mercoledì 14 gennaio 2015

RISONANZE VISIVE, RISONANZE POETICHE (Su alcuni paesaggi di Giovanni Fabbri, mostra fotografica a Ravenna )







Alcune immagini giungono a noi implicitamente per la loro potente “risonanza” visiva, cioè appaiono investite di “quella capacità unica di trasformare i paesaggi locali in trame simboliche fatte di rughe e cicatrici” (Pellizzari), di trasformare un paesaggio noto, una visione da cartolina oppure l’usuale di una realtà poco attraente, marginale e qualunque che incontriamo al quotidiano in una trama di segni e indici visivi sottratti al luogo comune proprio perché visti attraverso tale lente intuitiva, esperienziale, singolarmente percettiva che è l'approccio d'una certa fotografia contemporanea.  
I paesaggi di Giovanni Fabbri appaiono, in questo senso, come un atto di sublimazione visiva attraverso la potenza della luce o del colore, permeabili alla materia fotografica e in un’apertura alla percezione in primo luogo; giustamente mettono in risonanza la realtà in immagini desunte dalla propria terra- il paesaggio lagunare ravennate, il mare o le distese multiformi coltivate della sua piana- oppure in vedute tratte dai viaggi in un altrove esplorato con fascinazione e incanto perlopiù nel sud del mondo. Lo sguardo di Fabbri solare, estetico o meglio estatico, appare affascinato dai colori caldi dell'isola cubana come dall’ impressione folgorante di aquiloni colti in vortice di rosso e di fucsia elettrico nella notte d’un festival cervese, dalla sensualità di vedute di individui e scorci di villaggi o case nella solarità pervasiva di Trinidad, dalla purezza dei suoi colori chiari e nitidi come dalle tonalità luminose dell’isola, raramente mostrandole il risvolto tragico, appunto le sue stratificazioni di miseria, incisioni e cicatrici.
Qualche volta tali immagini esulano dal realismo di superficie, dal nitore ricercato della focalizzazione per aprire a una tensione verso l’astratto, per esplorare nella ricerca formale la saturazione voluta dei colori che, nella messa a fuoco incisiva, divengono artificiali, caricati di forti contrasti chiaro-scurali, improntati sull’opposizione empatica tra la sfere delle tonalità calde e fredde, dal rosso arancio elettrico al blu violaceo indaco.


La fotografia per Fabbri sembra voler dare forma a “un’esperienza di realtà” vista nella sua bellezza di superficie cioè attraverso una visione luminosa, serena, sprovvista nel caso specifico d’ogni filtro o lente oscurante, d’ogni ombra incidente. Si vuole atto esperienziale, percettivo di apertura senza riserve nei confronti degli esseri e delle cose come d’un misurarsi con quello che si ha di fronte agli occhi e dunque fare dell’immagine ogni volta un’esperienza inedita, necessaria e imprevedibile nell’atto del vedere ma anche nell’aprire un dialogo esistenziale con l’ambiente; lo spazio nel quale si è immersi, non è dato o preesistente al soggetto ma invece ricreato, messo in luce o in scena nelle sue geometrie di forme o linee incidenti da quel medesimo sguardo fotografico. In altre parole, l’immagine in Fabbri è spontanea e intuitiva, legata all’esperienza momentanea e percettiva della realtà, di quel paesaggio noto o meno e, qualche volta, le visioni tendono all’incanto, al sogno, come fossero fatte di luminescenze irradianti o di colori sublimati delle cose, dunque mettono in luce o plasmano spazi alla ricerca d’una bellezza innata oppure semplicemente riflettono la forma d’una interna percezione, la proiezione d’uno sguardo desiderante.








“Vele al vento”


Aquiloni in linea d’archi a ripetizione su sentiero o varco aperto verso il mare: viola trasparente e velato, via d’accesso privilegiata verso l’aperto, punto di fuga discendente verso la vastità delle acque, dalla sabbia intrisa dalle maree, contro un cielo plumbeo, pesante di nubi, mentre gli aquiloni si delineano in profilo di arcate trasparenti e violacee,


 leggere e svuotate all’interno. L’immagine è nitida, tendente all’ essenziale, nel nitore d’una messa a fuoco, d’un realismo sfociando nel simbolico, nell’ultra-oggettivo. Nel dialogo esistenziale aperto con il paesaggio, esso diviene qui, come l’immagine in fotografia varco, apertura intuitiva al mondo attraverso la sua tensione a una bellezza innata delle cose partendo dalla loro veste più usuale, da un occasione o un accadimento del quotidiano. Il gioco di Fabbri allora sta nello spostare lievemente il paesaggio partendo dal suo luogo comune, fotografare un luogo noto come la pineta di Ravenna e farne un luogo simbolico, vederlo sotto un’altra luce, lavorare sulle sue possibilità espressive esasperate o sublimate dalla piena focalizzazione, dalla saturazione dei colori, dalla tensione di linee e forme portate al loro massimo grado di astrazione figurale, in definitiva affidando la percezione  al qui ed ora del corpo, all’ineffabilità dei sensi, alla temporalità propria dello scatto fotografico.
Cosi’ quegli aquiloni in un’altra immagine nella notte del festival cervese divengono vorticanti in aria, appaiono riconnettersi l’uno all’altro a vortice, a fluttuazione di linee viola, fucsia, magenta fino a toccare il blu elettrico, a vortice inglobante, a flusso continuo d’un effetto luminoso, fluidificante nell’oscurità, ergendosi alti nel cielo. In basso restano baluardi d’aquiloni e cannucce di tessuti blu fosforescenti e azzurrini o pallidi turchesi, trasparenti o opalescenti di luce riflessa nell’oscurità come miraggi o vaghi baluardi di salvezza.



Riflessi dorati” sulle acque a raso d’oro; uomini intenti alla lotta contro il mare sono visti nello sforzo d’avanzare controcorrente, nella tensione fisica, nel grido, nel battito congiunto di braccia muovendosi all’unisono, nella compressione muscolare dei loro torsi, ordinatamente dibattendosi in lotta in mezzo ai flutti. 
Su una barca a remi, fendono le acque in un movimento irregolare, solcano, scavano, segnano e muovono le superfici intatte delle acque generando flutti schiumosi, lievi brume di spuma, fluttuazioni appena percettibili sulla massa intatta di superficie come di un’eco a distanza, udibile anche se trattenuto, attenuato dei grandi moti violenti, espansivi, centripeti partiti dalle profondità degli abissi, giungendo dall’altrove, avendo volteggiato in indicibili loro circonvoluzioni fino ad attutirsi li’ su quella superficie piatta del mare. Sulla distesa apparentemente dorata delle acque intorno sono riflessi luminescenti che ricoprono in volte d’oro, in guizzi e flutti scaturiti al tramonto e immensi nella radiosità dell’oro.


"Trinidad"


                                                                                                                  
Gialli intensi sulle pareti di pietra a vista, murate a secco dove il sole viene a specchiarsi, a indugiare, ad adagiarsi quasi. Giallo irradiante sulla scalinata visibile in primo piano del grande edificio; sulle colonne millenarie nel dettaglio della base si intravvedono le ombre dei balconi, il riflesso delle cancellate disegnandosi in una simbologia complessa di arabeschi in ferro battuto. Sulle architetture soleggiate e massicce uomini sono adagiati nella siesta pomeridiana; fumano grandi sigari, i vecchi distesi accoccolati al sole a indugiare sulle grandi gradinate del palazzo di potere ermeticamente chiuso. In altre immagini sono dimore di stampo coloniale dai nitidi colonnati, dai tetti ghermiti di mattoni e pietre a vista, dagli azzurri celesti alternati ai pallidi giallini pastello, qualche volta agli ocra accesi, più spesso ai bianchi dei colonnati. Sono vedute d’una presunta oggettività, d’una chiarificazione di realtà attraverso il colore nella sua sublimazione all’ennesimo grado, nella sua nitida visibilità privata d’ogni ombra, d’ogni riflesso oscurante. Portati in un moto intensivo alla saturazione delle loro tonalità attraverso l’immagine, scorci di case e strade in quartieri popolari sono visti in turchesi, tenui rosati, in giallini smorzati pallidi, ora in ocra di pietre a vista accese dal sole. All’ingresso d’un mercato rionale in un'altra foto il giallo solare, accecante quasi tende verso l’alto nella luminosità pervasiva del pieno giorno sull'isola. Assistiamo a questa ascesi del colore verso un’idealità di luce oltre la semplice presenza documentaria dell’immagine: sul rosso bruciante del suolo, la terra è arsa, nuda riempita dei passi, dei tracciati di ruote e carri, biciclette appoggiate di fronte all’ingresso del mercato. Uomini in posa non consapevoli al momento dello scatto appaiono in questo tentativo per il fotografo d’inseguire una bellezza volitiva e sfuggente oltre i segni della miseria, attraverso la sensualità delle facciate, delle pietre, degli ingressi e le scalinate dei quartieri popolari.




"Bambina gitana"


E’ in Camargue, Santes Maries de la mer,  la celebrazione d’una festa popolare in onore di tutti i gitani d'Europa. Dopo la parata, all’uscita della scalinata d’una chiesa dedicata alla santa protettrice di questo popolo , dopo che l’evento festivo ha avuto luogo, sul selciato ricoperto di cartacce, stracci e resti del corteo in involucri e polveri al suolo, sul cemento piastrellato di fronte all’ingresso della chiesa ormai deserta una bambina gitana inizia a danzare, sola, a piedi nudi di fronte al tramonto. La veste sfilacciata sui bordi, le gambe nude, i piedi anneriti dal cemento al suolo, la piccola zingara danza dileguante contro il riflesso del tramonto, i capelli sciolti e arruffati al vento; danza per una folla svanita insieme al vento a ovest, contro il soffio del vento del nord che la trascinerebbe lontano verso l'altrove. Le braccia e i palmi aperti accennano al movimento in questa disposizione al volo, al respiro del corpo, all’innato della danza in sé di fronte a una luce soffusa che svanisce lentamente a distanza.





Pineta, Ravenna "tra le nuvole"



Vallate e corsi d’acqua stagnante, la pineta è sullo sfondo con le sue vette ritagliandosi nitide, nette in oscuranti chiome contro la distesa acquorea e rosata di cielo al crepuscolo. Acquitrini e immobili canali divengono valli, specchi d’ acqua opachi, immensi e riflettenti contro i quali un cielo rosato o liquido , ora ingrigito e brumoso si riversa e si espande, tra gli arbusti e le cannette sporgendosi sui canali al tramonto. Capanni e reti da pesca intessute in trama leggera si intrecciano per confondersi ad essi. D’un tratto il riflesso d’una fonte sconosciuta riverbera lì in una nuvola rosata dall’effetto elettrico rendendo quel paesaggio onirico attraverso la profonda risonanza d’un rosso tenue ma artificiale, satinato ma coprente sulle vallate svuotate della laguna. 





La saturazione del blu in violaceo elettrico e del rosato frammisto a tonalità irradianti di arancio al tramonto viene portata a compimento in “fra le nuvole” dove i colori caldi e freddi, metà e metà cielo, si riuniscono in contrasto e ricomposizione d’una medesima scia di viola, arancio e bluastro all’orizzonte.



"In attesa di un nuovo giorno" (foto in inizio pagina)

E’ un blu elettrico artificiale e violaceo portato all’ennesima potenza nelle sue possibilità espressive, eterno e ultra-terreno, magnifico in sé ma onnicomprensivo, coprente e esaurendo in sé tutte le tonalità, tutte le sfumature, tutte le prospettive in attesa d'una svolta cromatica  o inedito riflesso di colore. Magnificente e espanso come una patina che ammanta, ovunque e senza riflesso,  come finisse li’ alla fine del mondo in attesa di un' alba a venire. Il mondo immerso in questa oscurità artificiale e straniante. Sulla spiaggia barche rovesciate in attesa, il litorale illuminato a distanza nella notte.

Luce artificiale, colori saturanti, il senso di straniamento rispetto a una realtà nota, usurata, per conferirle quasi un alone metafisico, in un dialogo esistenziale con sé stessi.
 Il cielo violaceo e blu ultravioletto nella notte rischiarata dalle luci a distanza esalta l’impressione surreale di un’astrazione figurativa dove gli oggetti, le barche affiorano alla superficie del paesaggio come fossero state rovesciate li’ a riva non viste attraverso una densa oscurità mentre  la notte scendeva, elettrica sulla città.