lunedì 8 febbraio 2010

Note da Eugenio Barba « L’energia che danza »




























“Un corpo-in-vita è qualcosa di più di un corpo che vive. Un corpo-in-vita dilata la propria presenza scenica e la percezione che ne ha chi lo guarda.”[1] (40) C’é un’energia elementare che passa nell'attore, prima di prestare attenzione alle diverse azioni che compie, questa forza elementare che capta l’attenzione del pubblico precedendo ogni tipo di comprensione intellettuale.
Tale forza singolare in teatro viene chiamata “presenza”, un’energia che si sottrae al nostro modo d’essere presenti, fisicamente, nella vita quotidiana.
E' un corpo dilatato dove l’azione viene incentrata, decentrata, accelerata,
portata al suo culmine, ripetuta fino all’estenuazione, all’eccesso, alla perdita;
fatta esplodere violentemente in mille frammenti distrutti e ricomposti sotto altra forma, costantemente distrutti e ricomposti in un movimento frenetico e incessante oppure trattenuta come sul margine di un abisso,
come per una tensione che si iscrive sotterranea, sottocutanea, silenziosa,
in ogni caso potenziata da un corpo-in-vita.

Corpo della neg-azione, dell’azione energetica generata dal suo contrario,
dal suo opposto di distruzione.
Ricomposizione continua dove ciò che si è perso riemerge sotto altra forma.
Anarchia di una miriade di frammenti sparsi, difficilmente ordinabile,
giustamente dilatata in uno spazio altro denominato scena.
Se il quotidiano è basato su un’economia di forze nell’azione, l’extra-quotidiano d’ogni forma di rappresentazione implicante il corporeo agisce giustamente sul principio di gaspillage, della dispersione, dell’eccesso, d’una dépense come consumo; assumere anziché annullare, amplificare anziché appianare le tensioni,
le forze e contro-forze, le pulsioni antagoniste che abitano l’essere preso nel suo stato dinamico.























“ Un modo di spostarsi nello spazio rivela un modo di pensare, è un movimento del pensiero messo a nudo”.
Un pensiero in danza è un movimento, un’azione, qualcosa che si fa,
si compie, si lascia affiorare gradualmente fino a plasmarsi in una profondità tridimensionale, modificando lo spazio interno al mio corpo e quello esterno alla percezione. Possiamo interrogarci su come l’immaginario che mentalmente ci abita influenza il nostro modo di muoverci: solidità o leggerezza, stabilità o discontinuità, scorrimento, flusso o immobilità, disequilibrio o la ricerca di un altro possibile equilibrio. Come la disposizione dell’ architettura, gli ostacoli, le barriere, i vuoti o i pieni di uno spazio agiscono sulla nostra disposizione cinetica.
Una questione aperta, un’idea o immagine-pensiero prende forma dall’esperienza sensoriale interna alla mia esterna iscrizione .

Quale immagine proiettare in uno specchio, lo specchio del mio interno sentire, per un corpo che non si muove o si muove solo in parte, legato da corde che lo tengono inchiodato al suolo, immobilizzato, bendato, stretto da qualcosa che lo serra come fosse nell’impossibilità di respirare, oppure portato al silenzio,
ricondotto a quell’estremo dove il movimento è grido, iscrizione, bisogno vitale,
non-dicendo dire quello che non saprebbe altrimenti tacere.
Un corpo che disturba, non conforme, non proprio, “fatto di materia, ossa e muscoli, la massa e non la figura; un gesto che non deve necessariamente essere bello”.

Si vive in questa contraddizione tra una ricerca estetica come atto di sublimazione, aspirazione a una bellezza, a un’armonia fino a trasformare quello che è un gesto ordinario, un corpo ordinario in qualcosa giustamente di “extra-ordinario”, non in senso puramente formale ma potremo dire in senso ontologico, fino a toccare quel momento estatico, ex-tasis come uscita da sé, l’essere trapassati, traversati dall’Altro, l’indicibile, tutt’uno con la jouissance che lo porta.
Dall’altro lato, l’arte moderna posizionandosi oltre la gabbia della rappresentazione, della figura, della mimesi, ripone senza sosta la questione del limite tra arte e
non-arte, procedendo nel senso di una de- sublimazione, profanazione dell’oggetto sacro, del ruolo e dell’opera d'arte, riportandola giustamente al livello dell’esperienza comune, oppure andando a riscattare l’oggetto banale, i valori bassi, il gesto quotidiano fino a farlo entrare a pieno titolo nel campo artistico.
Come dire un pensiero che, a priori, permetterebbe a ogni esperienza, di divenire materia d’arte. Al limite non dovrebbero esserci barriere, strutture limitanti, autolimitazioni imposte dal canone, dalla norma o dalla tradizione; si dovrebbe poter tutto adattare, usare, modificare, plasmare liberamente, ironicamente rifare, citare, riscrivere, trascrivere in maniera identica e contraria rispettando la logica profonda interna al lavoro artistico.





“Si può partire dal fisico e arrivare al mentale o viceversa passare dall’uno all’altro incondizionatamente là dove si giunge a costruire un’unità tra i due termini”.
Non si lavora solo sul corpo o sulla voce, afferma Eugenio Barba, si lavora in primo luogo sull’energia. Non esiste un’azione vocale che non sia anche azione fisica, cioè la voce é prima di tutto il respiro, una ripercussione del respiro attraverso le membra, gli organi, la colonna vertebrale fino a divenire suono, eco, vibrazione, melodia di note o parola scandite nello spazio, concatenazione più o meno ordinata, armonica o disarmonica di suoni.
Allo stesso modo ogni azione puramente fisica può divenire azione investita da un coefficiente mentale. Lavorando sul margine sottile, su quel bordo o frontiera mobile che lega la carne al pensiero, il territorio dei sensi a quello dell’intelletto, lo spazio puramente intellettuale di un individuo al suo universo fisico, sensoriale, cinestesico e emozionale. Dunque su quel margine esiguo presente in ciascuno di noi dove le due polarità si scambiano l’una nell’altra in maniera quasi inconsapevole.

“Logiche Gemelle”
Come nella pittura diverse logiche si sovrappongono agendo simultaneamente. Un’artista si inserisce in una tradizione, utilizzando o infrangendo le regole apertamente. Trasmette un certo sapere pre-esistente, acquisito, ma incarna anche il proprio modo di sperimentare il mondo. Traduce sulla tela non solo l’immagine ma anche “il gestus”, l’energia, la qualità del movimento che ha guidato la sua azione.
In questo senso, ha mantenuto qualcosa del bambino in sé non per un’innocenza o incolumità da ogni esperienza e cultura ma perché, nel suo essere in vita, “incrocia logiche simultanee senza sostituirne l’una all’altra”. ( p. 46) Riconosce le leggi dell’analogia, delle libere associazioni, non negate dalla successione dei diversi stadi di sviluppo culturale.

Energia
“Dal greco “energeia” da ergon, vigore fisico, potenza dell’organismo, forza dinamica dello spirito che si manifesta come volontà e capacità d’agire”.

Ki-ai nel teatro del nô è l’accordo profondo dello spirito, (ki) inteso come respiro, pneuma, spiritus e del corpo”(63). Come se la forza spirituale dell’individuo, le manifestazioni psichiche dell’essere fossero profondamente radicate nella carne, riconducibili a una sorta di respiro primordiale, “souffle” investito della potenza stessa del nostro essere incosciente. Forza di propulsione che si volge in ansito, sussulto grido: parola nelle sue infinite variazioni, vibrazioni di potenza e intensità.
Chikara” è il potere che l’attore acquisisce attraverso un allenamento regolare e tenace. “Taksu” è una sorta di ispirazione divina che si impossessa del corpo indipendentemente dalla sua volontà. (63)

Anima: alla sua origine battito, ritmo, flusso continuo prima d’essere pensata come una sostanza spirituale nella cultura occidentale e cristiana. Quando si avvicina a un’entità precisa si cambia in animus, soffio, respiro che anima un singolo corpo.
Energia: forza, efficacia all’opera associata all’eccesso di un’attività muscolare e nervosa. Sul piano vocale il grido; ma in primo luogo esiste come una pulsione presente nell’apparente immobilità di un corpo-in-vita, questa sorta di energia che si iscrive come tempo, che scandisce un tempo prima di implicare un reale spostamento nello spazio.
Nell’apparente immobilità, un corpo attraversato da una tensione si disegna in un movimento continuo, sotterraneo, visibile in gradi diversi di intensità all’esterno:
“ mouvement stop, inside no stop”.
Ha a che fare con il ritmo, dal greco etimologicamente “reos" flusso, "rêin", corrente, colare, dunque letteralmente “lasciarsi scorrere".

Ritmo: nel tempo come cadenza, suono, successione di suoni in musica.
Nel movimento come scorrimento, flusso, battito regolare oppure cesura fulminea.
“Danza: movimento del corpo umano nella sfera del ritmo”. (Mayerhold)

In poesia gli accenti metrici, gli intervalli, i versi liberi o metricamente legati della forma poetica;
ritmo di forme nello spazio;
ritmo riguardante i fenomeni della vita, gli elementi della natura, le correnti, i flussi, le maree;
ritmo con le sue leggi interne, ineluttabili fatte di silenzi, intercalato da pause, sospensioni o vuoti.
Successioni più o meno consistenti di durate intorno alle quali si organizza il nostro “essere-in-vita”.






[1] Eugenio Barba, Nicola Savarese, L’Energia che danza, dizionario d’antropologia teatrale, Entretemps, 2008.





















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