domenica 8 novembre 2009

Omaggio a "165 anni di fotografia iraniana" , Photoquai, musée du quai Branly, Parigi
































Dopo le principali preoccupazioni documentarie che dominano il foto-giornalismo iraniano degli anni ’80 (in concomitanza alla rivoluzione islamica e alla guerra contro l’Iraq), dalla fine degli anni '90 una nuova fotografia plastica comincia ad affermarsi, più intimista e personale, mettendo in primo piano la ricerca estetica e identitaria: l’identità del singolo rispetto alla sua storia, alla sua cultura e nel confronto con l’occidente tra estremismo ideologico o religioso e ricerca di libertà. Fondamentale resta la dimensione politica, la denuncia della censura, delle ingiustizie sociali, e, soprattutto, dal punto di vista femminile, la necessità di una liberazione dalle strutture sociali repressive del passato.

Uno stile più intuitivo che metodico, immagini poetiche che ricercano soluzioni visive inedite per tradurre preoccupazioni identitarie, politiche e sociali creando un discorso alternativo in assenza di una vera e propria scuola.

Seifollah Samadian, “Obey2007
Su un’auto bruciata di cui resta solo una carcassa scalcinata bambini giocano alla guerra, una pistola puntata contro una di loro, sguardo attonito, sottomesso, piegato come se la violenza del momento fosse qualcosa di talmente scontato, naturale e quotidiano, di talmente visto e rivisto mille volte, ogni giorno, da scolpirsi sotto la pelle delle abitudini quotidiane come in un gioco rituale e crudele.
Piana deserta, arida e brulla; terra di nessuno: non ci sono adulti qui. Sullo sfondo di un paesaggio roccioso resta solo la carcassa di una vettura vuota e tre bambini che mimano quello che hanno sotto gli occhi ogni giorno, una violenza senza giustificazione, senza comprensione, senza conoscerne il senso, la piccola piegandosi attonita al volere dei due come dovrà fare più tardi mille volte nella vita, implicitamente assorbendo la nozione di quella ineluttabilità, di quella subordinazione in una gerarchia tradizionalmente dominata da uomini.

Vahid Salemi, “stade de France”, 2009
Tra tradizione e modernità, tra repressione e desiderio d'espressione,
una jeunesse éclatée sulla scia dell’occidente...
Serie di tre fotografie: ragazzi fanno il tifo con bandiere in prossimità di uno stadio su un bus polveroso e sgangherato, sullo sfondo di una metropoli disordinata, preda di un urbanesimo selvaggio,
nel contrasto tra i cartelloni in bianco e nero figuranti le autorità religiose locali e il desiderio di libertà, d'emancipazione;
come se un altro modello liberale, democratico, di partecipazione collettiva e ugualitaria volesse farsi strada, lentamente, sulla scia di una certa idealità occidentale.
Presenze di una polizia militare blindata compaiono nella seconda immagine, il contrasto tra il rosso di bandiere e il nero di uniformi , segno di una censura che riduce al silenzio.
L’ultima foto: nero contro azzurro, macchia nera del potere espansa contro la singolarità dell’individuo sullo sfondo di una serie anonima di forme grigie che si perpetuano a ripetizione come le sedie vuote di uno stadio. Il singolo arrestato in questo face à face con le forze militari,
una mano tesa in segno di minaccia a immobilizzarlo.
Sguardo sorpreso, rabbia trattenuta, sospensione tensiva colta al momento dell'affrontamento nello scatto fotografico.


Hamed Yaghmayain, “serie di tre foto, pellicola kodak” 2009
Fotomontaggio: tutto é là, visibile ma velato, celato dietro le lettere a inchiostro semi cancellate impresse sull’immagine, estratti di un quotidiano di cronaca nera raccontando la morte di qualcuno. Tra i due la pellicola di una rete rossa elastica, tesa, amplificata, deformata, tagliata in qualche punto dove compaiono macchie informi, punti o colature di colore tra le lettere.
Infine il velo dell’immagine: volto anonimo, semi-nascosto come fosse velat; volto del piacere, di una jouissance che si rivela dietro le schermo della scrittura. Nella seconda immagine gli occhi sono chiusi come in una specie di estasi dispersa nel nero di segni diluiti fino quasi a dissolvere come inchiostro sotto l'effetto d'acqua.
Terza immagine: linea rossa, la stessa che ricompare nella prima foto, sbarra la scrittura della morte con la visione di un' estasi pagana e moderna.
Dire senza dire, come esistesse una sorta di pudore insito nella rappresentazione fotografica qui,
giocando sul contrasto tra il rosso e il nero, tra le chiazze diluite di colore e i segni della scrittura attraverso il fotomontaggio;
giocando ancora sul contrasto tra la cancellazione, la morte del segno e la vita dell’immagine latente, celata attraverso la contraffazione del volto. La censura é talmente presente in questa società da divenire interiorizzata, interna al soggetto, nel suo modo di mostrare, mostrarsi, di far vedere o nascondere, di celare o rivelare.
Impronta di una repressione politica e ideologica impressa a fuoco nella mente dell'individuo fino a divenire parte integrante della sua coscienza.

Rana Javedi, “ when you were dying”, 2008

Messa in scena fittizia, costruita: collage di verdi, viola , aranci, stralci di tappezzeria, macchie di colore. Una cornice fantasista dove figure in bianco e nero emergono estratte da foto di posa degli anni '30: corpi composti, abiti da cerimonia, volti fissi, sguardi immobili, statici, quasi intimoriti di fronte alla macchina fotografica.
Fotomontaggio di volti translati, translitterati nel presente facendo rivivere ritratti d’inizio secolo con uno spirito ironico di citazione, di pastiche o di rilettura plastica.
Si tenta di riportare in vita cliché d'epoca spostandoli attraverso il tempo e lo spazio, strappandoli al loro immobilismo di posa, alla loro staticità costruita di figure per immetterli in un presente ibrido e vitale, tanto più fittizio e costruito quanto autentico.
Corpi e volti, privati della parola, ritornano come tratti di una rara presenza.


Medhi Ghasemi, "Iran" 2009

Nel controluce d'ombra di una parete grigia come fosse un'apparizione, una visione, un'immagine sacra proiettata contro un muro,
il profilo di una donna avvolta in un velo, un'apparizione rubata al caso, sorpresa nel controluce d'un muro, niente più che un'ombra, un profilo, un'icona assolutamente irreale, immateriale, de-soggettivizzata.
Metafora stessa dello schermo, del velo o ancora della pellicola sottile che l'immagine poetica, visiva o fotografica costituisce rinviando al sogno e al fantasma, lasciando il campo aperto alle divagazioni del caso,
ai detriti dell'incosciente, ai salti dell'immaginazione.




Mehranet Atash, “Teheran self-portrait” 2008-09

Come nella serie precedente dell'artista, “bodyless”, la preoccupazione identitaria resta in primo piano , riflesso del corpo femminile alla ricerca di una definizione del sé contro gli specchi deformanti di un modello sociale patriarcale e repressivo.
Alle spalle, il ritratto di una città lasciata a un' urbanesimo disordinato dove la popolazione é triplicata in meno di trent’anni. Sfruttando la coincidenza di una macchina fotografica difettosa, la cattiva esposizione dell'immagine crea effetti flu
colori falsati da lenti verdi o rosse confondono, modificano o mascherano il senso della rappresentazione.
Volto in primo piano: effetto surreale contro lo sfondo anonimo di una città. L'immagine interna si rivela poi, il ritorno alla realtà:
colori opachi qui ,
una certa apprensione si disegna leggibile sul volto
un attimo di sospensione, un niente quasi ,
lo scatto come questa sorta di vertigine, un attimo rubato ai sensi.
Ancora un effetto rosso, allucinante della figura in primo piano nella terza foto: qualcuno si cerca nel riflesso di uno specchio là fuori fissando un'immagine estranea di sé.
Atto primo : sorpresa.
Atto secondo: angoscia.
Atto terzo: sospensione, veridicità, presenza.

Velo, velare, volto, velatura, svelamento; coprire o lasciar intravedere;
l'atto di celare o svelare deliberatamente, atto che porta in sé una propria ambiguità di fondo,
il velo come un simbolo di chiusura, di repressione, di silenzio per la donna islamica ma anche come parte integrante di una cultura, intimamente assimilato all’immagine del sé preso nel conflitto tra la radicalità di una tradizione e lo slancio verso l’emancipazione, l’affrancamento. Qui, deliberatamente il velo dell'immagine,
traslato nell’ambito della rappresentazione,
velo che avvicina nella misura in cui tiene a distanza,
schermo che chiarifica nella misura in cui nasconde,
metafora al cuore del processo fotografico come al centro della nuova fotografia plastica iraniana.




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