mercoledì 5 agosto 2015

Da "Corposamente 2015": Visioni video di A. Bernabini e un "Recital" del Teatro delle Albe



















Luna piena alta su un cielo coperto, plumbeo, oscurato da una leggera patina di indaco blu tendente all’ultranero che promette tempesta per il giorno successivo. Alle nostre spalle si erge l’imponente palazzo Grossi, cinquecentesco castello e fortezza insieme con le sue colonne portanti tendenti verso l’alto, i suoi smerli e torri in pietra a vista rigide e magnificenti nelle loro linee di forza. La facciata antica in immobile presenza si è prestata poco prima a divenire schermo per l’installazione visiva di Andrea Bernabini: fantomatico spazio di affioramento, composizione e altrettanta rapidissima scomposizione di immagini in movimento; moduli astratti, qualche volta figure del sogno, profili di corpi robotici o volti appena accennati si sono susseguiti e visti diluire a velocità psichedelica in colori elettrici, in linee e ellissi disegnandosi per deformarsi e dileguare su una piattaforma digitale. Apparizioni dal virtuale tecnologico o subliminali fantasmi psichici evocati attraverso quello, non sappiamo. Poi lo sfondo del castello è riapparso nella sua iconicità, nel suo contorno immobile e austero mentre la densità plumbea della notte è discesa completamente ad attendere la venuta dei due attori, l’inizio del recital “E Bal” delle Albe.





Siamo nella totale oscurità dello spiazzo erboso rischiarato ora solo da un bagliore lunare che giungendo da un nucleo lontano, luminoso e distante traccia la sua scia celeste in una perfetta triangolazione tra noi spettatori e i volti apparsi su scena intensamente rischiarati dalle luci elettriche . Sullo sfondo dall’altra parte del prato, il rivale alto del fiume Senio coperto di vegetazione, arbusti e cannucce palustri conduce il nostro sguardo più lontano lasciandoci intuire nell’oscurità l’entroterra della campagna circostante, le distese dei campi oltre il fiume, questa immagine d’una terra ancestrale di Romagna, antica, mitica che si ricongiunge in qualche modo dalle sue radici rurali a un archetipo della nostra memoria collettiva inconscia . Il dialetto, ugualmente è la lingua poetica adottata da Nevio Spadoni che naturalmente aderisce al recitativo della storia di Ezia , donna di campagna abbandonata dall’amante e futuro marito, emarginata dal paese e vista nel suo continuo vagare attraverso il villaggio tentando di trovare un sostituto al vecchio fidanzato scomparso. Nel racconto la donna ne diviene folle con il passare degli anni, presa dentro il proprio delirio personale sul passato fino a perdere il lume della ragione. L’idioma è quello duro, gutturale, “di ferro” appunto come lo definisce Ermanna Montanari dell’entroterra romagnolo, gridato e sputato fuori, stridente, metallico e pieno di ruggine come la voce immaginata per la protagonista femminile; quello che taglia l’aria attraverso le campagne immense e arriva come una lingua viscerale strappata dal fondo della carne, del corpo del giovane attore Magnani. Una parola nuda, gettata sul vuoto della scena, stridente come il suono metallico di un gessetto su una lavagna , incisiva come il graffio d’un artiglio sulla carne viva per modularsi in sonorità dalle varianti ritmiche serie, ora canzonatorie o prettamente comiche, ora grottesche fino a toccare il tragico nel finale con la morte della donna lasciata al suo infausto destino.






Immobile sulla scena l’attore racconta la storia di Ezia attraverso una voce narrante fuori campo, a tratti incarnando quella di lei mentre si scaglia in invettive contro la gente del villaggio che la deride, contro l’amante che l’ha lasciata, sempre e comunque dicendosi in cammino per inseguire la fiammella illusoria d’un barlume di felicità inseguito quanto vagheggiato, intravisto quanto perduto, immaginato quanto smarrito come il filo della sua vita. Il suo linguaggio si colora di imprecazioni, esclamazioni e espressioni tipicamente dialettali intraducibili in italiano, approda infine nel compianto contro il proprio destino, strano gioco che per un giro di vita l’ha lasciata muta, sola, perduta a una danza folle e senza parole.

Un musicista, Simone Marzocchi, accompagna su scena come se in primo luogo la qualità timbrica della voce di Ezia, l’identità stessa del personaggio scaturisse dalla phoné, dal suono del sottofondo musicale oltre che dalla sua parola scagliata fuori in sonorità stridenti, metalliche ora intercalate da brevi silenzi, ora dalle note acute e dai cigolii di fondo dei tre strumenti. Accanto alla tromba appare una sorta di xilofono con suoni dissonanti, infine questa lastra metallica rilucente, argentea e opaca che come una vera e propria tavola di scrittura si rende superficie riflettente, istallazione visiva e sonora dove qualcuno iscrive una storia e insieme dialoga con la propria ombra. La figura in rilievo si staglia nello spazio, emerge illuminandosi di tanto in tanto insieme al volto rapito, attraversato, transito quasi dalla potenza della parola dell’attore Magnani. Perché è, infine, nell’estrema semplicità della visione, nella nudità abitata di quella scena creata solo da poche luci, in quel paesaggio lunare e sullo sfondo d’una terra ancestrale da cui l’idioma origina e trova la sua linfa vitale che nasce e prende corpo il racconto di Spadoni attraverso la presenza indelebile dell’attore su scena. Là, la sua voce riesce a farsi corpo nell’immobilità della figura, a divenire densità e materia sonora, parola poetica infine abitata.








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