martedì 25 agosto 2015

Immagini di sculture in movimento al Mic di Faenza (59 Premio Internazionale ) II parte











L’interno d’una conchiglia blu, (Shinya Tanoue, “Shell 14”) è modellata con riflessi azzurro indaco, lucida, intensa e scintillante come la profondità del mare, come l’azzurrità dell’acqua, come i minuscoli sassolini di pietra sabbiosa che ancora ne ricoprono i fondali. E’ vista nell’atto di dischiudersi in una forma avvolgente, aperta e levigata dal suo centro evocando l’idea d’un vortice che s’apre verso l’esterno in linee morbide, sferiche e sinuose della tonalità cristallina dei fondali, dei diamanti puri o non ancora intaccati da altri depositi sedimentari.

“The start of a life” (Yuri Fukuoka) sono macchie di colore  blu-Klein richiamando alla memoria le sue sperimentazioni là dove nuove antropometrie del blu sopraggiungono su una tela ceramica cosparsa di granuli di sabbia come primarie forme di vita scaturite dalle acque.
E’ intenso, granulare cobalto diluito in trasparente acquarello come gocce lasciate dal tintinnare della pioggia su un suolo sabbioso che poi divengono impronte violente allo scrosciare d’una tempesta estiva. In ondate diluite e vorticanti un tumulto di corrente blu  attraversa la superficie ruvida della sabbia ceramica.

Lettere dell’alfabeto su un muro si iscrivono in grafia contorta e circolare come il vorticare fluido del movimento sullo spazio d’una parete (“Movements”, Simcha Even Chen) ora in nera trama di parole e frasi dell’ inizio potenziale d’ogni racconto,  ora come cellula embrionale al momento del suo venire alla  luce e abbozzarsi appena all’orizzonte. Matrice di tutti gli inizi possibili, di tutti gli incipit potenziali di opere in loro stesse inesistenti o solo immaginate.

 
Dormono sulla collina”(Silvia Granata) pulviscoli di lucciole, nugoli o nidi di minuscoli  insetti, punti luminosi se visti a distanza come un reticolo in espansione da un centro in rilievo; si aggregano dal loro fulcro ocra e propulsivo a isola, ad arcipelago, ad agglomerato satellitare e crescente di forme luccicanti e immaginifiche nell’oscurità .









Ogni pianta ha una radice”, (Gabriella Sacchi) suolo, alberi e terra prendono vita da quella, radice, anche, in quest’opera come incisione, segno scritto, unita minima e irriducibile di significato nel linguaggio da cui prende vita la linfa della parola. Note scritte,  foglietti volanti e leggeri in porcellana sono appesi come post-it alla parete-opera, poi fogli in ceramica simili a ex-voto sono deposti da anonimi passanti e ricomposti uno di seguito all’altro in un collage verde, ocra e oro.  La natura è intrappolata dentro superfici bianche e semitrasparenti di porcellana nella scultura di Bianca Piva:  le radici disegnano una genealogie della terra in linee ondulate e astratte sui vasi. Un grande insetto kafkiano appare in ferro e smalto ceramica, (Mattia Vernocchi), una farfalla catturata dentro una cornice di vetro, serpenti e forme striscianti uscendo in trompe l’oeil dalle pareti delle anfore (Elisa Confortini, Naturalia). Nella serie della Confortini seguono  insetti, forme larvali, bozzoli di farfalle appese con spilli  a una parete trasparente, il blu indaco o l’azzurro turchese intrappolati entro scatole craniche o rinchiusi in cornici di scultura ceramica.

Smalti fantasiosi e invasivi compaiono dipinti su corazze di tartarughe in rilievo in  argille lavorate di vasi che assumono forme inusuali, non-finite ovoidali o concave. “Cortecce vive” (Marie Laure Gobat Bouchat) in porcellana come parti in vivisezione di alberi sono avviluppate e intessute nella “polpa” rigogliosa della lana che restituisce soffice morbidezza alla pietra, e promessa di nuova vita alla corteccia dissecata e incisa a vivo dei tronchi.  
Un nodo di “elastici” scolpiti in terracotta dipinta(Davide Monaldi) divengono forme flessuose, fluide, ripiegabili e colorate simili a  un nugolo di corpi snodati, a un nodo di elastici colorati pronti a legarsi o a slegarsi. Sono elastici di fili perduti, che perdiamo e ritroviamo costantemente come la trama delle nostre esistenze: forme fluttuanti e sinuose modellate fino a far vibrare l’argilla in movimenti plastici e danzanti.

   

 


 




Il volto del contemporaneo attraverso la scultura ceramica ( 59 Premio Internazionale al Mic di Faenza) I Parte














Immagini libere a partire da alcune opere..










Silvia Celeste Calcagno, “Interno8"

Un abito a fiori ricompare in diverse immagini e posture mentre parti del corpo femminile  sono inquadrate sensualmente in primissimo piano frammentate o in dettaglio: piedi o lembi di gambe nude, ginocchia o mani intrecciate, scarpe nere o tacchi da sera , braccia o capelli lievemente sfiorati dall’acqua. Piccole piastrelle ceramiche si combinano l’una all’altra nel montaggio come moduli di grès stampati a fuoco accompagnati dal sottofondo audio della voce narrante fuori campo mentre una figura femminile è vista immergersi o avvicinarsi a una vasca da bagno. Visioni ravvicinate o a distanza, i dettagli del corpo sono intravisti attraverso un abito di seta, leggero e svolazzante, inquadrato in immagini sfuocate come attraverso una lente opaca  che distanzia, ricopre e filtra le medesime riportandole a  un’epoca indefinita del passato, a un’ambientazione vaga o  a una figura a metà cancellata dalla memoria. Il bagno rituale evoca l’abbandono o il riavvicinamento all’acqua, un tentativo  di re-immersione o ritorno al suo elemento primario, simbolicamente inteso come un rito di purificazione, di rinnovamento e rinascita passando attraverso una fonte quasi battesimale. L’immagine, tuttavia, resta ancorata al passato, a un’epoca precedente quasi scandendo un’esistenza che risorge dall’oblio, che lotta come questi frammenti di memoria, come queste parti di corpo separate e infrante per risorgere e tornare poeticamente alla vita, in dettagli, a bagliori e non fosse che per qualche istante. Una voce fuori campo ripete in una registrazione audio, ipnoticamente all’infinito, una serie di immagini  in associazione libera, totalmente aleatoria  nel tentativo quasi, dice, di “abortire” , o meglio abolire o obliare un viso. Quasi che volesse consegnare all’oblio la sua  immagine semi-sbiadita e insieme avvolgere quell’oblio in un grido disperante, pieno di rabbia e  di ardore, malgrado  la rivolta, verso la vita: “su un ritratto sbiadito, su una danza inadeguata, su uno sguardo rubato, su un sorriso forzato, su una fiamma interrotta, su un livido viola, su una folla impazzita”, afferma la voce, “io abortirò il tuo viso”.  “Su un tappeto di pietra, su un cuscino macchiato, su una tenda strappata, su una foto ingiallita , sul coraggio di una scelta io abortirò il tuo viso”; "sul disordine del quotidiano, su un tappeto arrotolato, su labbra disegnate, su una sedia barocca, su un ritratto schermito, su un volto invasivo io griderò alla vita”. "Su una domenica imperfetta, su una rosa impazzita, su un mare in tempesta, su uno stivale borchiato, sulla  costanza d’una promessa io griderò alla vita” afferma il monologare della voce  fuori campo mentre una serie di immagini scorrono, disconnesse  e insieme investite d’una soggettività impersonale, d’una fragilità esposta, che si rende tangibile pur restando celata tra le righe nel montaggio delle minuscole fototessere.





Yves Malfliet, “Somewhere...over the montains”



“L’immagine d’una casa florida su una montagna, il sentimento famigliare nella combinazione dualistica del bianco e del nero, immagini in movimento d’un combattimento aereo”.

Una casa si erge sulla cima di una montagna che assomiglia a un dirupo, oro e nero, pietra arenaria intensamente scolpita con venature di folgore smeraldo, e l’oro di rifiniture che divengono chiome d’alberi, comignoli, estremità contorte e scintillanti sporgendosi dalle asperità della roccia. Su uno schermo contro un muro l’espansione immaginifica della scultura si proietta in immagini in movimento in bianco e nero che evocano combattimenti aerei e aviatori durante la prima guerra mondiale, voli oceanici, un dirupo e una collina, una casa e una guerra sullo sfondo della grande storia. L’estremità di braccia si sollevano sporgendosi in grida d’invocazione verso l’esterno, in cenni di braccia levate mentre l’oro, appare come l’ultimo baluardo di salvezza in dualistica opposizione all’oscurità granitica della pietra smaltata e riflettente.










Paolo Polloniato, “Metamosaic”: Una parete di mosaico andata in frantumi, del bianco e del sale.
La terra è arsa, prosciugata dall’acqua del mare, rimasta frastagliata, rotta in crepe irregolari come i frammenti della ceramica dissecata dal sole e impregnata dalla salinità del suolo anche quando il mare se n’è andato. L’infinità della terra, la secchezza della pietra, la solarità di quella regione calda e afosa battuta dal vento e dall’aridità della stagione estiva.

Thomas Stollar , “Steps” I primi passi creano forme irregolari, costituiscono dei percorsi tortuosi a mattonelle disegnate, dei circuiti chiusi dove non sono chiari né l’inizio né la fine. I primi passi in ogni dove creano dei tracciati provvisori con dei vuoti all’interno e degli spazi bianchi da riempire: delle forme approssimative, soggette ancora o in fase di rimaneggiamento, di interne evoluzioni o rivoluzioni. Disegnano delle regioni plastiche disabitate o in attesa di altre frequentazioni, delle terre di confine, degli arcipelaghi o delle isole dalla circumnavigazione incerta e possibile, non ancora definita. Questi passi, i primi in ogni campo in cui ci si muove e si prende terreno designano l’impulso alla creazione, lo stimolo che muove verso un percorso ancora da fissare, evocano l’idea del viaggio, la traccia d’un viaggio ancora a stabilire e l’idea del cammino come un primo gesto, un primo passo e il movimento per arrivarci; l’idea di quel movimento restando vaga e insieme ben presente nella mente di qualcuno senza il punto chiaro del suo esito, là dove essa dovrà condurli.



Guardando alcune sculture ceramiche al Mic di Faenza


Pietre lucidate come fossero ricoperte della pelle d’un serpente divengono grandi rettili striscianti gialli, ocra e neri simili a un monolitico pezzo di pietra assumendo la forma ondulatoria d’una serpe pitonata plasmandosi a creatura della terra, morbida e mimetica senza volto delineato (Sangwoo Kim). In altri casi i vasi ricoperti di grès bianco, smalti e porcellane assumono forme affusolate, allungate, morbide o spigolose, concave o convesse, aperte o chiuse. Qualche volta sono intessute attraverso fili trasparenti o di ferro, ricoperti di ingobbi di smalto, plasmati in una loro intrinseca energia che li rende forma unica a loro soli.
Una materia plastica appare, (Frank Louis, “Offal”),  rossiccia come viticcio, vischiosa, informe, masticata quasi e rigurgitata fuori in sembianza di smalto, legno, viti e cinghie a pressione come fosse l’imballaggio d’un opera non-finita, d’un oggetto di scultura in uno stadio primario di lavorazione depositato là in quel luogo come per un errore sul destinatario. Calda e vischiosa, malleabile e magmatica, la materia è lucidata e fissata dal suo primario nucleo d’origine. 
“Quando l’argilla sogna”(Natasa Sadej) sogna di essere sospesa in aria, aerea, leggera o senza più forza gravitazionale che la tenga ancorata al suolo, simile a un pianeta, all’emisfero d’un altro sistema solare, a una piccola sfera di cristallo  fluttuante in cielo. Sogna d’essere un fiore dischiuso, una palla da football coperta di cristalli diamantati e rossi tulipani, sogna d’essere bianca argilla e forme arzigogolate di smalto lucido e ferro in coaguli e macchie vermiglie. Sogna d’essere un pianeta a parte o una meteorite in discesa libera sulla terra, la dispersione ordinata d’un nugolo di farfalle o bianchi voli di stormi, una forma sferica in elevazione, vivida, aperta o simile a un fiore sbocciato.







Helene Kirchmair, “bobbles”( bolle di schiuma o di sapone, d’acqua solidificata o di ghiaccio congelato durante un gelido inverno)

Esamina le superfici, ordina, disordina, ritaglia e colora sperimentando con le infinite possibilità della materia, degli oggetti quando sono modellati, affinati o alterati nelle loro possibilità espressive per intrusione di materiali e tecniche diverse .  Spruzza di smalto, plasma e leviga le superfici dando forma a bianchi dossi; ora scava incavi, curve o linee morbide e vellutate quasi che la creta scolpita si rendesse talmente malleabile da divenire dal suo fondo d’argilla seta e rinviare a un effetto di “morbidezza, tatto e velluto”.  Ora, nella seconda scultura,  ricopre la superficie d’una infinità di minuscoli granuli sferici, organici  e in rilievo, minuscoli ma tanto reali da invitare i visitatori a sentire, toccare, utilizzare i sensi e il tatto, e vedere con gli occhi della mente per andare oltre la diretta riconoscibilità della materia. Pollini in pietra simili a semi o pulviscoli visti attraverso l’occhio d’un microscopio evocano la superficie squamosa d’un sasso o la pelle d’un serpente, ora la morbidezza d’una carezza sul corpo, ora l’epidermide analizzata al microscopio come scendendo dentro i tessuti a livello monocellulare. Ora, infine, sono bolle di sapone attraversate da un filo di ferro,  fotografate come tante piccole conchiglie di mare frammiste a griglie blu aspre e taglienti: fossili, squame o lische di pesci, residui e lasciti ricoperti dal sentore acre dell’acqua di mare appaiono mimetizzati alla sabbia ceramica e deposti sulla riva-tela nel corso d’un rigido inverno.


I rami di un albero( Ana Cecilia Hilar, “Habitat”)  simili allo scheletro osseo d’un cespuglio  si dipanano verso l’alto in mille direzioni senza tronco né radici; si dispiegano nello spazio in linee irregolari e contorte, irriverenti e spaziose. La loro corteccia bianca e scarna, fatta di terraglia dissecata ricoperta di lucido smalto si erge verso il soffitto come fossero le branche animate d’una creatura vegetale e vivente, organica e ribelle, spaziosa, aerea e bianchissima, che nitida si dispiegano attraverso lo spazio, infiltrandosi tra gli oggetti e le forme contro la staticità dell’ambiente circostante.
  





mercoledì 5 agosto 2015

Da "Corposamente 2015": Visioni video di A. Bernabini e un "Recital" del Teatro delle Albe



















Luna piena alta su un cielo coperto, plumbeo, oscurato da una leggera patina di indaco blu tendente all’ultranero che promette tempesta per il giorno successivo. Alle nostre spalle si erge l’imponente palazzo Grossi, cinquecentesco castello e fortezza insieme con le sue colonne portanti tendenti verso l’alto, i suoi smerli e torri in pietra a vista rigide e magnificenti nelle loro linee di forza. La facciata antica in immobile presenza si è prestata poco prima a divenire schermo per l’installazione visiva di Andrea Bernabini: fantomatico spazio di affioramento, composizione e altrettanta rapidissima scomposizione di immagini in movimento; moduli astratti, qualche volta figure del sogno, profili di corpi robotici o volti appena accennati si sono susseguiti e visti diluire a velocità psichedelica in colori elettrici, in linee e ellissi disegnandosi per deformarsi e dileguare su una piattaforma digitale. Apparizioni dal virtuale tecnologico o subliminali fantasmi psichici evocati attraverso quello, non sappiamo. Poi lo sfondo del castello è riapparso nella sua iconicità, nel suo contorno immobile e austero mentre la densità plumbea della notte è discesa completamente ad attendere la venuta dei due attori, l’inizio del recital “E Bal” delle Albe.





Siamo nella totale oscurità dello spiazzo erboso rischiarato ora solo da un bagliore lunare che giungendo da un nucleo lontano, luminoso e distante traccia la sua scia celeste in una perfetta triangolazione tra noi spettatori e i volti apparsi su scena intensamente rischiarati dalle luci elettriche . Sullo sfondo dall’altra parte del prato, il rivale alto del fiume Senio coperto di vegetazione, arbusti e cannucce palustri conduce il nostro sguardo più lontano lasciandoci intuire nell’oscurità l’entroterra della campagna circostante, le distese dei campi oltre il fiume, questa immagine d’una terra ancestrale di Romagna, antica, mitica che si ricongiunge in qualche modo dalle sue radici rurali a un archetipo della nostra memoria collettiva inconscia . Il dialetto, ugualmente è la lingua poetica adottata da Nevio Spadoni che naturalmente aderisce al recitativo della storia di Ezia , donna di campagna abbandonata dall’amante e futuro marito, emarginata dal paese e vista nel suo continuo vagare attraverso il villaggio tentando di trovare un sostituto al vecchio fidanzato scomparso. Nel racconto la donna ne diviene folle con il passare degli anni, presa dentro il proprio delirio personale sul passato fino a perdere il lume della ragione. L’idioma è quello duro, gutturale, “di ferro” appunto come lo definisce Ermanna Montanari dell’entroterra romagnolo, gridato e sputato fuori, stridente, metallico e pieno di ruggine come la voce immaginata per la protagonista femminile; quello che taglia l’aria attraverso le campagne immense e arriva come una lingua viscerale strappata dal fondo della carne, del corpo del giovane attore Magnani. Una parola nuda, gettata sul vuoto della scena, stridente come il suono metallico di un gessetto su una lavagna , incisiva come il graffio d’un artiglio sulla carne viva per modularsi in sonorità dalle varianti ritmiche serie, ora canzonatorie o prettamente comiche, ora grottesche fino a toccare il tragico nel finale con la morte della donna lasciata al suo infausto destino.






Immobile sulla scena l’attore racconta la storia di Ezia attraverso una voce narrante fuori campo, a tratti incarnando quella di lei mentre si scaglia in invettive contro la gente del villaggio che la deride, contro l’amante che l’ha lasciata, sempre e comunque dicendosi in cammino per inseguire la fiammella illusoria d’un barlume di felicità inseguito quanto vagheggiato, intravisto quanto perduto, immaginato quanto smarrito come il filo della sua vita. Il suo linguaggio si colora di imprecazioni, esclamazioni e espressioni tipicamente dialettali intraducibili in italiano, approda infine nel compianto contro il proprio destino, strano gioco che per un giro di vita l’ha lasciata muta, sola, perduta a una danza folle e senza parole.

Un musicista, Simone Marzocchi, accompagna su scena come se in primo luogo la qualità timbrica della voce di Ezia, l’identità stessa del personaggio scaturisse dalla phoné, dal suono del sottofondo musicale oltre che dalla sua parola scagliata fuori in sonorità stridenti, metalliche ora intercalate da brevi silenzi, ora dalle note acute e dai cigolii di fondo dei tre strumenti. Accanto alla tromba appare una sorta di xilofono con suoni dissonanti, infine questa lastra metallica rilucente, argentea e opaca che come una vera e propria tavola di scrittura si rende superficie riflettente, istallazione visiva e sonora dove qualcuno iscrive una storia e insieme dialoga con la propria ombra. La figura in rilievo si staglia nello spazio, emerge illuminandosi di tanto in tanto insieme al volto rapito, attraversato, transito quasi dalla potenza della parola dell’attore Magnani. Perché è, infine, nell’estrema semplicità della visione, nella nudità abitata di quella scena creata solo da poche luci, in quel paesaggio lunare e sullo sfondo d’una terra ancestrale da cui l’idioma origina e trova la sua linfa vitale che nasce e prende corpo il racconto di Spadoni attraverso la presenza indelebile dell’attore su scena. Là, la sua voce riesce a farsi corpo nell’immobilità della figura, a divenire densità e materia sonora, parola poetica infine abitata.