E’ un
percorso sensoriale, un’esperienza fisica che implica l’attraversamento, l’immersione
del corpo percettivo e partecipe dello spettatore nello spazio di “Anime, di
luogo in luogo ” per ricevere, o meglio sentire, essere parte dell'evento prima che comprenderlo o analizzarlo intellettualmente. una serie di installazioni realizzate
dall’artista francese Christian Boltanski in
occasione dell’omaggio resogli dalla città di Bologna ripropongono le sue opere
più significative e due inediti raccolti nella mostra antologica al Mambo, museo d'arte moderna.
Entri
nell’oscurità di specchi deformanti che rifrangono gli uni sugli altri dal fondo delle
pareti nere di una stanza; in sottofondo un battito amplificato pulsa
intermittenze ritmiche da una moltitudine di cuori archiviati e raccolti dai suoi precedenti lavori alla luce di una lampadina.
Entri
dentro questa atmosfera rarefatta, velata e illusoria, lieve ed effimera ai
sensi. Attraversi un portale come fosse una soglia del “tempo” che ti conduce fuori
dall’esperienza della realtà all’altra parte dell’esistenza sensibile. Sul tessuto
leggero e evanescente di una tenda vedi affiorare grandi occhi scuri, ritratti
ricompongono e fanno scorrere da un fotogramma all’altro immagini in movimento di
un volto, quello dell’artista dall’infanzia all’età adulta nelle sue
molteplici, fluttuanti sfaccettature. Entri e continui ad attraversare pareti
di seta che si susseguono ad altre trasparenti e velate; ricompongono sguardi,
occhi di volti persi nell’oscurità proveniente da vite precedenti, anime che si
affacciano e ci guardano dialogando attraverso le tende. Compaiono, si
illuminano per un istante, troppo breve, poi ripiombano nell’oscurità. Sono
salvate come anime, riportate per un attimo all’esistenza sensibile, non a
quella terrena dei corpi ma, incorporee, in questi tessuti materializzano come
immagini fotografiche di volti solo a metà focalizzati. Luce e oscurità: è così che i volti si
rivelano nelle tenebre attraverso occhi grandi aperti, magnificenti e resi
visibili sui tessuti. Traspaiono là per un attimo sulle tende, gli occhi primo specchio
dell’anima, per questo tanti gli specchi convocati all’inizio del percorso. Battiti
cardiaci, regolari e ad intermittenza sul sottofondo. Attraversi sensorialmente, di luogo in luogo
le varie isole o punti di sospensione di un percorso libero, vago quanto
sotteso a due indicazioni essenziali; “Départ” e “Arrivée”.
La Luce o
la sua assenza, le intermittenze sonore, le apparizioni di immagini e
l’altrettanto rapido ritorno alla semi-oscurità sono parte integrante della
mostra insieme ai temi ricorrenti, alle eterne questioni o ossessioni che da
sempre accompagnano Boltanski: la coesistenza di vita e morte nell’esistenza
sensibile come nell’esperienza percettiva che egli mette in scena; la necessità
della memoria contro la corsa ineluttabile del tempo e la distruzione del
medesimo, infine il bisogno di testimonianza ricreando tracce, reali e fittizie per raccontare, restituire una versione possibile della storia, infine rielaborare una memoria intima e collettiva in parte rimossa .
“Ombre” nella prima stazione sono quelle oscure che si affacciano dal sotto-mondo, piccole
e basse frequenze materializzano in scheletrini appesi alla figura evocata
nella proiezione in nero espansa sulla parete. Una maschera digrignante e fantasmi appaiono sospesi da fili al profilo
delineato al centro come piccole marionette dal regno delle ombre. Attraversi
le tende, incroci le auree evanescenti dei ritratti che ricompaiono vagando di
luogo in luogo tra le installazioni retrospettive di Boltanski fino al
centro della galleria dove ti imbatti in una sorta di montagna incantata; una struttura
piramidale si eleva verso l’alto ricoperta e metallizzata in oro attraverso quelle coperte isotermiche utilizzate oggi per prestare un primo soccorso ai
profughi migranti in Europa. Delle tante morti anonime in mare tra i molti dispersi
in tragiche condizioni sono i fantasmi senza nome, le prime anime alla deriva
volutamente evocate da Boltanski qui per rendere loro un ultimo omaggio. Un’aspirazione
all’assoluto sembra imporsi con la luce dell’oro nell’eterno ritorno dell’anima
alla divina perfezione senza dubbio nella sua proiezione luminosa, espansa ed
elevata verso l’alto in ascesi come questa montagna incanta. Al centro della
galleria essa sola è illuminata dal raggio chiarificatore di una grande lampada
accesa.
“Autel Detective” “primo altare” di fotografie e memoria assembla immagini in bianco e nero su un fondale oscuro e lampadine blu alogene a illuminarle in primissimo piano . Un’isola del passato riaffiora in un approdo istantaneo della memoria, in un salvataggio “in extremis” attraverso i volti ridenti di giovani da un tempo prima del conflitto mondiale. “Autel du Lycé Chases”, allo stesso modo è un arcipelago di volti adolescenti di giovani ebrei a Vienna prima dell’avvento del nazismo. Sorridenti in primissimo piano, in bianco e nero sfuocato, i grandi ritratti si rivelano attraverso i loro tratti espansi e fluidi alla sola luce di lampadine puntate contro nell’oscurità circostante. Tale, un modo per dare dignità, mettere in luce e in rilievo quella verità unica e inconfutabile iscritta, incisa in ogni vita come singola traccia, lascito di una storia individuale e insieme riscatto di una memoria storica e collettiva ancora in parte da rielaborare. In “Monuments” i volti sono sempre più grandi in bianco e nero fluido ora totalmente presenti come auree di corpi svaporati, aloni luminosi e vaghi, involucri spirituali di anime rivelate in traccia fotografica nel profondo chiaro-scuro dalle lampadine, unica fonte di luce circostante.
Scatole di
latta simili a cassetti per la
classificazione di dati sono impilati ad archivi ai piedi delle fotografie come
altrove erano i ritratti svuotati delle figure, in primo piano sui sostegni commemorativi
in ferro. Questi cassetti, oggetti fittizi
investiti di un forte potere evocativo sembrano
stranamente provenire dalle classificazioni illimitate di documenti celati nei passati
regimi nazional-socialisti sovietici dove tutto era registrato, catalogato,
archiviato, passato al setaccio e in gran parte censurato dal grande occhio di
uno stato totalitario, da un partito unico centralizzato nei suoi massimi
funzionari. In Boltanski tali oggetti simbolici, segni tangibili di una memoria
traumatica filtrata dalla generazione post-olocausto appaiono riportati in vita
ma traslati rispetto al loro uso originario divenendo archivi ricreati della
memoria. Riesumati anche se vuoti come contenenti-contenitori fittizi, appaiono come “monuments” essi stessi di un apparente bisogno di restituire o riscattare un passato anche attraverso la sua finzione per sfuggire all’inevitabile oblio insito nella cancellazione del tempo; verità universale
e insieme messa in scena palese alla quale lo spettatore potrà aggiungere una
propria percezione dell’avvenimento. Appaiono qui come mattoncini di latta,
cassetti estratti da vecchie scaffalature arrugginite, urne cinerarie, infine i
supporti per la fotografie. In fondo al percorso illuminati da una luce blu elettrica
a neon, impersonale gettandosi in linee
taglienti sugli spigoli appuntiti si ergono a “muraglia cinese” fatta di
scatole di latta dalle sfumature in ferro e ruggine con piccole foto di
identità incollate sopra e lampadine puntate contro a rendere loro giustizia.
Epilogo in uno stato di inusuale e apparente quiete
Primavera sulla terra, il suolo vivente, l’humus, l’erba piantata a vivo sul lastricato della galleria. Il fieno tra i fili d’erba, l’odore della terra presente nello spazio, piccole zolle, foglie e fiori come di un campo verde in parte germogliato, in parte lasciato essiccare al sole, simile a fieno.
Sullo
schermo, l’immagine in immobile movimento, bianco come neve ma nella
fluttuazione di correnti aeree di primavera. Non sappiamo se il tintinnio insistente
di campanelli al vento muovendosi su un unico piano sequenza, filmato dall’alba
al tramonto nel deserto di Altacama in Cile sia solo un campo ricoperto di
neve con cavi metallici risuonanti del loro interno- quasi in impercettibile
eco - se si tratti un cielo stellato pervaso di punti ascendenti e luminosi visto a distanza dalla terra oppure di fili mossi dal vento germogliando, risalendo
verso la superficie nel moto continuo della vita contro la pallida immobilità del paesaggio circostante.
Resta la sensazione o meglio la suggestione poetica di qualcosa di effimero,
lieve e appena percettibile ai nostri occhi , quasi inesistente eppure fuori
dall’atmosfera dominante di morte-in-vita, di oblio e ritorno a una eterna
assenza tangibile nel resto dell’installazione; ed è forse solo per quel contatto diretto, a
piedi nudi quasi su un campo verde, di fieno e fili d’erba germogliati nell'abbraccio rigenerante della natura.
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