mercoledì 22 novembre 2017

…Writing-Surrealism ( suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900", Palazzo Albergati, Bologna)








Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del '900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella creazione, la “scrittura automatica” per esempio modalità che libera l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia di pensiero positivista, di moralismo borghese o del retaggio asfittico di una certa  tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo permettendo di eludere il controllo  della coscienza, costituiva una via privilegiata per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia, riconnettersi a quella e liberare in questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana.  L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson, nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo, liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco d’infanzia.
Nella scrittura automatica, secondo Breton,  l’intento surrealista del poeta è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”. Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere viste  in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con una simile libertà espressiva  scaturita dall' incontro fortuito tra la scrittura e le linee, le forme o i colori.













Joan Mirò, “Women and birds”

 “Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”














“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarli. Si viaggia attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e essenziale.



Joan Mirò: "Ballerina spagnola", 1927

Una nuvola bianca svapora  in una gonna a balze di flamenco, un paio scarpe a punta brillano nere e scintillanti richiamando alla memoria i piedi della ballerina, una testa di pesce giallo boccheggia a lato mentre un  verde intenso risuona dall’incavo di un corno. Sullo sfondo il fondale uniforme e ocra dell’arenaria. Poi il filo di un palloncino sale verso una sfera nera fluttuante, sospesa sopra la sua testa simile a un cappello da circo lanciato in aria. Il corpo della ballerina di flamenco appare in pochi tratti e macchie di colore, soave nella nuvola-gonna vaporosa, fiero nello stendardo posto sopra la sua testa, ineluttabile nella ritmica assoluta dettata dal battito dei piedi attraverso le scarpe evocati. La linea appena accennata è già trasfigurata, appena allusa e già  dissimulata mentre l’acquarello disegna lo spazio con la forza innata di un movimento, la danza re-inventata attraverso la pittura surrealista. Così, la tela libera l’immaginario dal puro figurale affondando in un segno istintivo nato dall’automatismo di un gesto semi-cosciente.

La danza è una nuvola appesa e fluttuante, bianca e svaporata, è un impulso, un innato movente che non trova appiglio al suolo tuttavia,  ma leggera, aerea come  la forma accennata di un corpo vaga distante, legata alla terra da un solo filo: sottile, esile cordone ombelicale che ancora la tiene ancorata per non voler volare via altrove. E’ ancora un paio di scarpe nere, lucide e a punta, che sole danno il tempo ineluttabile, le pause e la scansione ritmica dell’attesa. E’ una testa di pesce giallo-ocra boccheggiante sulla sabbia, la nota sconosciuta di un corno verde brillante che risuona o risponde a un richiamo; è un cappello da circo, un gioco gioioso, un lancio di dadi nello svaporato etere dell’universo . E’ di quel sogno proiettato, forse, solo lo schermo della pittura. 

Breton: “La finestra scavata nella carne si apre sul nostro cuore, vi si vede un immenso lago dove a mezzogiorno vengono a posarsi libellule dai riflessi dorati e dal profumo di peonia. Che grande albero è questo dove gli animali vengono a specchiarsi…Tutto quello che dobbiamo fare è aprire le nostre mani e il nostro cuore e saremo nudi come in un giorno di sole”

Brassai, "Graffiti parisiens"




Un cerchio, una croce e una testa incisa sul muro in pochi tratti primitivi. Sulla parete nuda e grezza di cemento il segno richiama un alfabeto di geroglifici a noi sconosciuti: incisioni sulla roccia d’epoca preistorica, impronte di volti oppure un disegno infantile apparso per gioco su un muro.
E’ un uomo che lascia la sua traccia sulla durezza della pietra, oppure un ritratto del medesimo visto dalla mente fantasiosa di un bambino. E’ una firma, un’impronta, la propria unica e singolare sul mondo impressa in segni di grafite sul muro. Sulla maschera primitiva il sigaro lascia scorgere linee di fumo mentre lentamente si consuma in cenere sulla superficie della roccia. Lo sguardo è affisso simile a un manifesto su una parete; un piano inciso in solchi di vuoto.
Dopo uno scroscio di pioggia, il volto è scorto in un improvviso bagliore nel contro-luce delle ultime gocce.


“Portrait of Marchesa Casati”, Man Ray



Degli occhi che vedono in tre dimensioni attraverso la pelle, l’apparire del viso è etereo, quasi avesse attraversato una soglia di realtà per raggiungere una sfera sovra-sensibile, ultra-umana mentre l’immagine fotografica appare qui solarizzata. Lei, dalla maschera di cera, dal volto d’acqua, dallo sguardo fissato lontano, dagli occhi che trafiggono, attraverso la materia verso una sovra-realtà.
 Radiografia: la luce trafigge la durezza pietra, allo stesso modo l’energia irradia attraverso la pelle, vibra dentro la materia e mostra l’aurea degli oggetti  nelle loro vere essenze messe a nudo.
In “Centauto nella foresta” di Hans Arp   e “disegno automatico” di Masson la china affiora sul foglio portata da segni che appaiono accidentali e sul cammino si investono di un senso, di una storia.


Man Ray, “Noire et Blanc”

Il primo piano è sul volto levigato, candido e madreperlaceo, di un’idealità e una bellezza assoluta solarizzato nell’effetto fotografico contro il nero d’avorio della maschera africana. L’accostamento tra i due volti suggerisce il candore e insieme la lucentezza ,  l’aspetto levigato della pelle e dell’ebano, infine il bianco e il nero come la visione degli opposti che si incontrano e si completano. Lo sguardo del fotografo portato su quel volto è colmo di sensualità e desiderio ma  il ritratto resta epurato, tuttavia, d’ogni forma di reale carnalità quasi fosse ricondotto a un archetipo universale del femminile .


Pablo Picasso, “Donna d’avanti al mare”


Dalla citazione di Breton in commento alla tela leggiamo:  “la mia donna dal sesso di specchio, dagli occhi pieni di lacrime, dagli occhi di savana".
“Sempre sotto l’ascia”, affermano questi versi , vale a dire frantumata nella figura secondo l’ottica di scomposizione cubista eppure  “dagli occhi d’acqua da bere” in un’ulteriore versione della “donna che piange” picassiana. Con il viso tra la linea del mare e dell’aria, e il corpo scomposto nella pienezza delle masse, sintetica procede per blocchi  essenziali, trascendente nello sguardo gettato sull’orizzonte azzurro-marino. E’ la donna picassiana inesorabilmente affranta nel volto ma dalla plasticità multipla e scomposta della figura vista da un punto di vista frontale e insieme obliquo sulla stessa tela. Infine appare immersa fino alla vita dentro il livello dell’acqua poi in continuità con quello dell’aria, in ricongiungimento al piano cosmico universale.


Biomorfismo

Jean Arp: "Torso e covone di fieno"






Questa forma liquida, sinuosa, modellata e malleabile come fosse d’acqua o d’argilla appena lavorata, impastata e resa fluida  al tatto appare estratta in potenza dalla materia. L’essenza organica della figura resta impressa nella durezza ineluttabile e brillante del bronzo dorato come una presenza, un’energia vitale, una forma erotica d’una sorprendente plasticità qui impressa nella definitiva linea scultorea. Il corpo femminile appare in quest’ottica surrealista messo a nudo da uno sguardo maschile intrusivo e desiderante verso un oggetto ambiguo investito di molteplici forze attrattive e repulsive: idealizzato, inseguito, distrutto e ricomposto, frammentato e  manipolato come un puro oggetto del desiderio su cui si proiettano paure, fantasie, angosce e pulsioni inconsce del soggetto .
 Tale sguardo erotico si esprime al massimo grado nel bronzo traslucido della scultura di Arp, mentre egli plasma la carne in forme affusolate e femminili dentro rotondità di natiche e seni, nella continuità di un movimento organico, innato al corpo che lo fa apparire come puro involucro dorato.



Tanguy “Composizione”, (1927)




Forme galleggiano in queste profondità marine e desertiche: creature fossilizzate in un fondo petroso di desolazione e solitudine  dove l’universo acquatico appare prosciugato o evocato solo come un lontano miraggio della memoria per lasciare posto, unicamente, a queste dissolvenze organiche sulla pietra . Nella prima versione, le forme ancora acquatiche appaiono sul fondale blu-grigio mercurio della marina, nella seconda, esse dissolte o dissipate atterrano sulla griglia desertica di un oceano prosciugato. Un solo bagliore di luce pallida permane evanescente e riflessa in lontananza.
Le vedute desertiche e sofferenti di Tanguy riflettono da un lato la contingenza storica del secondo conflitto mondiale in Europa e il pessimismo cosmico degli anni post-olocausto; dall’altro, incarnano l'ibridazione surrealista tra forme minerali, vegetali e umane, organiche e formazioni rocciose, in una forza di vita convocata.



Masson, “Goethe e la metamorfosi delle piante”

Il disegno automatico lascia affiorare linee su un foglio, per scoprire in esse il senso,  il disegno come prendesse forma da un casuale tracciato di linee e di punti, come esistesse già là precedentemente e fosse semplicemente riportato in luce, restituito da una primaria nebulosa di tratti e punti. 
Sempre nel surrealismo si tratta del tentativo di espandere i limiti della mente razionale e cosciente, e liberare la forza creativa dell’inconscio attraverso l'arte  . 
Sono simili a raggi ultravioletti, la metamorfosi prodotta dall’occhio, nel quadro di Masson. Goethe scruta attraverso il suo sguardo percuotente, in scansione ultrasensibile sulla realtà e penetra  attraverso quello, scompone, analizza e entra in vibrazione con la vita essenziale delle piante. Secondo la teoria sulla “Metamorfosi delle piante” di Goethe cui si ispira il quadro, l’essenza della forma, quel quid immutabile sul piano ideale si materializza negli oggetti in una modalità fluida sul piano fisico di multiple grandezze e colori. L’uomo, allo stesso modo, vive in questa continuità e non-separatezza al mondo, dentro uno stesso divenire cosmico. Il poeta, dunque, è per essenza "veggente e filosofovisto nell’atto di guardare attraverso le cose e raggiungere la vera realtà, la surrealtà dell’oggetto passando per la mediazione di uno sguardo: forse di una “seconda vista”. La sua esperienza sensibile risponde a quella della vita della natura come fosse in una continuità , in una compenetrazione o quasi foto-sintesi tra la luce solare, il tessuto vegetale della pianta e la linea di luce proveniente dai suoi occhi. Per Masson come per Goethe lo sguardo e l’intuizione poetica passano attraverso il colore e la materia per giungere all’appercezione dell’essere.




Accostamenti sorprendenti dalle arti visive alla parola

La sezione raccoglie opere storiche dadaiste come l’appropriazione ironica della Gioconda da parte di Duchamps,   “oggetti trovati” come la celeberrima “Ruota di bicibletta”, poi ready-made e collage, montaggi di diversi materiali su singole tele. Le opere dadaiste mettono in discussione attraverso l’accostamento sorprendente di oggetti,  il fotomontaggio o la trasposizione dal piano quotidiano all’onirico la morale borghese e l’estetica realista aprendo la strada alle successive sperimentazioni surrealiste. 


Joseph Cornell, “The sixth dawn”, l’alba di un cerchio d’oro e d’angeli a forma di uccelli alati.

La mia mente, i miei anni, lo specchio del mio volto in un cerchio di fuoco e di luce. L’alba luminosa di un orizzonte che vedo troppo a distanza, aperto dentro una parentesi di infinito sulla sordità del reale circostante.
La mia mente, i miei anni, a occhi aperti visualizzati da una sfera di fuoco rischiarata dalla luce dell’alba. Una chiarezza laggiù, in quell’orizzonte lontano. Il mio sogno di infinito riflesso in quel cerchio di luce a distanza.


Tra gli oggetti surrealisti: la pianta tridimensionale di una casa aperta e riportata su un foglio, finestre e porte che danno su antri del sogno, cerchi concentrici (dell’immaginazione) tenuti stretti da una molla, un gioco di dadi. 
“Il sogno di una chiave di notte” smarrita perché qualcuno la ritrovi, missive segrete, una raccolta di lettere-allerte”, un “castello dalle mille scosse” sull’etichetta d’una bottiglia di vino svuotata. Ancora appare una  scatola di legno dai tanti comparti aperta su tre dimensioni e poi richiusa dentro il vano di un muro: la mia piccola scatola dei sogni e dei ritagli, dei bijoux e degli oggetti sepolti del passato.



Infine, il " viso di di Mae West" di Salvaror Dalì diviene in un’installazione contemporanea di Oscar Tusquets Blanca una camera d’appartamento ricostruita all’interno del museo dove i grandi occhi appaiono come due immagini elettroniche scomposte in unità infinitesimali, fluttuanti e sfuocate. Sedendo sul divano a forma di labbra si riflette ambigua e scomposta  la nostra immagine di spettatori osservata sulla parete opposta dello specchio.
 Ancora due narici in plastica espanse divengono antri di camini rosso-carminio con fiamme artificiali brucianti al loro interno.
 Le luci sono basse e sfumate, la vibrazione del rosso fuoco dominante sulle pareti.
 La sensazione è quella di essere all’interno, nei recessi della stanza o di un corpo. Forse ancora, per l’artista, all’interno della psiche insinuandosi in un territorio abitato da pulsioni inconsce e desideranti.   










domenica 8 ottobre 2017

Immagini dalla Fondazione Fotografia di Modena (per Master of Photography 2017)









Tra i temi più interessanti proposti dalla Fondazione Fotografia di Modena per la selezione dei giovani artisti di Master Photography emergono il viaggio visto nei suoi limiti più remoti di un paesino dimenticato della Sicilia, di un villaggio del Medio-Oriente o nelle regioni impervie dell'Ucraina, poi in visioni assolutamente soggettive che sfiorano il sogno, il paradosso surrealista o l'irrealtà ricreate dall’immaginario dei singoli artisti. Segue il riflesso della società contemporanea attraverso la corsa caotica e disordinata della metropoli nell’ora di punta, infine la casa vista come luogo fisico dell’abitare e insieme nucleo primo di relazioni complesse, conflittuali, certamente mai neutrali che si riflette nel nodo problematico della società : cellula destrutturata e ricomposta nelle più svariate forme oggi. 



Nell’ uso incondizionato e pieno del colore questi giovani artisti proseguono sulla scia dei grandi nomi della fotografia contemporanea come Martin Parr o Steve McCurry qualche volta gettando uno sguardo ironico, critico, senza dubbio irriverente o umoristico e su alcuni aspetti della cultura pop, consumista o della realtà a loro contemporanea. Altrove creano visioni oniriche e mondi paralleli attraverso l’immagine, mitologie di luoghi originali o di popoli distanti nel tempo e nello spazio come  gli eschimesi della Lapponia o alcuni scorci dell’Ucraina. Sempre, in ogni caso, a prescindere dal soggetto e dallo  stile lo sguardo fotografico supera la soglia di riconoscibilità dove l’immagine scivola non-vista, fluida tra le pagine dei quotidiani per provocare,  al contrario un punto di intensità o di contrasto nella visione, per mettere in rilievo un paradosso di quella realtà.  


Il viaggio

Si viaggia ma si resta fermi, perduti nell’immobilità di un paesino del profondo sud Italia a Ragusa oppure dentro un dedalo labirinto di strade e palazzi dalle alte mura di cretese memoria dove gli individui restano intrappolati, reclusi o perduti entro stretti sentieri in pietra e cunicoli di percorsi che li riportano sui loro passi deviando costantemente dal tracciato senza trovare via d’uscita. Si viaggia con la mente e il cuore costruendo scenari del sogno, visioni di non-luoghi risuonanti di antica bellezza la cui essenza richiuderebbe in sé l’idea pura del viaggio ma si resta fermi, serrati entro i limiti insondabili di strade lastricate, e mura in pietra a vista di millenaria provenienza . Un uomo cammina volgendo a noi le spalle attraverso uno di quei sentieri sassosi mentre la cittadina dall’alto resta arroccata sulla pietra,  dormiente nella sua folgorante apparizione, scintillante di luci riflesse come tutte le città del sud. Una cattedrale chiusa da  una cancellata, un  vecchio seduto a un caffè, alle sue spalle una piazza. Barocca e austera la cattedrale si erge in una immensa solitudine come il vecchio aspettando la discesa della notte mentre scruta il paese svuotato, i gomiti appoggiati alla tela verde cerata.

Rush Hour, (città, metropoli e frenesia)

Sono in fila lungo il marciapiede aspettando una metropolitana.
Spazi vuoti o sovraffollati di metropoli moderne, spazi grigi di cemento o vetro riflesso, anonimi, senza volto nella massa disuguale e invisibile dei volti e presenze che affollano la striscia di cemento sottile in procinto dei binari. Figure o masse in movimento sono riprese dall’effetto sfuocato dell’obbiettivo, silhouette di uomini rapidamente attraversano la strada, biciclette in corsa sull’asfalto bagnato e luccicante sotto l’effetto delle luci riflesse, la città sullo sfondo, oppure una figura precipitandosi attraverso la scalinata di una metropolitana. Un abbraccio rapido nella notte contro i fari abbaglianti delle auto, altrove rincorrendo l’ora, gettando ansiosamente lo sguardo sull’orologio della stazione, pressando la folla, correndo attraverso scale mobili, saltando dentro le porte aperte d’una metropolitana.
La metropoli è linea grigia e metallizzata di una sopraelevata, astrazione artificiale di periferiche o strade ferrate viste dall’alto e  ricondotte a linee elettriche e vibranti nella notte oppure a tracciati luminosi e ellittici, in navigazione libera sullo skyline virtuale e informatizzato dello spazio urbano. Visioni notturne perturbanti si alternano a quelle puramente astratte d’una città  che diviene creatura della notte dai risvolti illeciti o rimossi nella piena coscienza borghese; d’indaco e idrogeno si riveste nel contrasto violento delle luci artificiali, aggredenti contro l’oscurità; nel calore freddo a neon l'insegna lampeggiante di in sex shop invitando a paradisi perduti. 


Home 





















La casa in questa serie è immagine di individualità e conflitto, opposizione di volti, non-comunicazione. Visivamente è la rottura dell’unità compositiva che riflette una cellula famigliare infinitamente spezzata e ricomposta, divisa e allargata in ogni caso composita, mai neutrale oggi.
 La casa è anche la solitudine dei volti, gli sguardi ipnotici di adolescenti fissati su uno schermo o i primi piani di occhi che vi guardano senza vedersi veramente nel rapporto tra genitori e figli. In un altro punto di vista l’idea di casa appare  attraverso gli alloggi precari degli immigranti  verso l’Europa: spazi provvisori o riadattati dei centri sociali per accoglierli, i luoghi occupati o abusivamente squattati dagli illegali.
Casa è una riunione di migrati in un appartamento clandestino di notte tra birra, alcool e fumo di sigarette alla musica intonata da una chitarra; casa è una cena solitaria su un tavolino di fiori finti, nel centrotavola plastificato di un tavolo rilucente e la stanchezza di occhi che si chiudono dentro una testa sovraccarica di pensieri. Casa è la cena di una coppia su un sofà di fronte a un mega schermo rilucente di televisore, è il riunirsi intorno al fuoco in una tenda eschimese in Lapponia.
E’ ancora lo sbattere la testa contro un vetro gocciolante di pioggia o vista dall’interno di un lavaggio industriale; è un abbraccio di corpi, una porta che si apre su una baita in montagna e tre bambini ridenti affacciandosi da quell’ antro del sogno. E’ una capriola su un sofà e un neonato a carponi; o ancora un bambino incuriosito che getta lo sguardo dentro una latta rilucente insieme a un vecchio in un garage polveroso dell’est Europa; là, in quello scantinato scintillante di pezzi d’acciaio e ferri vecchi ovunque intorno.


Nella sezione “popoli dal mondo”  è ancora una famiglia riunita di fronte alla soglia d’una casa medio-orientale, di cui sono visibili in primo piano solo la tenda che ne cela l’interno, il pezzo di muro sbiancato dal sole in esterno e il rosso carminio della terra che la re-incornicia; l’uomo è al centro, le donne dal capo coperto sollevano il loro sguardo all'obbiettivo in una sorta di quadro famigliare radicato nella tradizione islamica e nel modello patriarcale ma aperto verso l’avvenire come lo sguardo di questi bambini proiettato fuori, oltre l'orizzonte frontalmente a noi.


Alphabet
 


Osserva l’alfabeto, l’immensa immensa pagina di scrittura universale incisa sulle pareti del mondo, qui mentre compare su questo  muro esterno d’edificio in terra rossiccia e geroglifici arabi. Lei, bambina minuscola con lo zaino in spalle, in assenza di altri segni del reale s’arresta sul sentiero polveroso che la porta verso la scuola coranica; osserva l’immensità smisurata della parola, dettata o rivelata dai profeti nel libro sacro, ripetuta, imposta e salmodiata  dai versetti del Corano lì trascritti su quel muro del villaggio. Non banchi ne libri, nessuna lavagna per imparare a leggere e scrivere, comincia a decriptare l’alfabeto del mondo, il linguaggio universale e segreto delle cose; interroga semplicemente la simmetria precisa dei caratteri, la cornice a inchiostro che creano ripetendosi sull’ immenso foglio-muro della composizione-mondo.





Sugli Urali tra gli altopiani desolanti e brulli dell’Ucraina, una musica di tamburi  al tramonto. Un gruppo di musicisti eleva il proprio canto di bellezza e ispirazione al cielo sollevando gli strumenti e le braccia  verso l’alto contro la luce refrattaria e argentea della sera. Inviano questo canto all’infinito, a una presenza universale e divina sopra di loro mentre la luce declina sfuggente al tramonto e le distese brulle in pietra si snodano contro le asperità degli altopiani circostanti.  Ancora in Ucraina, una donna si affaccia, tondeggiante al centro della sua casa mentre in quiete cucina con le poche cose a disposizione sulla stufa a legna sorridente nel vetro di una finestra riflessa.



Fotografie per Master of Photography ( viste a Festival Filosofia 2017) di: Comewell Puplampu, Martina Biccheri, Max Brucker, Molly Keane, Niko Giovanni Coniglio, Olympe Tits, Sohail Karmani, Sonja Thoms, Souvid Datta, Viktoria Sorochinski, Wojciech Grzedzinski e la stessa Gillian Allard



sabato 26 agosto 2017

“Anime. Di luogo in Luogo” da Christian Boltanski ( al Mambo di Bologna)







E’ un percorso sensoriale, un’esperienza fisica che implica l’attraversamento, l’immersione del corpo percettivo e partecipe dello spettatore nello spazio di “Anime, di luogo in luogo ” per ricevere, o meglio sentire, essere parte dell'evento prima che comprenderlo o analizzarlo intellettualmente. una serie di installazioni  realizzate dall’artista francese Christian Boltanski  in occasione dell’omaggio resogli dalla città di Bologna  ripropongono le sue opere più significative e due inediti raccolti nella mostra antologica al Mambo, museo d'arte moderna. 

 
Entri nell’oscurità di specchi deformanti che rifrangono gli uni sugli altri dal fondo delle pareti nere di una stanza; in sottofondo un battito amplificato pulsa intermittenze ritmiche da una moltitudine di cuori archiviati e raccolti dai suoi precedenti lavori alla luce di una lampadina.
Entri dentro questa atmosfera rarefatta, velata e illusoria, lieve ed effimera ai sensi. Attraversi un portale come fosse una soglia del “tempo” che ti conduce fuori dall’esperienza della realtà all’altra parte dell’esistenza sensibile. Sul tessuto leggero e evanescente di una tenda vedi affiorare grandi occhi scuri, ritratti ricompongono e fanno scorrere da un fotogramma all’altro immagini in movimento di un volto, quello dell’artista dall’infanzia all’età adulta nelle sue molteplici, fluttuanti sfaccettature. Entri e continui ad attraversare pareti di seta che si susseguono ad altre trasparenti e velate; ricompongono sguardi, occhi di volti persi nell’oscurità proveniente da vite precedenti, anime che si affacciano e ci guardano dialogando attraverso le tende. Compaiono, si illuminano per un istante, troppo breve, poi ripiombano nell’oscurità. Sono salvate come anime, riportate per un attimo all’esistenza sensibile, non a quella terrena dei corpi ma, incorporee, in questi tessuti materializzano come immagini fotografiche di volti solo a metà focalizzati.  Luce e oscurità: è così che i volti si rivelano nelle tenebre attraverso occhi grandi aperti, magnificenti e resi visibili sui tessuti. Traspaiono là per un attimo sulle tende, gli occhi primo specchio dell’anima, per questo tanti gli specchi convocati all’inizio del percorso. Battiti cardiaci, regolari e ad intermittenza sul sottofondo.  Attraversi sensorialmente, di luogo in luogo le varie isole o punti di sospensione di un percorso libero, vago quanto sotteso a due indicazioni essenziali; “Départ” e “Arrivée”.

La Luce o la sua assenza, le intermittenze sonore, le apparizioni di immagini e l’altrettanto rapido ritorno alla semi-oscurità sono parte integrante della mostra insieme ai temi ricorrenti, alle eterne questioni o ossessioni che da sempre accompagnano Boltanski: la coesistenza di vita e morte nell’esistenza sensibile come nell’esperienza percettiva che egli mette in scena; la necessità della memoria contro la corsa ineluttabile del tempo e la distruzione del medesimo, infine il bisogno di testimonianza ricreando tracce, reali e fittizie per raccontare, restituire una versione possibile della storia, infine rielaborare una memoria intima e collettiva in parte rimossa .  

“Ombre” nella prima stazione sono quelle oscure che si affacciano dal sotto-mondo, piccole e basse frequenze materializzano in scheletrini appesi alla figura evocata nella proiezione in nero espansa sulla parete. Una maschera digrignante e  fantasmi appaiono sospesi da fili al profilo delineato al centro come piccole marionette dal regno delle ombre. Attraversi le tende, incroci le auree evanescenti dei ritratti che ricompaiono vagando di luogo in luogo tra le installazioni retrospettive di Boltanski fino al centro della galleria dove ti imbatti in una sorta di montagna incantata; una struttura piramidale si eleva verso l’alto ricoperta e metallizzata in oro attraverso quelle coperte isotermiche utilizzate oggi per prestare un primo soccorso ai profughi migranti in Europa. Delle tante morti anonime in mare tra i molti dispersi in tragiche condizioni sono i fantasmi senza nome, le prime anime alla deriva volutamente evocate da Boltanski qui per rendere loro un ultimo omaggio. Un’aspirazione all’assoluto sembra imporsi con la luce dell’oro nell’eterno ritorno dell’anima alla divina perfezione senza dubbio nella sua proiezione luminosa, espansa ed elevata verso l’alto in ascesi come questa montagna incanta. Al centro della galleria essa sola è illuminata dal raggio chiarificatore di una grande lampada accesa.

 

“Autel Detective” “primo altare” di fotografie e memoria assembla immagini in bianco e nero su un fondale oscuro e lampadine blu alogene a illuminarle in primissimo piano . Un’isola del passato riaffiora in un approdo istantaneo della memoria, in un salvataggio “in extremis” attraverso i volti ridenti di giovani da un tempo prima del conflitto mondiale. “Autel du Lycé Chases”, allo stesso modo è un arcipelago di volti adolescenti di giovani ebrei a Vienna prima dell’avvento del nazismo. Sorridenti in primissimo piano, in bianco e nero sfuocato,  i grandi ritratti si rivelano attraverso i loro tratti espansi e fluidi alla sola luce di lampadine puntate contro nell’oscurità circostante. Tale, un modo per dare dignità, mettere in luce e in rilievo quella verità unica e inconfutabile iscritta, incisa in ogni vita come singola traccia, lascito di una storia individuale e insieme riscatto di una memoria storica e collettiva ancora in parte da rielaborare. In “Monuments” i volti sono sempre più grandi in bianco e nero fluido ora totalmente presenti come auree di corpi svaporati, aloni luminosi e vaghi, involucri spirituali di anime rivelate in traccia fotografica nel profondo chiaro-scuro dalle lampadine, unica fonte di luce circostante.

 
Scatole di latta  simili a cassetti per la classificazione di dati sono impilati ad archivi ai piedi delle fotografie come altrove erano i ritratti svuotati delle figure, in primo piano sui sostegni commemorativi in ferro.  Questi cassetti, oggetti fittizi investiti di un forte potere evocativo  sembrano stranamente provenire dalle classificazioni illimitate di documenti celati nei passati regimi nazional-socialisti sovietici dove tutto era registrato, catalogato, archiviato, passato al setaccio e in gran parte censurato dal grande occhio di uno stato totalitario, da un partito unico centralizzato nei suoi massimi funzionari. In Boltanski tali oggetti simbolici, segni tangibili di una memoria traumatica filtrata dalla generazione post-olocausto appaiono riportati in vita ma traslati rispetto al loro uso originario divenendo archivi ricreati della memoria. Riesumati anche se vuoti come contenenti-contenitori fittizi, appaiono come “monuments” essi stessi di  un apparente bisogno di restituire o riscattare un passato anche attraverso la sua finzione per sfuggire all’inevitabile oblio insito nella cancellazione del tempo; verità universale e insieme messa in scena palese alla quale lo spettatore potrà aggiungere una propria percezione dell’avvenimento. Appaiono qui come mattoncini di latta, cassetti estratti da vecchie scaffalature arrugginite, urne cinerarie, infine i supporti per la fotografie. In fondo al percorso illuminati da una luce blu elettrica a neon, impersonale gettandosi  in linee taglienti sugli spigoli appuntiti si ergono a “muraglia cinese” fatta di scatole di latta dalle sfumature in ferro e ruggine con piccole foto di identità incollate sopra e lampadine puntate contro a rendere loro giustizia.  


Animitas”, (“Blanc”, video)
Epilogo in uno stato di inusuale e apparente quiete



 




Primavera sulla terra, il suolo vivente, l’humus, l’erba piantata a vivo sul lastricato della galleria. Il fieno tra i fili d’erba, l’odore della terra presente nello spazio, piccole zolle, foglie e fiori come di un campo verde in parte germogliato, in parte lasciato essiccare al sole, simile a fieno.
Sullo schermo, l’immagine in immobile movimento, bianco come neve ma nella fluttuazione di correnti aeree di primavera. Non sappiamo se il tintinnio insistente di campanelli al vento muovendosi su un unico piano sequenza, filmato dall’alba al tramonto nel deserto di Altacama in Cile sia solo un campo ricoperto di neve con cavi metallici risuonanti del loro interno- quasi in impercettibile eco - se si tratti un cielo stellato pervaso di punti ascendenti e luminosi visto a distanza dalla terra oppure di fili mossi dal vento germogliando, risalendo verso la superficie nel moto continuo della vita contro la pallida immobilità del paesaggio circostante. Resta la sensazione o meglio la suggestione poetica di qualcosa di effimero, lieve e appena percettibile ai nostri occhi , quasi inesistente eppure fuori dall’atmosfera dominante di morte-in-vita, di oblio e ritorno a una eterna assenza tangibile nel resto dell’installazione; ed è forse solo per quel contatto diretto, a piedi nudi quasi su un campo verde, di fieno e fili d’erba germogliati nell'abbraccio rigenerante della natura.





domenica 23 luglio 2017

A proposito di " Il lido del mosaico & ballo” di Alessandra Maltoni



















Lo scrittore- afferma la citazione in inizio libro “è un ragazzino che gioca in riva al mare e si diverte a trovare ogni tanto un sasso insolitamente liscio o una conchiglia più bella delle altre”. Il suo lavoro paziente è quello di raccogliere e tenere insieme, ciò che diventa scrittura, una collana ricucita di tante piccole perle semplici e rare come i singoli scorci di questo racconto sul litorale ravennate. E i capitoli de “Il lido del mosaico e ballo” si snodano come tante pietruzze raccolte, aggiunte l’una all’altra sul filo della documentazione storica e della memoria personale o di quella filtrata dalla passata generazione fino a ricostruire il quadro del Lido “Adriano”- nome evocato nel poema dantesco- con i luoghi balneari e turistici che ne hanno fatto il successo imprenditoriale . Traendo spunto da un certo filone della science- fiction moderna si viaggia nel tempo citando Einstein nel libro di Alessandra Maltoni e ci si sposta alla velocità della luce tra passato e presente attraverso una fittizia macchina del tempo perché: “la luce delle stelle che vediamo in cielo proviene dal passato”. Durante una riunione di famiglia e dopo un succulento banchetto natalizio nel cesenate la zia narratrice accompagnata dai nipoti su un soffice sofà bianco mosaicato viaggia alla ricerca di questa storia immaginata o ricostruita del piccolo lido ravennate e, insieme, metaforicamente verso un luogo della memoria riemersa a posteriori per frammenti e scorci dagli anni 60 all’oggi ; allo stesso modo dall’infanzia agli anni della giovinezza e ritorno al presente di Rosa.


Nel racconto, infatti, ogni luogo si struttura in una doppia forma, il volto documentario e il riflesso personale di chi lì ha impresso o lasciato la sua memoria. Tra i siti storici che vengono rivisitati sono il mitico bagno Arcobaleno e il suo imprenditore Cavallucci, i locali di Cà Pritona e Caà Vinona nel ricordo di un’affollatissima domenica pomeriggio e di un pranzo di comunione celebrato con cappelletti, formaggio molle e piadina. Se viale Virgilio e le vie del centro risuonano di nomi letterari illustri come di quello del fondatore, il nobile Chiericati, il Club Azzurra compare come scenario di tante cene e balli giovanili per l’ormai matura Rosa. Tornare indietro nel tempo per la narratrice significa sentire di nuovo risuonare la musica e il folklore nella balera all’aperto di Cà Pritona e vedere le coppie danzare strette in un valzer serrato la sera quando lei bambina osservava la scena dalla suo angolo privilegiato:


“ Vedo i nostri nonni danzare , l’agilità dei loro corpi, la freschezza del loro amore in una figura che mi ricorda un dipinto, il bacio di Klimt”. L’immagine del celeberrimo quadro del pittore austriaco fa da sfondo in controluce alla scena riemersa, l’abbraccio tenero e sensuale dei due amanti circondato e soffuso nell’oro dei mosaici ravennati poiché Klimt, attratto dalla loro bellezza, soggiornò nella cittadina lasciandosi ispirare dai suoi ori e riflessi brillanti.



Sulla linea di una certa letteratura contemporanea, George Perec sui temi di scrittura, oblio e memoria, ritorna nel racconto una riflessione sul senso del tempo e la ricostruzione del medesimo attraverso la fabulazione della scrittura: “ il tempo è trasformista, è come un camaleonte, cambia la pelle ai luoghi e alle persone” afferma la narratrice, se esso trasforma e cancella o meglio incide e volge in altro i volti e gli individui, allo stesso modo, “la macchina del tempo" qui vuole “rendere immortali i fondatori del piccolo Lido e rendere loro omaggio". Il altri termini la scrittura, o meglio, la ricostruzione fittizia e favolosa per frammenti della storia salva dalla distruzione del tempo e restituisce una versione possibile di quel passato in parte rivisitato con nostalgia e bellezza per poi tornare al volto realistico del presente.



Perché al di là dell’artificio letterario, dell’invenzione scientifica che fa viaggiare i personaggi nel tempo e riporta la storia al genere del fantasy o della science-fiction, al di là delle citazioni di formule appartenenti alla fisica della relatività di Einstein o al suo concetto di spazio-tempo, quello che emerge intensamente nel racconto della Maltoni è questa serie di quadri o meteoriti di memoria che come “madelaine” proustiane evocano ai luoghi e le immagini più belle dell’infanzia o della giovinezza dell’autrice . Così, nel corso di un aperitivo letterario invernale al Bar Jimmy a Lido d’Adriano una signora solitaria è accolta da una lunga tavolata di persone che degustano insieme un aperitivo mentre l’atmosfera diviene conviviale, i discorsi liberi e le emozioni scritte sui volti. L’autrice scrive a questo proposito: “sono le persone a rendere speciali e unici i luoghi ma bisogna avere occhi per vederli e cuori per amarli in silenzio” perché gli individui rendono immortali e importanti gli eventi e gli edifici iniziano solo allora a portarne un’anima.



Nel finale, attraverso un’ultima “madelaine” proustiana ricompaiono una serie di immagini a restituire il sentore del lido tra passato e presente : “ Sulla plage ricordo un gorilla sul tetto, nel viale Petrarca “briciole di piadina”, i pini di fronte gli stabilimenti balneari e bellissimi fiori di oleandri. Ritrovo l’oleandro, una pianta presente a Lido Adriano..è costituita da fiori bianchi e rosa, la rivedo di fronte al “free time”, fuori dal Club Azzurra alla rotonda".

E In questo “dilatare o restringere il tempo tra realtà e sogno” si girovaga piacevolmente sull’affascinante riviera romagnola attraverso il racconto di A. Maltoni e con i suoi mosaici, i sapori della sua cucina e l’impressione di aver “ascoltato una favola e visto in sogno il mare”.