lunedì 14 dicembre 2009

Estratti di "Tra due Silenzi" , Peter Brook


























«Tutto comincia cosi’, con un silenzio, ma ci sono due tipi di silenzio, o forse ce ne sono molti di più, ma in definitiva, non ce ne sono che due: un silenzio di piombo, questo silenzio senza vita che non aiuta e, l’altro, il vero silenzio, quello che unisce misteriosamente e innegabilmente persone ordinariamente divise. Un vero momento di condivisione. Tra questi due silenzi, quello senza vita_quello della noia del teatro_e l’altro, pieno di vita, d’una vita straordinaria, tra questi due silenzi mille questioni si pongono.”

Quello che concerne veramente il teatro, il regista, é tentare di capire cio’ che accade al cuore dell’esperienza per continuare a lavorare partendo da tale comprensione. E allora, da subito, una domanda essenziale si pone: perché fare teatro, perché passare tanto tempo a guardare gente nell’atto di fare delle cose? Questa questione resta al centro del mio lavoro. Siete seduti di fronte a me, sono seduto di fronte a voi; ponete una domanda, rispondo, non ha importanza. Quello che é importante é che sentiate, quando ponete la vostra domanda, che essa valga la pena d’essere risposta. Lo stesso accade nella messa in scena. Il teatro parla della vita, di cosa d’altro si potrebbe parlare? Si puo’, per un breve momento, entrare in una situazione nuova, in maniera più intensa, differente da quella che si vive nella vita ordinaria? Credo che questa sia, in definitiva, l’unica questione.”
“ Non credo che il teatro sia al suo meglio quando evoca il punto di vista di una sola persona. Che cosa lo rende cosi’ eccezionale? E’ perché il pubblico può’ vivere, là, in piena luce, contraddizioni che di solito lo sommergono; può’ allo stesso tempo comprendere il gesto d’Otello e provare un’immensa compassione per Desdemona, e può’ sentire profondamente questo. La necessità del teatro, permette di entrare, più profondamente in una situazione data. La scena o il testo devono servire la complessità della vita, non essere servitori di un singolo punto di vista.








Su Artaud: “ una personalità unica e complessa...resta per noi una visione del teatro, una visione estrema, totale, da visionario, mentre il teatro perde spesso il suo lato “extra-ordinario”, cadendo facilmente sotto il fascino di un mondo soave, ordinario, compiacente e piccolo borghese”.
Su Grotowski: “nelle forme tradizionali di teatro, in India, Giappone o nelle vecchie pantomime europee si trovano spesso codici sterili, fossilizzati, non più viventi,
Si deve incoraggiare l’attore a non ripetere quello che ha già fatto, appreso o visto; trovare un ritmo della parola che non sia quello della parola ordinaria, intonazioni che non siano quelle dell’abitudine, gesti che non siano dati. Sviluppare il suo corpo, la sua voce per permettere all’impulsione più intima, più segreta di salire in superficie”.

“ ...la ricerca di un movimento che puo’ toccare ciascuno per la sua purezza era anche alla base del nostro lavoro. Attraverso un semplice gesto, fatto in un modo preciso, un attore é capace di catturare l’attenzione di un intero pubblico. In quel semplice gesto sono riunite purezza, trasparenza e chiarezza. Scoprivamo, da parte nostra, che si poteva trovare la stessa purezza attraverso gesti semplici, i più ordinari della vita quotidiana”.

La questione dell’innocenza: “ ..Si é persa la propria innocenza lungo il cammino, e le complicazioni, i problemi sorgono. Si deve attraversare questo e tentare di trovare una nuova innocenza, non quella dell’infanzia, sarebbe troppo facile... Molti scrittori usano l’immagine della traversata d’una foresta; si deve attraversare una foresta oscura e insidiosa, e, se si arriva a uscirne allora una nuova forma che puo’ chiamarsi innocenza sarà trovata. La prima é data, la seconda é da scoprire”.

“ Facendo un enorme salto attraverso gli anni, a poco a poco, é il contenuto umano del lavoro, che é diventato più importante. Siamo partiti, un piccolo gruppo d’attori e io, all’incontro di gente molto diversa, bambini, handicappati, vecchi. Siamo andati in Africa, in Iran; abbiamo improvvisato partendo dal nulla per gente che non conosceva il teatro come lo conosciamo noi in occidente. E là, il mio lavoro ha preso un’altra piega.[..] In primo piano, ora, sono degli esseri umani che fanno cose e altri che li guardano; é chiaro che tutta la storia che si vuole raccontare, rendere vivente, parte da questo”.

Sans-forme: “ cominciare la giornata seguendo un’intuizione, sapendo che finirà, senza dubbio, per cambiare forma. Alla fine della giornata cambierete direzione, voi e quelli che lavorano con voi, non importa. Siete coscienti che la vera direzione non si troverà che molto più tardi, e che allora, tutti quei momenti d’improvvisazione troveranno il loro vero posto, la loro utilità fondamentale. E’ un processo, non c’é altro modo per descriverlo, come il processo per il quale passa un pittore. Quello che chiamiamo un processo: si va a destra e a sinista, si cambia, si attraversano momenti di totale disperazione, sé e gli attori, momenti dove si crede in qualcosa e gli altri non ci credono, momenti dove gli altri credono e non voi, momenti dove nessuno ha l’impressione d’essere sulla buona strada ma durante tutto quel tempo il lavoro continua. E’ un processo, si deve prendere il rischio.”

Un riflesso della realtà...un riflettore puntato sulla realtà. Quello che accade in teatro non é mai reale, é un’imitazione nel miglior senso del termine. Non mostra la realtà, l’esprime attraverso uno specchio, uno specchio che é allo stesso tempo lente attraverso la quale si puo’ osservare quello che ci sfugge, normalmente, nei movimenti caotici della vita”.
“Abbiamo cominciato a lavorare con attori provenienti da diversi paesi del mondo per una ragione molto semplice...l’essere umano non é finito; l’essere umano ha bisogno dell’aiuto d’altri. Nella sua ricerca individuale non ha soltanto bisogno di compagni di viaggio ma anche di capire che un’altra persona puo’ apportargli quello che lui da solo non potrebbe sviluppare. E’la cosa più interessante lavorando con persone provenienti da paesi e culture diverse”.

Il Mahabharata é un’opera incredibilmente complessa, densa; a un certo livello parla di conflitti che possono sorgere in qualsiasi famiglia, a un altro, parla del conflitto essenziale nell’individuo, dell’essenza della guerra, dell’eterna lotta tra i popoli, dell’uomo contro l’uomo e, a un livello ancora più vasto, del senso interno, della ragione d’essere del conflitto in quanto tale, non del conflitto nella società ma nell’essere umano o, potremmo dire, nel cosmo. Qual’é il senso del conflitto, totalmente negativo, positivo, come comprenderlo nel ciclo di creazione dell’umanità? Immensa questione; si parte da un conflitto personale, per entrare con Krishna che é il rappresentante dell’umano, nella grande opera di creazione e distruzione”.





















Teatro come spazio : spazio dove lo sguardo puo’ aprirsi e la voce, il gesto dirigersi verso l’altro, l’alterità per eccellenza;
invio proiettivo, movimento che si proietta verso l’esterno in un indirizzo reale o metaforico, in un’atto di condivisione, scambio, messa in circolazione delle correnti multiple che si traversano.
Esperienza dove il mondo non schiaccia l’individuo ma lo induce a trovare una propria completezza interiore.
“Alterità”, anche, come il margine esterno dell’io, il luogo del corpo dove la forza, l’eros o la pulsione prima, la carica energetica pura e potenzialmente distruttiva
s’ergono contro il nostro stato d’esseri costituiti.

La superficie del quadro o della tela s’apre, qui, a una terza dimensione; diviene volume, profondità d’uno spazio reale attraversato con i sensi tutti,
condiviso, abitato d’una serie d’eco e risonanze dell’ordine dell’umano.
Raramente neutrale, si carica di forze e tensioni, si nutre di quello che passa sottilmente, impercettibilmente tra le forme, gli atti e i corpi.
Spazio che destabilizza o anima l’individuo dandosi come profondità, come densità, sempre e comunque mobilitato, investito, messo in vibrazione.
Induce a rompere le linee verticali e orizzontali raggruppando tracce interrotte, frammenti, residui, coaguli o nodi di materia vivente; rifiuta la linearità di antiche prospettive dandosi come
non–forma alla ricerca di altra, possibile definizione.
Esperienza che si rende presente nel qui e ora , irripetibile, mai identica a sé stessa, legata all’effimero del momento, al qui e all’ora dello sguardo , come esistesse al momento in cui é vista, come ci si trovasse di fronte all’avvenimento, al centro dell’esperienza soli con sé stessi.

Non-luoghi del mondo, luoghi possibili a reinventare: luoghi marginali o marginalizzati, periferici, disertati, lasciati all’abbandono o pronti per essere distrutti, luoghi che testimoniano d’una durata e si collegano a una storia. Luoghi dilatati da intersezioni di nuove forme e strutture possibili. Luoghi per espandere, dare spazio al pensiero, installazioni per dare forma al possibile. Luoghi di investimento utopico per credere alla non-riproducibilità, alla non-vendibilità di ogni cosa; per pensare quello che supera i limiti dell’attuale, del dato, dell’assorbito, dell’assunto. Spazi contro la rassegnazione, il già ricevuto, già consumato, già visto.

"L’intimo", non più assimilato al dominio psicologico, al ripiegamento sull’io
é “espressione diretta e apertura senza riserve” nella visione di Brook.
L’essere é quello che si rivela inaspettatamente, la cosa che si ignorava e che giunge a esporsi, ad assumersi, ad affermarsi quando si entra nel momento/movimento danzato. Trascende la psicologia individuale per darsi come atto, “momento impersonale che illumina l’essere senza riserve”.

Improvvisazione: per vedere il fuori-scena di un testo, di una partizione, di una frase coreografica; per andare oltre, per trovare dove il movimento, continua, da dove proviene, dove va a finire, dove si ricongiunge con la corrente fluida che lo porta, come la voce puo’ sommarsi, come il suono puo’ modificarlo, quali immagini puo’ rivelare in sé. Allenarsi per “ rendersi pronti all’imprevisto” secondo Brook: “essere disponibili a quello che avviene” in questo stato di ascolto, d’apertura ai sensi che si traduce nell’ immediatezza dell’atto improvvisato.

Cerchio/spirale/doppio: il cerchio esterno del mondo, il cerchio interno dell’io, tra i due il linguaggio, la forma, la rappresentazione.
L’unicità del centro: la completezza dove tutti i punti si ricongiungono nella perfezione di una sfera.
La spirale: forza in espansione verso l’esterno partendo da un fulcro energetico primo in un movimento circolare volgendo verso il mondo.
La figura del doppio speculare: "L’uno é forma della certezza, l’altro della relatività. L’uno permette di ritrovarsi, l’altro di evolvere” nella definizione di Brook. Come conciliare l’assoluto e il relativo, l’erranza e la stabilità,
la liquidità e la materia, il disordine e il controllo? L’impusione pura e sragionata che agisce al fondo del corpo e la forma,
la stabilità o la struttura prima che questa divenga mortale. Alla ricerca di un’armonia degli opposti.

mercoledì 25 novembre 2009

Frammenti di riflessioni sull’arte





(Antoni Tapiès) "L'arte é una fonte di conoscenza come la scienza e la filosofia. E' la grande lotta intrapresa dall'uomo per affinare senza fine la sua percezione della realtà. Questa lotta dove trova grandezza e libertà non puo' realizzarsi se si ferma a idee già formulate e realizzate”.
Parte da quelle, necessariamente, come se dovesse assorbirle, comprenderle, registrarle, trascriverle, farle parte di sé per meglio appropriarle, poi cominciare a trasformarle lentamente , immettergli la linfa o il veleno che scorre in sé,
plasmarle fino a imprimergli l'impronta delle propie mani, sempre in una infinita, inesausta ricerca attraverso la forma camminando nel varco aperto tra il mondo e la propria personalità.

(Regine Chopinot) “Un artista profondamente é poroso”, veramente ha bisogno di sentire quello che accade intorno a sé”, confrontato agli odori, ai suoni, ai rumori, al mistero della percezione e dei sensi, all'urgenza del momento, all'atmosfera del luogo, alle intemperie del presente. Vorrei parlare di integrazione e di marginalità, d'esclusione e del gioco di forze nel meccanismo di potere, di dominio e di soppruso,
di negoziazione e di ripiegamento, di compromesso e di negazione dell’alterità sotto il segno del consenso. Come rendere la marginalità in un discorso estetico, come concepire un'estetica del margine, della decentralizzazione, delle estremità pensando nei termini di “scarto, d'intervallo o di dissemblanza”(Jacques Rancière) piuttosto che d’unanimità?

(Bernard Stiegler) « l'economia libidinale di questo sistema di produzione e di consumo é giunta a fine corsa. Bisogna trovare un altro modello. »
(Jan Lauwers) « Se l'arte non é connessa con la vita, con la violenza del mondo non esiste. Allo stesso tempo deve parlare solo in un linguaggio che gli é proprio. "
(Romeo Castellucci) « La voce non é solo portatrice di un messaggio. Diviene materiale corporeo come un peso, qualcosa che puo' misurarsi. E' un materiale musicale”. Il corpo vibra, lo spazio anche perché ci sia movimento, voce, suono nello spazio materico. E' densità traversata.

(Thomas Hirschhorn )« Sono qualcuno che lavora liberamente con quello che gli é proprio; quello che mi fa muovere é l'ingiustizia, l'ineguaglianza, la ferita”,
il desiderio di vita e di morte, l' urgenza, il silenzio, il grido.
La necessità interiore, la ricerca di una propria voce, la poesia o la sua impossibilità.
La non-forma, la non-immagine del sé, la ricerca di un altro linguaggio.
Lottare contro i concetti o le gabbie strutturali che ancora oggi ci dominano,
ci intimidiscono o impediscono una libera espressione.
Quello che mi fa muovere é la storia individuale , il cammino fatto, i balzi in avanti, i salti all’ indietro, i cambiamenti di prospettiva, i tentativi alla cieca, le fughe, i ritorni.
Ipassaggi all'infinito ad occhi chiusi, le cadute inaspettate.
La lotta contro contro i limiti stringenti del sé-corpo,
l'occlusione, l'impedimento, il senso del limite.
La chiusura, la reclusione, il ripiegamento dentro un'istituzione,
un sistema di pensiero, un meccanismo di potere.
Le gabbie interiori dove restiamo troppo spesso serrati;
Le barriere psicologiche, fisiche e mentali, quelle che impediscono di trovare vie d'uscita,
quelle che impongono di trovare altri passaggi al di fuori.

Come le cose appaiono guardate dall'esterno, viste dall'interno, non-viste o condotte al limite della loro visibilità , nella distorsione delle loro forme, rispetto a come ci si aspetta debbano essere formalmente,
per come appaiono incongrue, inammissibili, non conformi rispetto alla forma costituita,
a un’abitudine consolidata dello sguardo, alla verità che rassicura, al luogo comune del discorso.

(Boris Charmatz) " Dopo una formazione praticata d'avanti allo specchio nell'influenza che l'immaginario del corpo subisce attraverso tutte le pressioni mediatiche, penso che dobbiamo lottare contro l'idea che la danza faccia parte del dominio della pura immagine.
Investe, al contrario tutto quello che il corpo puo' riuscire a toccare,
a dire sensibilmente", quello da cui é toccato, mosso o sommosso, ma anche tutto quello che lo trattiene, lo limita, lo imprigiona: le strutture sociali e gabbie ideologiche di potere a qualsiasi livello esse si manifestano, nel microcosmo dei rapporti tra gli individui oppure nel macrocosmo tra il potere e il singolo. Per questo non solo cercare nuovi gesti e immagini ma anche, ogni volta, ricordare capire, sapere fino in fondo qual’é la nostra motivazione per ___.

Qualche volta si ha bisogno di trovare uno spazio a parte, di scavarsi una nicchia interiore e gettarsi dentro, in quella solitudine , in quell'isolamento temporanei per andare a cercare, a toccare qualcosa d'altro rispetto alla realtà quotidiana, sociale, alla logica comune che riguarda i rapporti tra gli individui e il loro modo di funzionare insieme in uno spazio. Per toccare un'altra realtà al fondo di sé o meglio, fuori di sé, insospettata o che non si pensava di possedere, fuori dal proprio essere come soggettività, come identità sociale che si dà al mondo. Al rischio forse di entrare, per un momento, in una zona fuori dal tempo, di sfiorare questa zona a-parte, altra, quella dove gravitano il sogno, la memoria, il delirio, la follia e tutti gli stati che sfuggono al pieno controllo della ragione per poi riportarli indietro, ritornare dall'altra parte e restituire questa materia in una forma, nell'equilibrio di qualcosa che esiste e trova in sé una propria giustificazione estetica, che s'offre al mondo come complesso fisico e poetico.

giovedì 19 novembre 2009

A proposito di "Café Muller" di P. Bausch rivisto recentemente nel contesto di VIDEODANSE (Parigi Beaubourg )










Insorgenze di memoria, oscurità, atmosfera opaca, fumosa, grigiastra d'una Germania della memoria, della guerra fredda;
figli della generazione post-olocausto, post conflitto mondiale;
una città spaccata in due da un muro, l'astenia di un paese che ha voluto dimenticare troppo in fretta senza aver saputo fare i conti con la propria storia.
Lo spettacolo è , in un certo senso, rielaborazione d’una memoria personale e collettiva, emergenza, risorgenza poetica.

Ritorna l'atmosfera sordida, opaca, grigiastra di un interno riempito da fumo di sigarette, apertura verso un altro tempo, verso un passato intimo e collettivo.

Sedie rovesciate, il grigiore di un tempo che appiattisce e uniforma sotto una censura non apparente, la nebbia ideologica d’una nazione democraticamente ricostruita.
Atmosfera spettrale come in un sogno abitato, una sorta di surrealtà del quotidiano.
Gesti ipnotici, corpi che si risvegliano a tratti.
Interpreti appoggiati ai muri si risvegliano come se in quel frangente fossero interpellati, prestassero il loro corpo a residui sepolti di sè stessi oppure divenissero altri, revenants morti ma non completamente scomparsi,
quelli che continuano a tormentare la memoria dei viventi.

Ritorna la necessità di andare a scavare in quel “trou noir” , la necessità per questi interpreti e esseri umani in primo luogo di darsi anima e corpo, di andare a interrogare, ad aprire, a toccare quello che é rimasto non-detto, quello che è là e non puo' raggiungersi altrimenti se non attraverso immagini danzate;
immagini astratte, metafore poetiche prese fuori dal flusso di una narrazione continua,
restando come dei complessi di percezione emozionale, dei grumi di materia fisica e visiva.

L'immagine è lasciata a chi guarda: si vuole astratta, implicita, aperta a infinite interpretazioni da parte di chi la riceve. Non deve raccontare necessariamente una storia; è un frammento di materia, una sensazione consolidata come un “correlativo oggettivo” ,
un complesso emozionale e poetico che si dà in sé, che s' offre implicitamente al pubblico.

Esempio: due interpreti, un uomo e una donna, in piedi l'uno contro l'altro, fissi, immobili con gli occhi chiusi; qualcun' altro muove le braccia al loro posto , avvicina le labbra al loro posto. Sono li' come esangui, morti, addormentati,
l'uno fa cadere l'altra dalle sue braccia, lei scivola a terra e subito si rialza tornando a stringersi con forza perché tutto ricominci.
O ancora: un corpo scaglia un altro violentemente contro un muro e cosi' continuano a lungo fino a rotolare a terra. Sedie rotolano a terra, corpi rotolano a terra insieme in un'impulsione violenta che si spegne nell'immobilità. Più lontano, un'interprete femminile si denuda, le spalle al pubblico, e poi si accascia a un tavolo.

Un’immagine: un corpo femminile scarnificato, avvolto in una tunica bianca lunga fino ai piedi. Gli occhi sono chiusi, il viso illuminato da una strana luce spirituale, i capelli lunghi allacciati dietro le spalle.
I gesti sono lenti, lentissimi, abitati, vissuti in uno spazio interiore dove sembra chiuso, serrato, dove non c’è altra via d’accesso, altro passaggio possibile all’esterno . Lo sguardo volto verso l’interno a contatto con una memoria più antica, altro tempo.
C’è dolore, solitudine, l’estrema scarnificazione di un corpo serrato nel silenzio ma anche grazia, infinita volontà di riscrivere altrimenti la vita in queste onde sinuose;
“un abbraccio, una carezza, un’utopia di salvezza”[1].
un universo di desiderio e solitudine;
un movimento infinito, lento e sinuoso che coinvolge l’intero del corpo, dell’espressione.

Corpo sacrificale: si dà, s'offre, si espone nudo allo sguardo in un gesto di redenzione
diventando simbolo d'un epoca. L'immagine fa pensare ai sopravvissuti di Auschwitz, alla storia del ventesimo secolo, alla frase di Adorno su come sia possibile, ancora, concepire la poesia, su quale poesia possa esistere, oggi, dopo l'olocausto.
Se l’ immagine si situa nella nostra storia collettiva, lo spettacolo rimane un' emblema perché riunisce la dimensione più intima della memoria a quella generazionale di un'epoca, e sceglie il lirismo, la bellezza del gesto, la poesia che nasce dal dolore come una sorta di apertura nella poetica del gesto.

Parla della necessità di rivelare il volto interno della realtà visibile, dell'immediatamente leggibile , questa “ zona psichica assorbita dall'amnesia del refoulement alla quale si ha raramente accesso”[2].
Sceglie la condensazione del gesto, l'essenzialità di cio' che si rivela a fatica, con pudore, e resta assolutamente necessario all'interno d'una composizione,
allo stesso tempo illegittimo perché non giustificato nella realtà del conforme, dell'abituale, disturbando perché facendo vedere quello che, di solito, non si ha l'abitudine di mostrare.

“ Una ricerca intellettuale e insieme fisica”[3] iscritta come esperienza nella propria carne, proiettata all'esterno in una sorta di infinità del movimento, d'un movimento interno, se vogliamo li' dove nasce l'atto del movimento danzato.
L'immobilità di superficie si nutre delle correnti che ci percorrono.
“Nel silenzio del corpo le braccia seguono i suoi ripiegamenti, le sue estensioni o disarticolazioni. Ci si avvolge, ci si piega a distanza, si oscilla costantemente tra posizioni di potere e di debolezza, tra il bene e il male, tra il paradiso e l'inferno. All'immagine di una ricerca di vita sempre rinnovata”[4].







[1] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[2] Brigitte Gauthier, Le langage chorégraphique de Pina Bausch, Arche, 2009
[3] Ibid.,
[4] Ibid.,

domenica 8 novembre 2009

Omaggio a "165 anni di fotografia iraniana" , Photoquai, musée du quai Branly, Parigi
































Dopo le principali preoccupazioni documentarie che dominano il foto-giornalismo iraniano degli anni ’80 (in concomitanza alla rivoluzione islamica e alla guerra contro l’Iraq), dalla fine degli anni '90 una nuova fotografia plastica comincia ad affermarsi, più intimista e personale, mettendo in primo piano la ricerca estetica e identitaria: l’identità del singolo rispetto alla sua storia, alla sua cultura e nel confronto con l’occidente tra estremismo ideologico o religioso e ricerca di libertà. Fondamentale resta la dimensione politica, la denuncia della censura, delle ingiustizie sociali, e, soprattutto, dal punto di vista femminile, la necessità di una liberazione dalle strutture sociali repressive del passato.

Uno stile più intuitivo che metodico, immagini poetiche che ricercano soluzioni visive inedite per tradurre preoccupazioni identitarie, politiche e sociali creando un discorso alternativo in assenza di una vera e propria scuola.

Seifollah Samadian, “Obey2007
Su un’auto bruciata di cui resta solo una carcassa scalcinata bambini giocano alla guerra, una pistola puntata contro una di loro, sguardo attonito, sottomesso, piegato come se la violenza del momento fosse qualcosa di talmente scontato, naturale e quotidiano, di talmente visto e rivisto mille volte, ogni giorno, da scolpirsi sotto la pelle delle abitudini quotidiane come in un gioco rituale e crudele.
Piana deserta, arida e brulla; terra di nessuno: non ci sono adulti qui. Sullo sfondo di un paesaggio roccioso resta solo la carcassa di una vettura vuota e tre bambini che mimano quello che hanno sotto gli occhi ogni giorno, una violenza senza giustificazione, senza comprensione, senza conoscerne il senso, la piccola piegandosi attonita al volere dei due come dovrà fare più tardi mille volte nella vita, implicitamente assorbendo la nozione di quella ineluttabilità, di quella subordinazione in una gerarchia tradizionalmente dominata da uomini.

Vahid Salemi, “stade de France”, 2009
Tra tradizione e modernità, tra repressione e desiderio d'espressione,
una jeunesse éclatée sulla scia dell’occidente...
Serie di tre fotografie: ragazzi fanno il tifo con bandiere in prossimità di uno stadio su un bus polveroso e sgangherato, sullo sfondo di una metropoli disordinata, preda di un urbanesimo selvaggio,
nel contrasto tra i cartelloni in bianco e nero figuranti le autorità religiose locali e il desiderio di libertà, d'emancipazione;
come se un altro modello liberale, democratico, di partecipazione collettiva e ugualitaria volesse farsi strada, lentamente, sulla scia di una certa idealità occidentale.
Presenze di una polizia militare blindata compaiono nella seconda immagine, il contrasto tra il rosso di bandiere e il nero di uniformi , segno di una censura che riduce al silenzio.
L’ultima foto: nero contro azzurro, macchia nera del potere espansa contro la singolarità dell’individuo sullo sfondo di una serie anonima di forme grigie che si perpetuano a ripetizione come le sedie vuote di uno stadio. Il singolo arrestato in questo face à face con le forze militari,
una mano tesa in segno di minaccia a immobilizzarlo.
Sguardo sorpreso, rabbia trattenuta, sospensione tensiva colta al momento dell'affrontamento nello scatto fotografico.


Hamed Yaghmayain, “serie di tre foto, pellicola kodak” 2009
Fotomontaggio: tutto é là, visibile ma velato, celato dietro le lettere a inchiostro semi cancellate impresse sull’immagine, estratti di un quotidiano di cronaca nera raccontando la morte di qualcuno. Tra i due la pellicola di una rete rossa elastica, tesa, amplificata, deformata, tagliata in qualche punto dove compaiono macchie informi, punti o colature di colore tra le lettere.
Infine il velo dell’immagine: volto anonimo, semi-nascosto come fosse velat; volto del piacere, di una jouissance che si rivela dietro le schermo della scrittura. Nella seconda immagine gli occhi sono chiusi come in una specie di estasi dispersa nel nero di segni diluiti fino quasi a dissolvere come inchiostro sotto l'effetto d'acqua.
Terza immagine: linea rossa, la stessa che ricompare nella prima foto, sbarra la scrittura della morte con la visione di un' estasi pagana e moderna.
Dire senza dire, come esistesse una sorta di pudore insito nella rappresentazione fotografica qui,
giocando sul contrasto tra il rosso e il nero, tra le chiazze diluite di colore e i segni della scrittura attraverso il fotomontaggio;
giocando ancora sul contrasto tra la cancellazione, la morte del segno e la vita dell’immagine latente, celata attraverso la contraffazione del volto. La censura é talmente presente in questa società da divenire interiorizzata, interna al soggetto, nel suo modo di mostrare, mostrarsi, di far vedere o nascondere, di celare o rivelare.
Impronta di una repressione politica e ideologica impressa a fuoco nella mente dell'individuo fino a divenire parte integrante della sua coscienza.

Rana Javedi, “ when you were dying”, 2008

Messa in scena fittizia, costruita: collage di verdi, viola , aranci, stralci di tappezzeria, macchie di colore. Una cornice fantasista dove figure in bianco e nero emergono estratte da foto di posa degli anni '30: corpi composti, abiti da cerimonia, volti fissi, sguardi immobili, statici, quasi intimoriti di fronte alla macchina fotografica.
Fotomontaggio di volti translati, translitterati nel presente facendo rivivere ritratti d’inizio secolo con uno spirito ironico di citazione, di pastiche o di rilettura plastica.
Si tenta di riportare in vita cliché d'epoca spostandoli attraverso il tempo e lo spazio, strappandoli al loro immobilismo di posa, alla loro staticità costruita di figure per immetterli in un presente ibrido e vitale, tanto più fittizio e costruito quanto autentico.
Corpi e volti, privati della parola, ritornano come tratti di una rara presenza.


Medhi Ghasemi, "Iran" 2009

Nel controluce d'ombra di una parete grigia come fosse un'apparizione, una visione, un'immagine sacra proiettata contro un muro,
il profilo di una donna avvolta in un velo, un'apparizione rubata al caso, sorpresa nel controluce d'un muro, niente più che un'ombra, un profilo, un'icona assolutamente irreale, immateriale, de-soggettivizzata.
Metafora stessa dello schermo, del velo o ancora della pellicola sottile che l'immagine poetica, visiva o fotografica costituisce rinviando al sogno e al fantasma, lasciando il campo aperto alle divagazioni del caso,
ai detriti dell'incosciente, ai salti dell'immaginazione.




Mehranet Atash, “Teheran self-portrait” 2008-09

Come nella serie precedente dell'artista, “bodyless”, la preoccupazione identitaria resta in primo piano , riflesso del corpo femminile alla ricerca di una definizione del sé contro gli specchi deformanti di un modello sociale patriarcale e repressivo.
Alle spalle, il ritratto di una città lasciata a un' urbanesimo disordinato dove la popolazione é triplicata in meno di trent’anni. Sfruttando la coincidenza di una macchina fotografica difettosa, la cattiva esposizione dell'immagine crea effetti flu
colori falsati da lenti verdi o rosse confondono, modificano o mascherano il senso della rappresentazione.
Volto in primo piano: effetto surreale contro lo sfondo anonimo di una città. L'immagine interna si rivela poi, il ritorno alla realtà:
colori opachi qui ,
una certa apprensione si disegna leggibile sul volto
un attimo di sospensione, un niente quasi ,
lo scatto come questa sorta di vertigine, un attimo rubato ai sensi.
Ancora un effetto rosso, allucinante della figura in primo piano nella terza foto: qualcuno si cerca nel riflesso di uno specchio là fuori fissando un'immagine estranea di sé.
Atto primo : sorpresa.
Atto secondo: angoscia.
Atto terzo: sospensione, veridicità, presenza.

Velo, velare, volto, velatura, svelamento; coprire o lasciar intravedere;
l'atto di celare o svelare deliberatamente, atto che porta in sé una propria ambiguità di fondo,
il velo come un simbolo di chiusura, di repressione, di silenzio per la donna islamica ma anche come parte integrante di una cultura, intimamente assimilato all’immagine del sé preso nel conflitto tra la radicalità di una tradizione e lo slancio verso l’emancipazione, l’affrancamento. Qui, deliberatamente il velo dell'immagine,
traslato nell’ambito della rappresentazione,
velo che avvicina nella misura in cui tiene a distanza,
schermo che chiarifica nella misura in cui nasconde,
metafora al cuore del processo fotografico come al centro della nuova fotografia plastica iraniana.




lunedì 26 ottobre 2009

Surrealismo e immagine poetica ( "la sovversione delle immagini ")








Jean Cocteau: « il mestiere del poeta, mestiere che non s’apprende, consiste a spostare gli oggetti del mondo visibile, divenuti invisibili per l’occultamento dell’abitudine, in una posizione insolita che colpisce lo sguardo e l’anima e restituisce loro il senso della tragedia. Si tratta di compromettere la realtà, prenderla di contropiede, inondarla di luce e, all’improvviso, obbligarla a dire quello che normalmente nasconde ».

Aragon: « Surrealismo é l’impiego sragionato e passionale dello stupefacente immagine o piuttosto la provocazione senza controllo dell’immagine per essa stessa e per quello che scatena nel dominio della rappresentazione di perturbazioni imprevedibili alla coscienza e di metamorfosi inattese. Ogni immagine, all’atto decisivo del suo manifestarsi, deve obbligarci a rivalutare l’intero universo. »

Immagine: rappresentazione mentale, trascrizione verbale, creazione fantomatica, sintesi visiva. Elaborazione psichica complessa, perlopiù incosciente, a partire dai dati del sensibile, del sentire, della sensazione. Illuminazione improvvisa attraverso le tenebre.
Ricostruzione, infine, del senso di un’esperienza passata.

Pierre Reverdy: « Immagine: una pura creazione dello spirito. Avvicinamento di due realtà più o meno distanti; più il rapporto tra due realtà prossime sarà messo in prospettiva, e quindi giusto, più l’immagine sarà forte, avrà potenza emotiva e realtà poetica ».

Un linguaggio reinventato: una parola tornata « allo stato nascente » in un rapporto analogico alla realtà. Una parola sul bianco di una pagina,
un corpo nel vuoto di una scena, avvolti nel silenzio di un' attesa.
Il surrealismo prendendo di contropiede la legge della causalità, il principio di identità, le norme della piccola psicologia individuale cerca l’immagine irrazionale del mondo, la presenza di segni del visibile a decriptare, l’esistenza di un pensiero incosciente, che puo’ sorgere, manifestarsi ad ogni istante, non anteriore ne esteriore al linguaggio che lo porta e che solo puo’ rivelarlo. Seguendo una coerenza altra dalla logica del nostro vivere quotidiano.


Scrittura automatica come « pensiero non diretto »(Breton),
jaillissement soudain de l‘être, spontané, intable, absolu.
Improvvisazione , forma irriflessa d’espressione,
abstaite, atemporelle, la plus éloignée possible de l‘accident qui l‘a générée ;

momento particolare dove l’uomo é all’improvviso afferrato da “ce plus fort que lui “.



« Scatola a multiplo fondo » fatto di finti passaggi, deviazioni di percorsi, porte che s’aprono su altre porte all’infinito, pareti dove si sono accumulati strati su strati di vernice, corridoi tortuosi, cunicoli sotterranei, ritorni temporanei alla luce, scalinate che conducono non si sa bene dove, labirinti di visioni senza trovare vie d’uscite.
Le chiavi per aprire tale edificio a multiple entrate sono la materia dei sogni, la scrittura automatica e tutti quegli stati alterati di coscienza che possono diventare veicolo potenziale di creazione artistica.

L' immagine poetica è per Breton una “straordinaria aggregazione di scintille come uno di quei tratti fulminanti che legano improvvisamente elementi cosi' distanti in natura che la ragione rifiuterebbe di mettere in relazione”. L'immagine poetica è dunque ricondotta alla metafora dell'elettricità: associata al sogno, alla fase tra il sonno e la veglia, al momento della scrittura automatica, si identifica con “ il contatto di elementi caricati elettricamente”. Nasce “dal fulcro di questi campi di forze” creati dall'immaginazione per l'avvicinamento di polarità opposte, di cariche uguali e contrarie attirandosi e respingendosi nell'infinito passaggio dall'una all'altra. Tale avvicinamento permette allo sguardo di sollevarsi oltre la considerazione data alla vita manifesta dell'oggetto”.














martedì 20 ottobre 2009

"La sovversione delle immagini: surrealismo, fotografia e film", Paris, Centre Pompidou































Il reale, il surreale, il casuale.La surrealtà puo' essere contenuta nella realtà stessa come si trattasse di « vasi communicanti », di un fluido energetico e vitale che corre tra il reale e l'inatteso, sorprendente perché rivelato nella misura di una propria giustezza interiore.
L’ artista diventa flaneur, accumulatore di oggetti eterocliti trovati restando all'ascolto delle coincidenze del momento.

Brassai: « il surrealismo nelle mie immagini é il reale arreso al fantastico della visione. Cervavo di esprimere la realtà perché non vi é nulla, infine, di più surreale ».

Cartier-Bresson: « Ho un debito con il surrealismo perché mi ha insegnato a lasciare l'obbiettivo scavare tra i detriti dell'incosciente e dell’accidentale».

Artur Harfaux: « solo la creazione conta , non quella dell'individuo ma quella del caso,
il caso straordinario che lascia intravvedere la portata allucinatoria dell’immagine usuale. »

Brassai, FOTOGRAFIE DI GRAFFITI (1933): « poesia involontaria »,
« Prelevamenti bruti » di oggetti, ingenui o magici, innocenti e perturbanti,
innocui e evasivi, investiti di un senso altro che tuttavia resta oscurato in parte.
« Oggetti trovati » dal caso.

I muri di Parigi fanno sentire le loro voci, il loro mormorio incessante di sossulti e grida,
di ansiti e respiri, di lacrime trattenute e incrostazioni di materia.
Graffi, graffiti e abrasioni, sono segni che parlano d'altro,
incisioni di memoria, meteoriti esplose di tempi lontani, , impossibili a collocarsi,
se non come residui e aderenze in un eco infinito di voci.
Parlano molteplici linguaggi; i messaggi sono spesso anonimi, confusi. Ripetono incessantemente dettagli, frammenti d'esperienza come meccanismi a ripetizione che s’urtano senza sosta tra loro, Iniziano a volgere a  una velocità incontrollata fino a esplodere in una miriade di frammenti sparsi fluttuanti, alla deriva.














Conciliare la visione interna con la realtà esterna: la fotografia si pone come medium alla ricerca di questa unificazione esplorando la tecnica fotografica come il proprio interno potenziale psichico.

Karel Teige: « Bisognerebbe avere la possibilità di fotografare il mondo dal « di dentro ». Diventeremo placche sensibili in uno stato indefinibile simile a quello del sonno o del sogno a costo di captare le immagini fluttuanti in noi ».
Roland Penrose: « ogni fotografia fissando il mondo con uno sguardo che per sua acuità e perspicacia supera la visione scontata che tutti possiamo avere della realtà possiede necessariamente delle qualità poetiche ».

Come defamiliarizzare la figura, perturbare la percezione, mettere in discussione la forma data, aprire lo sguardo a una nuova lettura del visibile? I surrealisti sperimentano con solarizzazioni e  abrasioni, deformano i negativi per distocere le figure.
I corpi appaiono presi nello specchio della loro interna visione, nel rifiuto di
definirsi, liquidi, espansi, senza confini, ne forma finita a trattenerli.

Raul Ubac: « la fotografia oggettiva non mi interessa. Spiavo le coincidenze dovute ai ratages, ai residui d'esperienza. Sfruttavo il fenomeno del brulage, che consiste a far fondere progressivamente il negativo sottoposto a fonte di calore.
La forma diventa quasi irriconoscibile. L'immagine iniziale é metamorfizzata rivelando un'altra immagine, latente, e poi, un'altra ancora, diverse altre sovrapposte nelle stratificazioni del tempo e che operazioni dovute all'intervento fortuito di elementi diametralmente opposti quali il fuoco e l'acqua permettono di rivelare bruscamente. La serie « Pantasilée » del 1938 fa sorgere contorni di corpi nello spessore di mura usurate dal tempo, sgretolate dagli agenti atmosferici, intaccate dall'intervento d'elementi estranei.


Sulla Bellezza

« La bellezza é ritmo, vale a dire movimento associato a una forma che da al reale la sospensione gioiosa del movimento ».
« E' dall'avvicinamento in qualche modo casuale di due termini che sgorga una luce particolare, interna all'immagine alla quale siamo infinitamente sensibili. Il valore dell'immagine dipende dalla bellezza della scintilla ottenuta. E ' funzione del differenziale dato nella portata potenziale dei due conduttori"
Brassai: « il paesaggio e l'oggetto non hanno in effetti bisogno di alcun abbellimento. Niente é più bello o più profondo che la loro propria realtà. Perché avvolgerli dei nostri sentimenti individuali, perché immergerli in quel collante appicicoso che chiamiamo anima? Chi non ha paura della parola abbellire, chi non conosce l'esitazione che precede l'atto di attaccare la materia non ha capito nulla della fotografia ».


Man Ray « Eros é la vita »
L 'immagine come " eterno l'enigma del corpo femminile”, illuminato dalla sensualità dell'eros, diventa “veicolo privilegiato per accedere a una forma di conoscenza superiore ", percorrendo una via contraria a quella della ragione.
Il desiderio e il caso rappresentano i due modi favoriti di tale esplorazione.
Il fotografo sfutta « il fuggitivo, il circostanziale, l'accidentale»: il riflesso di una figura in uno specchio, la deformazione di un'ombra come un dettaglio che si impone perentoriamente su una superficie.

Corpo e movimento
"Un corpo portato al silenzio paradossalmente parla per altra via". Mosso, illuminato dalle ombre che lo ricoprono nelle vie del sogno.
E' sempre un corpo che parla, aprendosi a una forma di conoscenza che solo l'arte puo' offrire. Anche quando fa schermo e si protegge dall'esterno, oppure si trova preso in trappola, chiuso dentro la « cage intérieure », dove si vede costretto, impedito nel suo slancio vitale.
E' sempre un corpo che parla, che s'apre, paradossalmente, a un'altra forma di conoscenza, di libertà se possiamo dire, giustamente perché oppresso da queste forze stringenti, trappola occlusiva di un “troppo” di pressione interna, di circoli chiusi che a un certo momento trovano modo di corto-circuitare, di creare un'eclosione e aprire un varco, violento, verso un « al di fuori». Qualcosa prende il sopravvento tracciandosi, iscrivendosi come ritmo e movimento contro le forze contrarie, le cariche energetiche e potenzialmente distruttive che lo stingono al di dentro.



domenica 11 ottobre 2009

Fotografia e inconscio















L’immagine fotografica come traccia[1].
L’impronta é semplice attestazione di un passaggio, la traversata fugace di uno specchio, qualcuno precipitatosi frettolosamente in un luogo senza aver assicurato l’atto della sua presenza. Non risulta dal desiderio di un’iscrizione ma solo della messa in contatto tra un oggetto e una superficie ricevente. La traccia attesta, al contrario in chi l’ha lasciata, il desiderio di realizzare un’iscrizione permanente, la vera e propria presenza della Cosa in sé, materializzazione attraverso i segni di un corpo o quelli impressi su una tela;
il passaggio, ancora, dal negativo di una camera oscura al positivo di una superficie riflettente.
E’ come "l’eterna dichiarazione d'amore" d'un corpo danzante preso nella continuità del movimento, abbandonanato al ritmo segreto delle sue leggi secondo un fantasma di inclusione arcaica.

Lasciare una traccia, opaca, indecifrabile o non immediatamente leggibile, sia essa grafica, fisica o visiva, fotografica o danzata, è tentare di iscrivere, in permanenza l’espressione di quel primo desiderio. Cercare precisamente questa concordanza o “ adeguazione fisica del sé alla struttura ritmica del mondo"[2].

Quello che il soggetto lascia volontariamente intravvedere di sé in una traccia,
quello che in essa a sua volta lo sorprende, lo afferra, lo rivela
nell'apertura inaspettata che non sapeva di possedere.

In fondo a ogni immagine si cerca una presenza a sé, un proprio riflesso al mondo. Il desiderio di costituire un’immagine dell'altro attraverso la fotografia intesa come specchio riflettente di uno quarcio di reale intriso del collante ideologico che lo sottende, va di pari passo con il bisogno intimo di “provare la propria esistenza”.
Sempre, attraverso la relazione privilegiata all’immagine, il soggetto tenta d'assicurarsi di quel primo sguardo nel quale ha visto per la prima volta la forma del sé riflessa nell'altro, riconoscendo, in questo modo, il suo “esserci", essere là, al mondo, come presenza.
Un doppio movimento risulta, allora, dal lavoro fotografico: ispira il mondo attraverso le sue immagini e si lascia, a sua volta, inspirare da quello. Non é semplice cattura di un oggetto o di uno sguardo ma “ continuità dell’essere e del mondo nella loro reciproca separazione e ri-connessione permanente ”[3].

“Eikon/similitudo” . L'immagine in greco non é somiglianza ma “assemblare frammenti di bello dispersi in natura per comporre l'idea di bello in sé”.
“Similitudo” in latino implica l’idea di somiglianza come l’immagine di una maschera mortuaria ricalcata sul volto dello scomparso. L’imago qui é immediatamente compresa in un rapporto di sostituzione con quello che rappresenta e che resta, tuttavia, irrimediabilmente perso, lontano, irraggiungibile.

Sollecitazione del corpo intero nella fotografia. Per Cartier-Bresson il momento dello scatto é come una “gioia fisica, danza, tempo e spazio riuniti”. Weston parla di sensazioni tattili, di gusto, di odori, perfino delle mutazioni sottili del tempo atmosferico agenti al momento della presa delle sue fotografie più sensuali.



























La luce. Fa della fotografia il luogo privilegiato della trasfigurazione. Se l'immagine fotografica è per eccellenza “scrittura della luce”, essa rimanda, immediatamente, alla metafora di una luce divina come unione tra cielo e terra ricongiungendosi al senso mistico e religioso della rivelazione.
Per il suo rapporto privilegiato alla trasfigurazione la fotografia é tra le arti che sfiorano più da vicino il Sacro; ma, anche, si posiziona in una sfera di estraneità, di impersonalità, se vogliamo in quella distanza che gli permette di arrivare ad un'“apprensione simbolica” del mondo, ad una figurazione astratta del reale.
Fotografando ci si nasconde, si parla attraverso le cose, si manipola attraverso la scelta dei punti di vista, degli angoli, dell’obbiettivo, ma ci si ritrova a propria volta presi, sorpresi di fronte al mistero degli esseri e delle loro forme in mutazione,
sedotti da una bellezza che non ci si attendeva di trovare.


Il rapporto della fotografia alla morte.L'immagine fotografica rappresenta una realtà che é esistita ma che é scomparsa, dandomi ancora l’impressione che sia li’, vivente di fronte ai miei occhi. L'atto di figurare, in un primo caso, svolge un lavoro di separazione dall'oggetto scomparso. Diversamente, si sostituisce alla sua assenza creando un circolo infinito di introiezione dell'oggetto che impedisce implicitamente la sua liquidazione, il suo lutto definitivo. La morte, allora, resta presente nell’immagine, vivente e come rivissuta costantemente attraverso quella.
Esiste, infine, una terza possibilità: la trasfigurazione dell’oggetto fino al punto di renderlo visibile con una intensità che sarebbe stata impossibile cogliere al suo vivente. La luce che irradia la fotografia diventa, qui, metafora della vita interiore dell’ immagine in quanto opposta alla morte dell' oggetto reale che l'ha prodotta.







































L’immagine sfuocata.
E’ segno di una percezione parziale, effimera, inaffidabile del soggetto preso dentro le fluttuazioni della propria vita interiore, immerso nel fluido magnetico del sentire che lo porta, ai margini della razionalità, come in uno stato d’oscillazione costante simile a quella che lo coglie vagando tra il sonno e la veglia,
e ancora spostandosi attraverso il magma denso del ricordo.
L'immagine sfuocata conferisce all’oggetto della memoria una fluidità di contorni simile a quella data dall' intrusione di componenti non visive, sensibili, emotive alla cosa figurata.
Vacilla tra la cancellazione parziale dell’oggetto e il divenire, la sua eterna trasfigurazione.
Se da una parte fissa un’ombra, la finitudine di qualcosa di ineffabile, incerto, allucinatorio dall’altra “testimonia l’infinita fluttuazione delle cose”[4] immerse nel fluido erotico e vitale del loro essere-in-vita.



[1] Serge Tisseron, Le mystère de la chambre Claire, Photographie e Inconscient, Archimbaud.
[2] Ibid., Tisseron

[3] Ibid., Tisseron

[4] Ibid., Tisseron