e profitto, de-materializzato, fluido sulla rete come Amazon quanto visibile attraverso l’accumulo di merci e pacchi qui depositati; il  tutto è raccontato attraverso un grande affresco collettivo: la magnificenza casuale di un archivio  composto da una serie illimitata di plichi colorati.

V&R II ( 2022)


La  sfilata di moda, volutamente senza pubblico, vede al centro un defilé illuminato nel netto contrasto chiaroscurale del nero fondo come fosse pendente nel vuoto in questo dittico moderno di immagini in montaggio fotografico. Paesaggio umano di corpi femminili svuotati e colori atoni, spenti mentre i volti sfilano come icone plastiche di fronte agli occhi per questa visione di figure femminili totalmente de-umanizzate. I corpi nella manipolazione fotografica in atto appaiono quasi astratti, portati fuori dalla loro dimensione umana e oggetto di sdoppiamento o ripetizione l’uno nell’altro. Allo spettatore senza altro commento è lasciata la facoltà di  percepire, pensare, reagire in senso critico partendo da tale simulazione fittizia ma veritiera, possibilmente realista, di una proiezione femminile riconoscibile a molti.


La ricerca estetica di Gursky: Bangkok (2011)


L’irradiazione di acqua e di luce sul fondale oscuro di un fiume riempie completamente lo spazio dell’immagine fotografica estesa in grande formato sulla parete della galleria. Permane in tutte le immagini di Gursky la volontà di un’innegabile ricerca estetica, in questo caso un’estetica della fluidità attraverso il movimento, l’acqua e la luce: una luce che dissolve e dissimula la realtà e le sue forme conducendole a un puro gioco d’ombre. Qui, è il fluire e lo scorrere, il divenire e il muovere dell’acqua mentre la luce si insinua in essa; poi, su più larga scala è il movimento del pensiero, dell’esistenza e della vita tutta. Ricami di forme sull’acqua attraverso la luce affiorano, si disegnano e poi ancora una volta ritornano nell’oscurità divorante del nero fondo. 





 

sabato 2 settembre 2023

Yvonne Rainer: words, dances, films ( al Mambo di Bologna)

 







Parole, immagini e danza, tale il connubio tra la produzione coreografica, quella filmica e di scrittura teorica presentato per la prima volta in Italia al Mambo di Bologna dedicata alla coreografa e registra Yvonne Rainer da cui emerge una figura sfaccettata, complessa e poliedrica per la danzatrice della post-modern dance americana. Uno spazio particolare occupa nella mostra la sperimentazione filmica della Rainer che si staglia dai video sperimentali degli anni settanta, spesso oggetti di scena nelle performance, ai lungometraggi diretti dal 1974 al 1996 che come narrazioni autobiografiche intrecciano la storia personale al tema sociale e politico dando voce per la prima volta a una soggettività  femminile; infine compare il video singolare  Lives of Performers, serie di quadri viventi che precorrono in qualche modo un’idea di danza-teatro sullo sfondo di un triangolo amoroso soggiacente.

 

Il nome della Rainer resta legato al collettivo della Jadson Dance Theater di cui fu una delle principali fondatrici agli inizi degli anni ’70 dove emerge come una delle più prolifere danzatrici della post-modern dance della quale è divenuta emblema per la portata innovativa delle sue coreografie nella nuova estetica post-moderna  nonché per la stesura di un vero e proprio manifesto sulla nuova danza presentato ironicamente come il No Manifesto nel 1965. All’ingresso della mostra è ad accoglierci il video Trio A (1978) basato su una coreografia del 1966 che la rese nota a livello internazionale per la scelta di uno stile minimalista volutamente oppositivo alla danza moderna. Manifesto di un nuovo concetto di danza il corpo della Rainer esplora movimenti semplici presi dalla vita quotidiana nella totale assenza di dramma o di virtuosismi tecnici legati al balletto moderno. L’azione o il gesto nascono da un semplice compito di realtà (“task-like”) come camminare, correre, alzare un braccio o inclinare la testa ma il corpo mantiene una postura sprovvista di ogni intento scenico. Lo sguardo non si rivolge mai al pubblico e ciò che emerge, al contrario, è la dimensione del togliere l’eccesso, del liberare dalla teatralità del gesto per focalizzarsi sul flusso dell’energia e del movimento in una dimensione spazio-temporale propria. Tale il presupposto della nuova danza minimalista, impersonale e astratta creata da questa generazione di giovani danzatori e performer della Judson Church.  

 

Video sperimentali  (1966-69)

 

Attraversando la Galleria laterale della Sala delle Ciminiere ci si imbatte in una serie di video sperimentali realizzati dalla Rainer tra il 1966 e il 1969 che divennero parte integrante in dialogo con i danzatori  in scena, definiti dalla coreografa stessa come “appunti visivi”, sperimentazioni in atto della sua riflessione sul corpo visto qui come strumento performativo e neutrale portatore di un’intelligenza propria, intrinseca al movimento nella svolta della nuova danza. In Volleyball (1967) vediamo nella ripresa a camera fissa due gambe di bambina che calciano lentamente un pallone, poi la traiettoria del pallone rotolando da un angolo all’altro della stanza, infine scarpe da tennis al centro dell’inquadratura in primo piano.  Hand Movie segue in dettaglio i movimenti lenti e significanti di una mano come fossero ombre cinesi: una mano che danza attraverso gesti semplici ed essenziali quasi volesse astrarre in quel fare la quinta essenza della coreografia. Infine in Trio film (1968) assistiamo al dialogo muto tra due corpi nudi che si passano una palla tra un divano bianco e due sedie. I performer interagiscono in maniera minimalista utilizzando gli oggetti della stanza come fosse una scena mentre il fulcro dell’azione appare chiaramente essere non tanto nel fare quanto nel togliere, eliminare  il superfluo per lasciare spazio all’architettura  essenziale dei corpi visti in un contesto neutrale. L’improvvisazione qui crea azioni performative nella semplicità di gesti comuni come sedere, alzarsi, prendere qualcosa, passarlo all’altro ecc esplorando nel suo fare per la prima volta i principi fondanti della “instant composition”.  


 












Lives of performers”( 1972) visionabile al centro dell’esposizione resta il primo film in cui la danza-teatro fa da sfondo a una sorta di “melodramma” amoroso evocato dalle voci fuori campo attraverso i dialogo o i monologhi introspettivi dei tre personaggi. Volutamente appare il contrasto tra l’ambiente spoglio, l’apparente monotonia del parlato o di una scena riempita con elementi semplici del quotidiano_ una sedia, un letto, una valigia_ e invece la carica emozionale delle voci fuori campo dando corpo e densità al non-detto soggiacente. Su una scena vuota riempita di gesti semplici, pause, silenzi con una camera spesso frontale ai volti, i personaggi sono visti in una serie di still life, di pose immobili come abbracciarsi, sedere su una sedia, cadere a terra, restare uno sulle ginocchia dell’altro, distendersi su un letto ecc.  Le voci staccate dai corpi raccontano frammenti di una storia sospesa, interrotta, incomprensibile se non per schegge impazzite mentre il monologo incarna le tensioni e i dilemmi della relazione a due  nonché l’emergere di una nuova soggettività femminile liberata o in rivolta contro gli schemi patriarcali e repressivi del passato.

Nella produzione filmica della Rainer, infatti, l’ impronta socio-politica come l’opposizione all’establishment americano dell’epoca o ancora l’assunzione di un punto di vista prettamente femminista si associa alla ricerca formale della danza, divenendo uno dei caratteri distintiva della sua composizione coreografica.



 


Il “No Manifesto” oggi

 “La nostra ultima e più forte arma sono i corpi, un’arma che abbiamo usato collettivamente”. In definitiva nelle performance della Rainer il corpo assume un inderogabile ruolo politico_ primo lascito della post-modern dance_ in quanto appare nella sua nuda verità, nella sua semplice ed essenziale densità di materia-pensiero per un sentire che è riportato dentro la pelle, i muscoli, la sua sostanza sensibile al di là di ogni finzione scenica o virtuosismo, ciò che era divenuta nelle sue estreme derive la danza moderna. Tale forse il lascito di questa generazione: da un lato sgombrare il campo dagli eccessi di forma o di teatralità impliciti nella codificazione del balletto moderno ricercando attraverso l’improvvisazione o la composizione istantanea quel “Momentum” di verità che è l’apparire stesso del grido del corpo come ciò che accade, che si rivela malgrado la volontà o l’intenzionalità dell’io. Di qui il gesto quotidiano, il movimento ordinario portato fuori dal suo contesto usuale nel momento o gesto performativo dell’improvvisazione. D’altro lato, la Rainer come tale nuova generazione di performer sceglie di partire dal linguaggio del corpo   per portare in scena conflitti sociali, discriminazioni di genere e soprattutto la repressione del soggetto femminile in una società ancora dominata da rigide strutture patriarcali o sessiste alla fine degli anni sessanta. Il suo No Manifesto riportato quasi integralmente in un pannello della mostra appare, per noi ancora oggi, come un’asserzione libertaria del corpo, un lascito di rivolta contro le precedenti strutture gerarchiche e repressive dell’io femminile in quella società, e ancora un ritorno alla dimensione umana, non eroica né spettacolare del movimento. Il “peso del corpo” porta già in sé, nella sua fisicità, nella sua traccia di energia e presenza sulla scena una propria veridicità, una propria intrinseca emozione. Tale la rivoluzione della danza post-moderna approdata fino agli esiti del contemporaneo di cui la Rainer appare ancora oggi come una delle figure più significative e innovanti.