giovedì 18 febbraio 2010

"Vrais Semblants", Sarah Moon, Ed. Delpire





































































“After that, it was nothing but one step in front of the other, day by day, with time changing me”.

“Non sapevo quello che stavo cercando, la ricerca prendeva il sopravvento sull'obbiettivo, sul risultato." Faceva restare li' tutto il tempo lungo il cammino, a mettere le mani avanti come si camminasse nell'oscurità, con gli occhi bendati avendo perso la nozione del tempo e dello spazio, le coordinate di quello che era intorno, avanzando nell'oscurità, con il senso di essere chiusi,
serrati da una benda che scendeva giù dagli occhi fino alla gola, fino a darvi il senso di serrare il respiro,
di trattenervi come sul bordo d’un abisso, qualcosa contro il quale potevate scontrarvi ad ogni istante,
una parete fredda e opaca, l'acciaio, la durezza della pietra.
Pericolo imminente, mettere le mani avanti, un piede avanti l'altro; 

strano percorso fatto d'ellissi,
di cerchi concentrici che giravano l'uno sull'altro, che si sottraevano, si restringevano fino a riassorbire il vostro spazio vitale. 
Strano percorso fatto d'ellissi dove sembrava aver girato tutto il tempo intorno a qualcosa senza essere riusciti a dire cosa, a guardarla in faccia  e già non esisteva più.
E se era esistita un tempo era come dileguata, svaporata, fuggita via
lasciando dietro a sé solo il senso d'un vuoto, d un'assenza, l’ anello mancante d’una catena.

























Riscrivere in controluce: Sarah Moon, stralci di un dialogo immaginario.

“Raccolgo tutto senza scopo, tutto e nulla, quello che mi sembra buono e quello che a priori non lo é o, non potrebbe esserlo, non rientrando di diritto nel quadro.”
Quello che si assembla, si uniforma, si somma e quello che non potrebbe unirsi se non come frammento incongruo: granelli di sabbia, terra, sassi, polvere di pietra,
pezzetti di stoffa, stralci d'abiti, note di testi, rumori, suoni, eco di voci,
quello che mi assomiglia, mi parla personalmente e quello che é al più lontano, al più estraneo di me, (l'incoerente, l'illogico se vogliamo al senso comune), giocando sulle varianti di distanza e movimento: vicino e lontano, presente e assente,
ritornante attraverso l'azione, nel flusso incongruo del linguaggio,
nelle leggi incoscienti che regolano i ritmi della parola o della scrittura.

Cerco quello che nutre l'emozione dentro l'immagine e la ricerca é inesausta, tanto più feroce, disperante, senza fine.

Creo un luogo cancellandone un altro, un testo riscrivendone un altro;
sposto la luce, de -realizzo, tolgo realtà all'oggetto; non cerco di dire qualcosa, di fare qualcosa, solo di lasciare affiorare, nella ritrazione della materia, nella sottrazione progressiva del superfluo, il soggetto in primo luogo.

« Osservo tutto, scruto nascostamente, aspetto, non faccio nulla, mi lascio sorprendere”.
Assorbo: l'atmosfera, gli odori, gli umori di un luogo fino a riconoscere qualcosa, qualcosa che mi parla inconsciamente. Seguo le linee, gli angoli, le ondulazioni, i pieni e i vuoti delle forme nello spazio, la sorgente di luce entrante dalle grandi finestre della stanza, le interferenze dei suoni dall’esterno, la curva che traccia il profilo di un corpo, la linea di un abito, le pieghe di una mano, gli oggetti sparsi intorno dove il caso lascia cadere il mio sguardo. Mi avvicino alla materia, la guardo di faccia, di profilo, alla rovescio, manipolo, ancora, cerco, confondo le tracce, le prospettive
non so più dove sto andando, nulla, intorno a me il vuoto.
La luce del giorno si attenua. Non voglio più continuare, cercare immagini, scrivere
il mio corpo. E poi all’improvviso, non sempre ma qualche volta, qualcosa accade, qualcosa cambia, una frazione di secondo, una scintilla, la differenza di una bellezza forse inattesa. Tutto entra all’improvviso in una lentezza nuova, in un ordine di tempo altro e sono come portato; guardo fuori, non ho più bisogno di inventare, mi basta captare, essere lì, percettivo, all’ascolto. Ci sono pezzetti ovunque, residui, frammenti di materia;
basta essere pronti a riceverli, al momento giusto, la stessa storia già scritta, qualcun’ altro,
un ricordo ma più lontano, meno opprimente, meno feroce. Qualche volta mi stupisco d’essere riuscita ad avvicinarmi, a toccare un punto sensibile in questo vagare, trattenere, perdermi,
non sapendo esattamente dove stavo andando.

Trasformo la materia esistente, il supporto sensibile, quello che può o non può essere detto;
lo volgo a mio favore, me ne approprio deliberatamente, lo strappo al contesto, dandogli un’altra vita, un altro tempo, un’altra storia. E’ come cercassi il riflesso, la risonanza di quello che non so scrivere a parole. C’è una parte di intuizione in tutto questo, qualcosa che ritorna in modo insistente, ossessivo, caparbio, ogni giorno quasi un cercare, scontrarsi, precipitare,
Vagare nel vuoto fino a imbattersi in strane coincidenze che ci salvano.







Che cosa mi interessa nell’immagine poetica?

Il rapporto al tempo, alla memoria, Questa illusione costante alla perdita,
ma anche il momento gioioso, esilarante, magico,
l’accecamento dei sensi,
la proiezione espansa del sentire con tutto quello che implica di trasfigurazione,
incertezza o dubbio 

Apparente,reale o incerto,
utopico o immaginario; strana alchimia tra desiderio e contingenza.

Se il filo che seguo è rosso, è il rosso che risponde sulle strade, sulle vetrine, sugli abiti, sui muri. Cerco il rosso nei gesti più quotidiani. “Trasporre il colore”( Moon) in senso astratto significa  ritrovare, o avvicinarsi almeno, nella risonanza poetica, alla sensazione,  che un atto ha esercitato su di me, tradotto in una vibrazione colorata.


“Appena porto qualcosa fuori dal suo contesto, sono già in una forma di finzione.”
Prima che a una storia penso a creare un’immagine, una situazione ed è come se l’istante che cercassi di provocare, che desiderassi trovare porti 
già,in sé la storia che stavo cercando. Tutto accade nell’effimero di un momento. Come se vedendo una cosa ne vedessi  un’altra in controluce o sovrapposta tra le linee; e, ogni istante fosse, già, potenzialmente il fulcro di una nuova finzione, di una nuova immagine. “Forse questa è la storia della mia fotografia”.


“Per me l’uso del bianco e nero rinvia all’introspezione, alla memoria, alla solitudine o alla perdita là dove il colore è il ricorso un altro linguaggio, un linguaggio vivente”.
Il bianco è una specie di radiazione luminosa prima che un colore in sé, come rimandasse all’alone che avvolge in maniera più o meno manifesta ogni essere umano, questa forza di vita che emana un corpo caricandosi d’una valenza quasi metafisica .
Complementare ad esso è il nero, “in sé stesso la più grande assenza di luce” , (Soulage) dalla quale, tuttavia, emana un’intensità segreta, una luce riflessa se vogliamo. E' già l'alone oscuro che circonda l’essere quando manca d’una propria irradiazione vitale, quando ha perduto la propria luce interiore, ed è come se vivesse d' una fonte riflessa, esterna alla nostra visione.

"Il colore è un soggetto che si impone, un appello al quale dover rispondere”.
Toni colorati portati al limite della loro saturazione esplodono uno sull’altro incontrandosi.
Fa pensare alla fatalità di alcuni incontri e come ogni cosa allora si arrenda a una propria interna necessità. Ho l'impressione che la fotografia viva in questa sorta di vulnerabilità, che le tracce scritte sulle polaroid siano già un segno del passaggio del tempo, della precarietà della materia. "C’è una minaccia implicita scritta sulla cornice, sulla pellicola, e, allo stesso tempo, il senso di qualcosa di sfuggente, d’aleatorio".
Quando si riesce a coglierlo è come il tempo di uno sguardo,  talmente accidentale.
Il “fuori” si chiude e la realtà si piega, si plasma a poco a poco al nostro interno sentire fino a lasciarsi prendere dentro una tela, infinitamente, finemente tessuta.
Qualche volta una specie di eco si instaura tra il mondo e l’io, una risonanza che libera immagini.
Come si prendessero delle istantanee fissando punti d’arresto su una pellicola che continua a scorrere indeterminata, indifferente sotto i nostri occhi, di cui non conosciamo il seguito, la fine ma solo l’attimo presente: incerto, intenso, irripetibile.

“Strano effetto  a specchio", chi si rivela infine, non lo sappiamo, l’oggetto o il soggetto là fuori, l’io riflesso attraverso l’altro o il mondo guardato dalla fessura del mio interno sentire.
O non sarebbe forse qualcosa dell’ordine di un incontro quello che la foto in ultima istanza rinvia?

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