martedì 25 agosto 2015

Il volto del contemporaneo attraverso la scultura ceramica ( 59 Premio Internazionale al Mic di Faenza) I Parte














Immagini libere a partire da alcune opere..










Silvia Celeste Calcagno, “Interno8"

Un abito a fiori ricompare in diverse immagini e posture mentre parti del corpo femminile  sono inquadrate sensualmente in primissimo piano frammentate o in dettaglio: piedi o lembi di gambe nude, ginocchia o mani intrecciate, scarpe nere o tacchi da sera , braccia o capelli lievemente sfiorati dall’acqua. Piccole piastrelle ceramiche si combinano l’una all’altra nel montaggio come moduli di grès stampati a fuoco accompagnati dal sottofondo audio della voce narrante fuori campo mentre una figura femminile è vista immergersi o avvicinarsi a una vasca da bagno. Visioni ravvicinate o a distanza, i dettagli del corpo sono intravisti attraverso un abito di seta, leggero e svolazzante, inquadrato in immagini sfuocate come attraverso una lente opaca  che distanzia, ricopre e filtra le medesime riportandole a  un’epoca indefinita del passato, a un’ambientazione vaga o  a una figura a metà cancellata dalla memoria. Il bagno rituale evoca l’abbandono o il riavvicinamento all’acqua, un tentativo  di re-immersione o ritorno al suo elemento primario, simbolicamente inteso come un rito di purificazione, di rinnovamento e rinascita passando attraverso una fonte quasi battesimale. L’immagine, tuttavia, resta ancorata al passato, a un’epoca precedente quasi scandendo un’esistenza che risorge dall’oblio, che lotta come questi frammenti di memoria, come queste parti di corpo separate e infrante per risorgere e tornare poeticamente alla vita, in dettagli, a bagliori e non fosse che per qualche istante. Una voce fuori campo ripete in una registrazione audio, ipnoticamente all’infinito, una serie di immagini  in associazione libera, totalmente aleatoria  nel tentativo quasi, dice, di “abortire” , o meglio abolire o obliare un viso. Quasi che volesse consegnare all’oblio la sua  immagine semi-sbiadita e insieme avvolgere quell’oblio in un grido disperante, pieno di rabbia e  di ardore, malgrado  la rivolta, verso la vita: “su un ritratto sbiadito, su una danza inadeguata, su uno sguardo rubato, su un sorriso forzato, su una fiamma interrotta, su un livido viola, su una folla impazzita”, afferma la voce, “io abortirò il tuo viso”.  “Su un tappeto di pietra, su un cuscino macchiato, su una tenda strappata, su una foto ingiallita , sul coraggio di una scelta io abortirò il tuo viso”; "sul disordine del quotidiano, su un tappeto arrotolato, su labbra disegnate, su una sedia barocca, su un ritratto schermito, su un volto invasivo io griderò alla vita”. "Su una domenica imperfetta, su una rosa impazzita, su un mare in tempesta, su uno stivale borchiato, sulla  costanza d’una promessa io griderò alla vita” afferma il monologare della voce  fuori campo mentre una serie di immagini scorrono, disconnesse  e insieme investite d’una soggettività impersonale, d’una fragilità esposta, che si rende tangibile pur restando celata tra le righe nel montaggio delle minuscole fototessere.





Yves Malfliet, “Somewhere...over the montains”



“L’immagine d’una casa florida su una montagna, il sentimento famigliare nella combinazione dualistica del bianco e del nero, immagini in movimento d’un combattimento aereo”.

Una casa si erge sulla cima di una montagna che assomiglia a un dirupo, oro e nero, pietra arenaria intensamente scolpita con venature di folgore smeraldo, e l’oro di rifiniture che divengono chiome d’alberi, comignoli, estremità contorte e scintillanti sporgendosi dalle asperità della roccia. Su uno schermo contro un muro l’espansione immaginifica della scultura si proietta in immagini in movimento in bianco e nero che evocano combattimenti aerei e aviatori durante la prima guerra mondiale, voli oceanici, un dirupo e una collina, una casa e una guerra sullo sfondo della grande storia. L’estremità di braccia si sollevano sporgendosi in grida d’invocazione verso l’esterno, in cenni di braccia levate mentre l’oro, appare come l’ultimo baluardo di salvezza in dualistica opposizione all’oscurità granitica della pietra smaltata e riflettente.










Paolo Polloniato, “Metamosaic”: Una parete di mosaico andata in frantumi, del bianco e del sale.
La terra è arsa, prosciugata dall’acqua del mare, rimasta frastagliata, rotta in crepe irregolari come i frammenti della ceramica dissecata dal sole e impregnata dalla salinità del suolo anche quando il mare se n’è andato. L’infinità della terra, la secchezza della pietra, la solarità di quella regione calda e afosa battuta dal vento e dall’aridità della stagione estiva.

Thomas Stollar , “Steps” I primi passi creano forme irregolari, costituiscono dei percorsi tortuosi a mattonelle disegnate, dei circuiti chiusi dove non sono chiari né l’inizio né la fine. I primi passi in ogni dove creano dei tracciati provvisori con dei vuoti all’interno e degli spazi bianchi da riempire: delle forme approssimative, soggette ancora o in fase di rimaneggiamento, di interne evoluzioni o rivoluzioni. Disegnano delle regioni plastiche disabitate o in attesa di altre frequentazioni, delle terre di confine, degli arcipelaghi o delle isole dalla circumnavigazione incerta e possibile, non ancora definita. Questi passi, i primi in ogni campo in cui ci si muove e si prende terreno designano l’impulso alla creazione, lo stimolo che muove verso un percorso ancora da fissare, evocano l’idea del viaggio, la traccia d’un viaggio ancora a stabilire e l’idea del cammino come un primo gesto, un primo passo e il movimento per arrivarci; l’idea di quel movimento restando vaga e insieme ben presente nella mente di qualcuno senza il punto chiaro del suo esito, là dove essa dovrà condurli.



Guardando alcune sculture ceramiche al Mic di Faenza


Pietre lucidate come fossero ricoperte della pelle d’un serpente divengono grandi rettili striscianti gialli, ocra e neri simili a un monolitico pezzo di pietra assumendo la forma ondulatoria d’una serpe pitonata plasmandosi a creatura della terra, morbida e mimetica senza volto delineato (Sangwoo Kim). In altri casi i vasi ricoperti di grès bianco, smalti e porcellane assumono forme affusolate, allungate, morbide o spigolose, concave o convesse, aperte o chiuse. Qualche volta sono intessute attraverso fili trasparenti o di ferro, ricoperti di ingobbi di smalto, plasmati in una loro intrinseca energia che li rende forma unica a loro soli.
Una materia plastica appare, (Frank Louis, “Offal”),  rossiccia come viticcio, vischiosa, informe, masticata quasi e rigurgitata fuori in sembianza di smalto, legno, viti e cinghie a pressione come fosse l’imballaggio d’un opera non-finita, d’un oggetto di scultura in uno stadio primario di lavorazione depositato là in quel luogo come per un errore sul destinatario. Calda e vischiosa, malleabile e magmatica, la materia è lucidata e fissata dal suo primario nucleo d’origine. 
“Quando l’argilla sogna”(Natasa Sadej) sogna di essere sospesa in aria, aerea, leggera o senza più forza gravitazionale che la tenga ancorata al suolo, simile a un pianeta, all’emisfero d’un altro sistema solare, a una piccola sfera di cristallo  fluttuante in cielo. Sogna d’essere un fiore dischiuso, una palla da football coperta di cristalli diamantati e rossi tulipani, sogna d’essere bianca argilla e forme arzigogolate di smalto lucido e ferro in coaguli e macchie vermiglie. Sogna d’essere un pianeta a parte o una meteorite in discesa libera sulla terra, la dispersione ordinata d’un nugolo di farfalle o bianchi voli di stormi, una forma sferica in elevazione, vivida, aperta o simile a un fiore sbocciato.







Helene Kirchmair, “bobbles”( bolle di schiuma o di sapone, d’acqua solidificata o di ghiaccio congelato durante un gelido inverno)

Esamina le superfici, ordina, disordina, ritaglia e colora sperimentando con le infinite possibilità della materia, degli oggetti quando sono modellati, affinati o alterati nelle loro possibilità espressive per intrusione di materiali e tecniche diverse .  Spruzza di smalto, plasma e leviga le superfici dando forma a bianchi dossi; ora scava incavi, curve o linee morbide e vellutate quasi che la creta scolpita si rendesse talmente malleabile da divenire dal suo fondo d’argilla seta e rinviare a un effetto di “morbidezza, tatto e velluto”.  Ora, nella seconda scultura,  ricopre la superficie d’una infinità di minuscoli granuli sferici, organici  e in rilievo, minuscoli ma tanto reali da invitare i visitatori a sentire, toccare, utilizzare i sensi e il tatto, e vedere con gli occhi della mente per andare oltre la diretta riconoscibilità della materia. Pollini in pietra simili a semi o pulviscoli visti attraverso l’occhio d’un microscopio evocano la superficie squamosa d’un sasso o la pelle d’un serpente, ora la morbidezza d’una carezza sul corpo, ora l’epidermide analizzata al microscopio come scendendo dentro i tessuti a livello monocellulare. Ora, infine, sono bolle di sapone attraversate da un filo di ferro,  fotografate come tante piccole conchiglie di mare frammiste a griglie blu aspre e taglienti: fossili, squame o lische di pesci, residui e lasciti ricoperti dal sentore acre dell’acqua di mare appaiono mimetizzati alla sabbia ceramica e deposti sulla riva-tela nel corso d’un rigido inverno.


I rami di un albero( Ana Cecilia Hilar, “Habitat”)  simili allo scheletro osseo d’un cespuglio  si dipanano verso l’alto in mille direzioni senza tronco né radici; si dispiegano nello spazio in linee irregolari e contorte, irriverenti e spaziose. La loro corteccia bianca e scarna, fatta di terraglia dissecata ricoperta di lucido smalto si erge verso il soffitto come fossero le branche animate d’una creatura vegetale e vivente, organica e ribelle, spaziosa, aerea e bianchissima, che nitida si dispiegano attraverso lo spazio, infiltrandosi tra gli oggetti e le forme contro la staticità dell’ambiente circostante.
  





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